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La sera del 6 maggio 1976 la gente
è a casa, mancano pochi minuti alle 21 quando arriva
la prima scossa, rapidissima. Sembra un avvertimento
o forse un addio. Per venti secondi tutto si placa e poi
la Catastrofe, la terra trema e non smette per un
minuto, lungo come l'eternità, corto come la vita che
se ne va. Il sismografo non si ferma, sale i gradi della
scala Mercalli sino alla catastrofe.
Trema tutto in Friuli, i monti, le case che vengono
giù a pezzi o intere. Tremano gli uomini che nella fuga
non ritrovano più la strada che conoscono e se alzano
gli occhi non vedono più i campanili e le torri. La notte
è riempita dalle urla, dalla paura e dai boati della terra.
È soltanto la prima notte dell'Orcolàt, per molte
altre notti d'estate il mostro arriverà per scuotere la
terra sotto il San Simeone e più lontano ancora.
Adesso è la morte e non si sa sino a dove e quanta.
Sul sito della Prot.Civ FVG le immagini online dell'archivio in questione. Il Friuli è pieno di militari di ogni regione, alloggiati
in quella che resta sempre la frontiera sull'Est europeo,
una specie di grande caserma con 57 mila soldati. Ce
ne sono trentamila in Veneto, in Lombardia appena 15
mila, in Sicilia poco più di settemila. Le "servitù militari" occupano 15.345 ettari friulani e 11.147 in Veneto,
insieme potrebbero coprire il territorio di una provincia.
I militari sono i primi a muoversi tra Udine e Pordenone,
con ruspe e elicotteri. Alpini, fanti, genieri scavano
insieme ai civili: già nella notte, a mani nude cercano
sotto le pietre segni di vita.
L'alba del 7 maggio illumina livida il disastro:
paesi interi rasi al suolo, cittadine ricche di storia
come Gemona e Venzone fatte a pezzi. Tutto sparito a
Maiano, Artegna, Moggio, Osoppo, Trasaghis e anche
più lontano, 117 paesi distrutti. Le case che non sono
crollate vengono abbattute perché pericolanti. Ci sono
800 chilometri quadrati di Friuli terremotato, altri tremila chilometri seriamente colpiti, mezzo milione di persone nella bufera, 137 mila si agitano come impazzite dal dolore nella zona più danneggiata, centomila
non hanno più un tetto. I genieri montano tende, cucinano, soccorrono. Arrivano volontari da tutta Italia e
ovunque si raccolgono fondi per i terremotati. Come
sempre, la solidarietà degli uomini unisce l'Italia più
che le leggi dei politici.
Un'industria in crescita viene smontata dalla natura:
6500 imprese danneggiate, 18 mila posti di lavoro a
rischio. Distrutte diecimila aziende agricole, altre 30
mila danneggiate, quattromila stalle e migliaia di capi
di bestiame perduti.
A Osoppo si scava tra le macerie del ristorante 'da
Gardo' dove un gruppo di anziani festeggiava l'anniversario della visita di leva. Trovano vivi il proprietario e
la nuora, i 35 della festa sono morti tutti. A Osoppo, dopo ventuno ore estraggono vivo dalle
macerie un bambino di nove anni, Paolo Fabris.
Colloredo di Montalbano è al centro della piana del
Tagliamento, diecimila abitanti, qui è crollato tutto. Il
castello dove Ippolito Nievo ha scritto "Le confessioni
di un italiano" è ridotto a un cumulo di rovine.
A Forgaria allineano le bare nel cortile della
scuola materna, ogni due ore un operaio spruzza disinfettante.
Gemona, 16 mila abitanti, era un gioiello antico,
nata lungo il tracciato romano, gelosa della sua struttura medievale. Trovano sotto le macerie una bimba
abbracciata alla sua bambola. La calano sotto terra
così, abbracciata al suo giocattolo.
Quelli delle oltre cento vittime di Majano sono i
primi funerali celebrati. Dice il sacerdote: "Il Friuli,
famoso nel mondo per l'operosità della sua gente,
saprà risorgere".
Si era appena smesso di emigrare, adesso in molti
devono ripartire. Eppure c'è qualcosa di non previsto
nel "piccolo popolo" che abita oltre quella che
Piovene chiama "l'antica muraglia" dai monti al mare
tra il Tagliamento e il Livenza. Un popolo chiuso,
anche diffidente, ma tenace, abituato a fare da solo.
Quello che accade dopo è patrimonio umano e sociale del Friuli, ma anche patrimonio nazionale. Lo sforzo
di solidarietà del Paese, infatti, è grande. Lo Stato per
una volta risponde in maniera adeguata, l'intervento
del ministro dell'Interno Cossiga è tempestivo: affida
le risorse alla Regione, concede un'ampia delega alle
amministrazioni locali, nomina commissario straordinario del governo un lombardo che fa nascere il nuovo modello di protezione civile italiana. A distanza di
anni si chiama ancora "modello Friuli". Prima di restituire i poteri ai prefetti, Giuseppe Zamberletti elabora
un piano di prefabbricati per assicurare l'alloggio
entro l'anno ad almeno 40 mila senzatetto e lo affida
alla Regione.
Per tutta l'estate la terra non ha mai smesso di tremare: per 200 volte si è scossa, ha sussultato. Poi l'11 settembre, di sera, in venti secondi fa crollare il lavoro di mesi corne un castello di carte. A Majano gli alpini sono schierati sull'attenti, hanno appena consegnato le case prefabbricate, quando arriva il
terremoto. È una scossa ancora più pericolosa, conferma le paure, demolisce soprattutto le speranze.
Zamberletti ritorna in Friuli e riapre l'emergenza.
Il 15 l'incubo si ripete all'alba, altre frane scendono
dai monti e sei ore dopo in pieno giorno il Friuli è
scosso in ogni punto: la gente alla luce vede tutto, l'asfalto che si apre, la strada che ondeggia, scopre un'altra volta l'orrore che non se n'è mai andato. Di 214 scosse questa è la più terribile. Senza più speranze, la
popolazione è presa dalla rabbia. Il presidente del
Consiglio Giulio Andreotti è costretto a ritirarsi dietro
i cancelli di una caserma per sfuggire alla protesta. Il
vescovo di Udine, monsignor Alfredo Battisti, cerca
inutilmente di convincerlo a incontrare una delegazione. Chi può scappa verso gli alberghi della laguna, a Grado, a Lignano, giù sino a Bibione e Caorle. Per
molti è come andare in esilio. Per tanti l'inverno è sopravvenuto mentre erano in tenda, in roulotte, nel fango e nella neve. Vogliono ricostruire i paesi dove
sono stati distrutti, vogliono salvare il lavoro.
Il freddo non gela la rabbia contro lo Stato e la Regione assenti o troppo lenti. Zamberletti capisce che si deve cambiare, attiva i sindaci e delega le
responsabilità sul territorio. In dieci anni il Friuli viene ricostruito pezzo per pezzo, in qualche caso vecchio mattone per vecchio mattone come per il duomo di Gemona. E senza scandali: quando nel 1986 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini visiterà il Friuli già quasi interamente ricostruito non troverà
tracce del disastro, soprattutto nella gente. La ricostruzione è esemplare, la cultura friulana ha sempre individuato nella casa il rifugio contro ogni sventura. Le vecchie abitazioni erano costruite con pietre di fiume
e anche i muretti erano fatti di pietre raccolte nel letto
dei torrenti. Erano fragili e sono crollati subito. Per le
nuove case si utilizzano mattoni e cemento e sistemi antisismici. I friulani si legano a quello che il terremoto ha quasi cancellato: non soltanto le case, ma la civiltà contadina, la lingua stessa. Certo il terremoto ha accelerato una tendenza al consumismo.
Con le macerie la regione spazza via anche le
miserie del passato, le paure, le angosce. La spinta
della ricostruzione è tale che il Friuli schizza in alto
nelle classifiche dei consumi e del benessere. Lo slogan della ricostruzione è "prima le fabbriche, poi le case". Le migliaia di miliardi messi a disposizione
dallo Stato funzionano da volano dell'economia. Sono soldi spesi bene, senza gli inganni dell'Irpinia dove nel 1980 il terremoto porterà più fondi e meno
opere per l'avidità degli uomini e del potere politico.
Il terremoto diventa per i friulani uno spartiacque:
quelli nati prima, quelli venuti dopo, quelli che c'erano e quelli che hanno solamente sentito raccontare.
Spiega lo scrittore Carlo Sgorlon: "Il terremoto ha
prodotto una mentalità più moderna, ma in senso
egoistico e chiuso... Qui c'è una vocazione a far funzionare le cose. Non c'è la retorica della socialità, ma
c'è la socialità".
L'arcivescovo Battisti, un padovano di Masi, pone
con vigore la "questione morale" del dopoterremoto.
Parla di "ricostruzione delle coscienze", quella che la
società civile ha più difficoltà a individuare, la meno
visibile. Battisti invita i friulani a non lasciarsi "omologare", a reagire alla modernizzazione forzata. In anni in cui la politica friulana è tormentata da uomini e storie di profilo non alto, l'arcivescovo organizza la
"fede porta a porta" nelle vie di Udine.
C'è un dopoterremoto anche nel terrorismo, lo si scoprirà quando un contadino troverà in un frigorifero semisepolto sul greto del Tagliamento i volantini delle Brigate rosse con una loro strategia nel Friuli della ricostruzione.
Al cinema ha successo un veneziano che si era fatto
notare giovanissimo in un ruolo nel "Gattopardo" di
Luchino Visconti. Si chiama Mario Girotti, è nato nel
1935, diventa popolare col nome di Terence Hill,
interpreta Trinità nella fortunata serie con Bud
Spencer, il napoletano Carlo Pedersoli ex campione
italiano di nuoto.
Alle Olimpiadi di Montreal gli unici ori dell'Italia
vengono dal Triveneto. Per il solito Klaus Di Biasi è
l'ultimo tuffo dalla piattaforma perché poi lascerà lo
sport. Il veneziano Fabio Dal Zotto, 25 anni, dà
all'Italia la medaglia del fioretto che manca dal
1936. Viene dalla scuola mestrina del maestro Livio
Di Rosa, passa per un rompiballe, sulla pedana è da
antologia.
Livio Di Rosa nella sua palestra del Coni insegna
un modo di tirare di fioretto che diventa leggenda.
Nato nel 1912 a Livorno, discreto sciabolatore in
gioventù, anche se il vero campione della famiglia
era il fratello Manlio che ha vinto due ori olimpici e
cinque titoli mondiali. Nel '36 diventa maestro, si trasferisce per un decennio a Praga, va in Egitto dove
è insegnante privato di re Farouk, corpulento e gaudente. Nel '62 approda a Mestre e su quelle pedane
di legno costruisce la sua scuola. Per lui la scherma
è la strada per la semplicità e per la felicità: "È il
ritorno alla natura", dice. E spiega il suo segreto:
"Essere semplici, trovare la strada più corta anche se
è la più vecchia. Meglio fare benissimo una cosa
facile che benino una difficile". Se la ride di gusto di
francesi e russi che filmano gli incontri dei suoi
ragazzi: "Grulli che non sono altro! La mia scherma
non si capisce in tv, si comprende parlando".
Alleva i più grandi talenti della scherma azzurra,
ma spesso ha tutti contro: "Sino ad ora siamo riusciti
a coltivare pomodori sul cemento. Ma quanto
durerà?". Per lui che viveva di sport e per lo sport,
crescere come veri uomini veniva prima di tutto,
anche prima dello sport. Quando morirà nel 1992 la
sua sarà la scuola più titolata del mondo, vent'anni di
trionfi italiani sono soprattutto suoi trionfi.
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Un tempo, leggevi queste cose e ti trovavi su www.vajont.org.
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