Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont


(* = puoi leggere)

*7 - Presentazione di Marco Paolini

*9 - Una storia d'oggi, di Giampaolo Pansa

*19 - Introduzione

* - Il paese di Erto e Casso*

*35 - Arriva la SADE


47 - Gli espropri delle terre

57 - Il Consorzio per la difesa della valle ertana

71 - La più grande diga del mondo

83 - La montagna si spacca

95 - Verso la tragedia

107 L'assassinio si compie

125 La diaspora


*163 Vent'anni dopo

*169 Una donna contro di Vanda Milano


173 Bibliografia

175 Indice dei nomi

Il paese di Erto e Casso

Erto e Casso, 1956.

La denominazione del Comune configura il centro di Erto sede del municipio, della scuola, della posta, dei carabinieri; di Casso, la più grossa frazione distante dal centro quattro chilometri e di altre frazioni e borgate situate all'imbocco ed entro la vallata: San Martino, Pineda, Spesse, Prada, Liron, Col della Ruava, Forcai, Valdapont. Erto è posto a 776 metri sul livello del mare. Casso un po' più in alto, a 951. Entrambi costruiti sopra o a ridosso di materiali di riporto di antiche frane, cadute nel Cinque-Seicento, assestatesi definitivamente e che fino a questo 1956 non han più dato granchè fastidio, tranne in qualche eccezionale evento di piogge torrentizie. Allora le montagne riversano in fondovalle le acque di innumerevoli torrentelli che trascinano una gran quantità di detriti argillosi e provocano, causa la permeabilità del terreno, qualche piccolo franamento.
Erto, 906 abitanti. Casso, 456. L'intero territorio comunale, 1959: 1041 maschi, 1058 femmine.
l due borghi sorgono sulla riva destra del Vajont, un torrente che taglia l'ampia valle a metà: da una parte il monte e i due centri più importanti; dall'altra i pascoli, i boschi, i campi a ridosso di altre montagne, tra le quali il Toc. Anche queste montagne sono spuntoni di frana, ma lungo i loro declivi sorgono grumi di case - Pineda, Prada, Liron - abitazioni sparse, stalle, coltivi. È soprattutto da questa parte che ci sono «i beni» degli ertani e dei cassani, il loro maggiore reddito derivato dalle terre e dal bestiame. Spesso anche la loro doppia casa, abitata dalla primavera all'autunno, dove si trasferiscono con gli armenti per coltivare e produrre. Non è la «casera», come d'uso per i contadini lungo la vallata del Piave, che adoperano questo casolare sgangherato (un unico locale fatto di sassi, con soppalco, spesso senza finestre) per portare due mesi all'alpeggio il bestiame. È proprio una casa, come quella di Erto e Casso, per starci la maggior parte dell'anno, accanto al lavoro. Costruita con le proprie mani. Per non dover scendere e salire ogni giorno i duri sentieri che attraversano la vallata dove scorre il Vajont, «modesto affluente che sbocca nel Piave» scrive nel 1955 Carlo Semenza, il progettista della diga futura [1]. Anche se, all'occasione, per bisogno del medico, del veterinario, della spesa, gli uomini e le donne di Erto e Casso vanno da un versante all'altro in un batter d'occhio, spesso con grosse gerle in spalla, su sentieri conosciuti e vecchi di secoli. I bambini percorrono gli stessi sentieri per recarsi alla scuola di Erto, anche quando la neve arriva a novembre e la famiglia non si è ancora trasferita al di qua della valle.

Insomma è una doppia casa non per villeggiare ma per produrre. Gli ertani che hanno un po' di terra oltre Vajont sono considerati benestanti, anche se diversi membri della famiglia, i più grandi, vanno via, emigrano a Milano, Torino, in Svizzera, in Belgio. È una comunità che si «accontenta», non chiede una vita troppo diversa, è abituata ad essere emarginata, a vivere isolata, a pensare ai fatti suoi, ma anche a non accettare che altri si immischi nelle sue faccende. Si rinsalda, così, una solidarietà a difesa del proprio modo di vivere e di pensare che non ammette intrusi. I giovanotti che salgono dal versante bellunese per qualche ballo in osteria, per corteggiare le ragazze di Erto ritenute più libere di quelle del fondovalle, più genuine e certune molto belle, vengono presi a sassate. Si dice, degli ertani, che sono un popolo primitivo. Cosa significa?
Che sono liberi come il vento della loro vallata o come i galli cedroni che ancora stanziano sulle loro montagne? Che hanno profondo il senso della giustizia? Che sono sospettosi degli estranei delle loro parole, delle loro «carte» sempre usate - parole e carte - per imbrogliarli?
Che il loro isolamento ha prodotto una comunità che tenta di dirimere al suo interno le controversie locali? Che questa comunità conserva gelosamente usi e costumi antichi, di una civiltà primitiva appunto, ma basata sulla saggezza, sulla giustizia, sulla verità? La «civiltà» che in seguito approderà ad Erto con la SADE e i suoi manutengoli e si confronterà con la «primitività» degli ertani ne uscirà moralmente sconfitta, anche se vincerà la partita. Il futuro che si prepara per Erto non avrà un cuore antico.
Adesso, 1956, il popolo di Erto ha ancora fiducia in se stesso, malgrado tutto.
Malgrado le sue ricorrenti liti interne, tra il popolo di Erto e il popolo di Casso, due comunità abbastanza diverse per crescita, influenze esterne, dialetti. Erto gravita sulla Valcellina, è Friuli, ha contatti con gli altri paesi della lunga e stretta vallata. Il suo dialetto è un misto fra friulano e ladino, quest'ultimo reminiscenza tramandata dai primi uomini che fondarono il borgo. Che furono, sembra, dei cimbri [2].

Casso, posto all'imbocco della vallata verso il versante bellunese, parla un altro e diverso dialetto, più vicino a quello veneto e bellunese di Longarone. Con Longarone intrattiene rapporti commerciali e di amicizie personali. Le ragazze sposano giovanotti di Codissago, Dogna, Provagna, frazioni di Longarone e di Castellavazzo situate sulla sinistra del Piave, da dove parte l'unica stretta strada bianca che porta ad Erto e Casso, con lunghe giravolte, rasentando burroni. Forse anche per questo i due centri si guardano spesso in cagnesco. Ma anche perchè Casso è sorta dopo di Erto, e la sua popolazione ha dovuto sopravvivere cercando terre da coltivare sotto il Toc, inciampando nella gente di Erto che ne era sempre stata padrona [3].

Il Comune di Erto e Casso, pur appartenendo al Friuli, gravita sul distretto di Belluno per quanto riguarda l'amministrazione della giustizia. Le liti tra ertani e cassani si discutono alla Pretura di Belluno. E ai partiti politici di Belluno è stata demandata, dalle rispettive direzioni, la cura politica della zona, essendo Erto e Casso più vicino alle organizzazioni provinciali di Belluno che non a quelle di Udine (la Provincia di Pordenone non è stata ancora creata). D'altronde, la provincia di Belluno fa collegio circoscrizionale con Udine e Gorizia. A Casso prende molti voti un deputato DC di Belluno, l'avvocato Giacomo Corona, originario del borgo, dove la maggioranza dei voti è sempre stata per lo scudo crociato. Dicono gli ertani: «A Casso votano tutti DC; il prete li mette in fila e li porta lui, al seggio elettorale». Ad Erto, invece, la gente tira più a sinistra, socialisti e comunisti che adesso, 1956, amministrano il Comune.

Gli antichi rancori, le vecchie diffidenze sono forse state all'origine anche di questa divisione politica, che si alimenta di polemiche sui «baciapile» e sui «rossi», perpetuando il sospetto reciproco delle due comunità. Anche se i rispettivi portavoce in consiglio comunale si battono spesso insieme, poichè gli interessi comuni lasciano poco spazio alle divisioni ideologiche, riservate più che altro alle polemiche di osteria e a qualche scontro verbale durante la campagna elettorale per le elezioni politiche.

La vita sociale delle due comunità è tutta nelle osterie. Ve ne sono 9 a Erto e 2 a Casso: si discute animatamente e rumorosamente, si beve vino e grappa, si balla al suono della fisarmonica, si gioca a «morra» fino a farsi sanguinare le dita [4]. Gli ambulanti riportano le notizie del mondo esterno [5]; qualche operaio, quelle delle fabbriche di Longarone o dei cantieri edili delle due province confinanti; gli emigrati, d'inverno, quelle dei paesi dell'estero [6]. E si bestemmia molto e molto fantasiosamente. Lo si fa senza alcuna volontà di offendere la religione; qui, a loro modo, sono tutti profondamente cristiani. La bestemmia è semplicemente un modo d'intercalare qualsiasi discorso: dissentire con forza rafforzare una propria dichiarata convinzione, irridere qualcuno o qualcosa, insomma fa parte del linguaggio locale, del modo di esprimersi di chi non è andato oltre le scuole elementari e conosce poche parole.
Dio non c'entra. Lo sanno bene i parroci delle due parrocchie che malgrado gli sforzi non sono riusciti a modificare una «parlata» che, tra dialetto e bestemmia, risulta tanto colorita.

Dio c'entra, a Erto, per altre cose. O, meglio, c'entra il Cristo-uomo perseguitato e deriso dai potenti e alfine crocefisso.
Non si sa esattamente a quando risalga la tradizione della rappresentazione della passione di Cristo che gli ertani mettono in scena ogni Venerdì santo [7]. Un tempo si svolgeva partendo dalla chiesa e con l'autorizzazione delle autorità religiose. In seguito «attori-comunità» e prete vennero a diverbio [8] e la rappresentazione assunse l'aspetto laico. Adesso non si fa più con la benedizione del prete, che ritiene la processione un oltraggio alla religione; È solo e tutta opera degli abitanti, che la preparano accuratamente per tutto l'anno, parti e costumi, la gestiscono in proprio, gelosi di una loro autonomia nel rappresentare il fatto secondo i sentimenti propri. Per la verità è di gusto un po' pagano, ma resta, forse proprio per questo, una delle più belle che ancora sopravvivono. Inizia di pomeriggio, con i bambini che percorrono le stradine del paese battendo lugubramente sui tamburi, a preparare l'atmosfera di ciò che quel giorno dovrà accadere. Cioè la morte del Giusto, con il quale la comunità si immedesima (forse per questo «sacrilegio» la Chiesa non vedeva la cosa di buon occhio). Appena scende la notte, la processione prende il via dalle scuole: attori vestiti da soldati romani, da Pilato, da Caifa, da Maddalena, da Giuda, da Cireneo, da Gesù e da Barabba percorrono il paese e si portano su un colle a ridosso delle case. Qui si celebra il processo, il tradimento di Giuda, la condanna, la crocefissione, sotto il vento che spazza la valle, nelle tenebre circonfuse da riflettori che inquadrano le varie scene. Prima dell'ultimo atto della crocefissione, il corteo ripercorre il paese con il condannato seminudo che trascina la sua grossa croce e cade tre volte e tre volte si rialza sotto la sferza dei soldati. Alla fine della rappresentazione, tutti contenti, si torna in osteria e si ricomincia a bere e a bestemmiare.
Qualche volta si dimentica il Giuda appeso all'albero sopra il colle.
Fare la parte del Cristo è sempre un privilegio. Si sceglie, di solito, il ragazzo fisicamente più bello e prestante. Egli si ricorderà per lunghi anni di aver avuto, una volta, tale onore.

Tra le storie di osteria un posto preminente hanno i racconti di guerra. La Prima guerra mondiale ha decimato la popolazione maschile di Erto, quasi tutta alle armi nel Corpo degli Alpini. Sul monumento che sorge accanto al cimitero sono incisi ben 68 nomi di caduti. Nella Seconda guerra mondiale i caduti risultano di meno: 13 morti sui vari fronti e 19 dispersi, quasi tutti in Russia con la «Julia». La Resistenza ha quassù un capitolo a parte.

In val Mesazzo, sotto il monte Toc, soggiornò nell'inverno 1943-44 un gruppo di partigiani provenienti dal Bellunese [9], che compì le prime azioni nella zona fraternizzando con la popolazione e svolgendo così una prima azione di orientamento politico [10]. Successivamente si espanse in Valcellina il movimento partigiano friulano [11]. Erto divenne zona di rastrellamenti e deportazioni [12], e, in conseguenza, di appoggio sempre maggiore alla Resistenza. Ebbe 5 partigiani caduti, 1 disperso, 11 civili uccisi, tre dei quali morti in campo di concentramento. I discorsi sulla guerra percorrono sempre due binari: quello del ricordo affettuoso dei commilitoni con i quali si è vissuto tanto tempo, che magari sono morti e «poteva toccare a me», il racconto orgoglioso delle gesta comuni; quello delle maledizioni su «il per chi» e «il per cosa» ci si è fatti massacrare. Parlare di Patria è quasi un insulto, anche se gli ertani vanno a qualche anniversario, più che altro per ricordare se stessi e i loro caduti. Vanno anche alle manifesrazioni degli alpini, ma la Patria non c'entra. Ci vanno per spirito di corpo e perchè, quando erano militari, in guerra o in pace, si sentivano qualcuno, e quindi ricordano, di quel periodo, l'amicizia dei compagni, la vita in comune, i sacrifici e i pericoli, le baldorie. E poi, essere alpini per la gente di montagna assume anche un altro significato: essere forti e resistenti ad ogni fatica. È bello sentirsi applaudire dalla gente sfilando per le vie di Roma o di Milano. Non sono molte, per i montanari, le occasioni per farsi applaudire. Ma la Patria non c'entra proprio, anche se avevano creduto di difenderla durante la Resistenza.
Difenderla per cambiarla.

Probabilmente anche allora gli ertani difendevano soltanto la loro terra, come era giusto. La Patria è un'altra cosa: la guerra, le tasse da pagare, le carte da bollo, i carabinieri. La Patria, insomma, è la loro controparte.

Anche i rapporti politici si vivono a Erto in maniera particolare. Le liste elettorali per il Comune sono un miscuglio di nomi appartenenti a diversi partiti o orientamenti. Hanno spesso simboli neutri, raffigurano prodotti della terra, arnesi di lavoro, cime di montagne, fiori. I candidati passano senza timore da una lista all'altra, anche se due sono i raggruppamenti maggiori: la lista «dei preti» e quella delle sinistre. Il panorama politico si ricompone nelle elezioni per la Camera e il Senato.

È l'occasione in cui ogni partito esce alla luce del sole, con il proprio simbolo e la propria lista. Nelle votazioni per la Camera dei Deputati del 1953 la DC ha preso 309 voti, il PSI 193, il PCI 98, il PSD 77. Oltre a qualche voto sparso andato ai partiti costituzionali minori, le elezioni del 1953 hanno registrato a Erto due grosse sorprese: 68 voti al MSI e ben 221 a una lista denominata «Stella e Corona». Una stranezza. Che sottolinea, comunque, il modo in cui si vive e «si sente» la politica a Erto. Soltanto durante la campagna elettorale arriva qualche oratore dal capoluogo di provincia, più che altro per rincuorare gli uomini della propria lista, che fanno un po' di chiasso per preparare il comizio. Solo in queste occasioni gli animi si accendono per i partiti, vola qualche invettiva. Regna il patriottismo e, spesso, il settarismo di partito. Il PCI non va mai a Casso; è zona decisamente influenzata dalla DC e dal prete. Infatti tutti i suoi voti li prende a Erto [13].

Questo è Erto Casso nel 1956, all'inizio di questa cronistoria e della vera «passione» degli ertocassani. Al Comune regna una giunta di sinistra, sindaco una donna, Caterina Filippin, che i paesani chiamano familiarmente Cate, nipote di quella Domenica Filippin morta sotto le torture nella Gendarmeria tedesca di Belluno. E moglie del medico del paese, esponente socialista locale; gestisce il negozio di alimentari con annessi bar e tabacchi che fu di sua zia e ha preso il maggior numero di preferenze della lista unitaria. È energica, come tutte le donne di montagna; è amata dalla gente. È l'anno «ultimo», prima che la SADE inizi a costruire la più grande diga del mondo.

NOTE



1) Scritti di Carlo Semenza, a cura dell'Ufficio Studi della SADE, Venezia 1962.
2) Sulle origini di Erto si sono cimentati diversi studiosi.
Secondo il sacerdote Domenico De Filippo il paese fu fondato da una colonia di cimbri scampati nel 101 a.C. allo sterminio di Mario, avvenuto presso Vercelli dove i cimbri erano sconfinati dalla Spagna. La colonia si sarebbe rifugiata nella valle del Vajont fondandovi Erto. Altri sostengono che il centro abbia origine più antica, dimostrata dal ritrovamento, alcuni anni fa, di oggetti risalenti all'epoca romana, venuti alla luce durante i lavori di sbancamento per la costruzione di una strada. Un altro studioso, Giorgio Valussi, ritiene che il più antico insediamento della vallata sia quello di San Martino, ora completamente distrutto dall'ondata del 9 ottobre 1963, risalente all'epoca dei Longobardi dal cui protettore, S. Martino, avrebbe preso il nome. Un appassionato di storia locale, Attilio Corona, suggerisce alcune interpretazioni, non certo da scartare, sull'origine del nome di Erto. Potrebbe egli dice, discendere dalla dea longobarda Elerta, da cui Hert che si ritrova ancora citato in vecchi manoscritti; oppure dal latino Nertus, da cui Nert, come viene ancora chiamato il paese nel dialetto locale.

3) Giorgio Valussi attesta che la prima prova certa dell'esistenza di un insediamento permanente a Casso è una sentenza dell'abate di Sesto in Cimolais datata 20 settembre 1558, contro un gruppo di abitanti di «Chians» per il taglio abusivo del bosco «di Tocco» appartenente all'abbazia. Sul diritto di proprietà di questi terreni del Toc (la montagna franata il 9 ottobre 1963) nasce una lunga lite, che si tramanda negli anni. Gli uomini di Casso, secondo le cronache, erano visti come usurpatori da quelli di Erto, in quanto arrivati nella zona dopo di loro, anche se nel 1652 la località viene accumunata a quella di Erto in una «laude» del Senato veneto «a favore dell'Abbazia di Sesto e dei Comuni di Erto e Casso». In un documento del 1667 risulta anche una comunanza di beni forestali fra le due comunità. In altro documento del 1673 la Repubblica Veneta rinnova il privilegio dei beni comunali, spartendoli tra Erto e Casso privilegiando, però, il primo. Nel 1674 cade una grossa frana su Casso, dimezzando seminativi e pascoli, per cui i cassani insistono presso Erto per una parte maggiore di uso dei beni comunali simili sul versante sinistro del Vajont (Toc), da Erto negata. la lite si inasprisce e Casso chiede nel 1688, il distacco da Erto e una sua autonomia amministrativa. La lite dura, con alterne vicende, ben 60 anni. I due Comuni si ricongiungono definitivamente nel 1866. Cfr.;. Valussi, "Aspetti geografici di una vecchia lite tra due Comunità prealpine, Erto e Casso", estratto da "Ce fastu", Udine 1962.
Sempre secondo il Valussi è probabile che i cassani siano arrivati nell'Alta Valcellina provenendo dal versante bellunese e precisamente dal villaggio di Codissago che confina con il territorio di Erto, da cui le affinità con il dialetto bellunese. Casso, inoltre, è sempre stato sotto la giurisdizione ecclesiastica di Castellavazzo, al contrario di Erto che apparteneva e appartiene a una diocesi friulana. Altri sostengono che i primi a stabilirsi sul luogo siano stati pastori e carbonai provenienti da San Cassiano del Meschio nelle vicinanze di Vittorio Veneto; da qui il nome di Casso dato al paese. È certo, comunque, che nel primo documento rintracciato dal Valussi la località è definita «Chians», parola friulana, che divenne «Cas» durante la Repubblica Veneta e fu poi italianizzata in «Casso».

4) Il gioco della «morra» è in uso, con qualche variante, in tutte le zone di montagna dell'ltalia settentrionale. Ci vogliono arguzia e destrezza di mani. Si fa in due persone o in gruppo e consiste nel chiamare ad alta voce dei numeri - fino a dieci - battendo contemporaneamente sul tavolo le dita e presupponendo che il partner o i partners stendano a loro volta un numero di dita da formare, insieme, il numero chiamato. Il gioco si svolge velocissimo. Chi fa il punto rilancia immediatamente il gioco e così via. Per il continuo uso della voce, quasi gridata, i giocatori hanno bisogno di bere molto. Il gioco è stato proibito, anche se non è d'azzardo (chi perde paga ai compagni il bicchiere di vino) per le ricorrenti risse che provocava, causa il gran bere dei giocatori. Ma il divieto non viene quasi mai rispettato nelle zone emarginate di montagna dove non c'è nessun altro svago, tutt'al più qualche carabiniere ogni tanto fa il giro delle osterie a controllare che non si accendano liti. In ogni caso il gioco della «morra» va diminuendo ed è ormai solo una tradizione degli anziani. Ha subito un ribasso con l'apertura di strade di collegamento con il fondovalle e con la motorizzazione.
5) Il commercio ambulante è una caratteristica degli ertocassani fin dagli anni dell'annessione del Friuli all'ltalia.
Prima ancora era praticato dagli abitanti degli altri paesi della Valcellina che gravitavano su Maniago, dove era fiorente un'industria di coltelli che venivano venduti in varie province d'Italia e d'Austria dai Valcellinesi. Partivano a piedi con una cassetta in spalla, stavano fuori una stagione, dormivano nei fienili, ritornavano in autunno con nuove ordinazioni per la primavera successiva. Gli ertocassani arrivano piu' tardi a questo commercio, che trasformano soprattutto nella vendita di cucchiai e altri utensili in legno e di pantofole di stoffa, oggetti da loro stessi confezionati durante l'inverno. Anche le donne sono dedite a tale commercio, che integra il magro reddito dell'agricoltura. Anche loro percorrono con la cassetta o la gerla in spalla o un carrozzino a mano le contrade delle province viciniori, spingendosi fino in Lombardia. Il fenomeno aveva assunto alla fine del secolo scorso proporzioni rilevanti in tutta la Valcellina, come si desume da uno studio del ministero dell'Agricoltura del 1882. Centinaia di persone erano occupate a fabbricare questi utensili che ricavavano dal legno dei boschi locali. Solo nei Comuni di Claut e Cimolais si fabbricarono in quell'anno "8.500 zoccoli, 10.000 mastelli, 16.000 cucchiai, mestoli e tappi, 20.000 coppe, scodelle portabicchieri e vasi da pepe e sale, 8.000 spinelli, manerre e fusi, 4.600 rastrelli e candelieri; in totale oltre 67.000 pezzi » (G. Valussi, L'emigrazione in Valcellina, Udine). Con il tempo l'automobile ha sostituito il carretto. Gli ertocassani, «quelli di Nert» come vengono chiamati in fondovalle, sono conosciuti in tutti i mercati e le fiere, dove espongono la loro mercanzia. Dopo la sciagura del Vajont questo commercio è andato quasi spegnendosi, anche per il trasferimento altrove di molti abitanti.

6) Come in tutte le zone di montagna anche in Valcellina il fenomeno dell'emigrazione è di casa.
Non si tratta solo degli ambulanti, ma anche di altre categorie, soprattutto boscaioli, minatori, operai edili e, dopo la Seconda guerra mondiale, anche unità lavorative che emigrano nelle fabbriche di Milano e Torino, specializzandosi. Il primo tipo di emigrazione (minatori, boscaioli, edili) ha inizio ancora sotto l'lmpero Austro-ungarico e vede i lavoratori friulani spostarsi anche verso l'Ungheria, la Transilvania, la Boemia e perfino in Russia. Ancora oggi si trovano comunità friulane e venete nei territori magiari e rumeni (Carpazi) e anche in Unione Sovietica.
L'emigrazione del secondo dopoguerra è verso l'Europa centrale (Belgio. Germania, Francia) ed è ancora stagionale. Un'altra corrente migratoria, soprattutto di Erto e Casso, è invece verso l'interno, nel triangolo industriale e tende sempre più a divenire stabile con il trasferimento definitivo dei nuclei familiari, che tuttavia ritornano ogni anno a «fare le vacanze» nelle vecchie case del paese. Dal 1945 al 1960 il Comune di Erto e Casso ha perso il 25,2% della sua popolazione, emigrata stabilmente altrove. Cfr. G. Valussi, "L'emigrazione" cit.

7) Secondo una Relazione storico illustrativa della sacra rappresentazione del venerdì santo di Erto, del «Comitato pro venerdì santo di Erto», la rappresentazione sarebbe frutto di un voto espresso dalla comunità ertana per scongiurare la peste. Lo stesso voto venne fatto dalla popolazione di Öberammergau, in Alta Baviera, nel 1633, dove una analoga manifestazione viene ancora ripetuta ogni 10 anni. «Non è fuori luogo - scrive il Comitato -- pensare che la data di nascita della manifestazione Ertana sia molto vicina a quella di Öberammergau, quando si consideri che le epidemie di peste dilagate nel Veneto sono comprese fra gli anni 1550 e 1650».
8) Accadde nel 1946 con un provvedimento dell'autorità ecclesiastica che escludeva dalle cerimonie religiose del Venerdi' santo la rappresentazione della morte del Cristo in quanto - secondo la Chiesa - aveva assunto caratteristiche assai poco spirituali e di troppo richiamo spettacolare per il gran numero di persone che vi assistevano, provenienti dal Bellunese, dal Friuli e da altre province venete.
9) Si tratta del gruppo garibaldino «Boscarin» proveniente dalla valle del Mis nel Bellunese, che arrivò nella zona del Toc, spostandosi in seguito in val Mesazzo, il 25 dicembre 1943, dopo una difficile e lunga marcia attraverso alte forcelle ricoperte di neve. Da questo momento ha inizio la collaborazione degli ertocassani alla Resistenza, attraverso aiuti alimentari e ospitalità ai gruppi e alle formazioni che si succederanno nella valle per tutto il periodo partigiano, informazioni, collegamenti, afflusso di uomini alle formazioni. Su questi avvenimenti cfr. M. Bernardo, "ll momento buono", Ideologie, Bologna 1969; G. Gaddi, "La Spàsema", Nuovi Sentieri, Belluno 1981; R. Cessi, "La Resistenza Bellunese", Editori Riuniti, Roma 1960; A. Clocchiatti, "Cammina frùt", Vangelista, Milano 1972; AA.VV., "Riservato a Mussolini", Feltrinelli, Milano 1974.
10) Il primo contatto pubblico tra partigiani e popolazione locale ebbe luogo il 9 febbraio 1944 nel paese di Cimolais dove una quarantina di partigiani del "Boscarin" - nel frattempo ingrossatosi con nuovi arrivi e divenuto Distaccamento "Tino Ferdiani" dal nome del suo primo caduto - impediscono la consegna del bestiame all'ammasso tedesco. «Sul più bello della faccenda, inaspettati, entrarono in scena i nostri uomini i quali, dopo aver bloccato le vie di accesso al paese, la caserma dei carabinieri e quella della milizia forestale, si presentarono sul luogo dell'ammasso, sequestrarono e bruciarono davanti ai contadini, subito rianimati alla vista delle mostrine tricolori, i documenti relativi e, portatisi al Comune, distrussero gli archivi concernenti l'ufficio leva, quello delle imposte e quello degli accertamenti agricoli.
Uno dei nostri tenne una specie di comizio ai contadini per illustrare il significato di quel gesto e per spiegare come ora potessero nascondere tranquillamente quanto volevano perchè i tedeschi erano ormai privi di ogni documentazione sul loro conto e li invitò a riportarsi a casa le bestie. Cosa che questi fecero fra il grande entusiasmo
» (G. Gaddi, "La Spàsema" cit., pp. 60-61).
Sul fatto cfr. anche M. Bernardo, "Il momento buono" cit.; R. Cessi, "La Resistenza" cit.; A. Clocchiatti, "Cammina frùt" cit.

11) Il movimento partigiano friulano, il primo nato in Italia, prese contatto con il gruppo di Val Mesazzo nel mese di marzo 1944. «...non eravamo ancora proprio una formazione partigiana, eravamo un certo gruppo: questo dimostra che i partigiani del Friuli avevano già chiara e consapevole la necessità di stabilire dei contatti con qualsiasi altra formazione che poteva svilupparsi nella zona e che comunque era là segnalata» (I. Mestre [Diego], in AA.VV., "La Resistenza nel Vittoriese e sul Cansiglio", Vittorio Veneto 1979).
II gruppo di cui parla Mestre era garibaldino. Successivamente nella Valcellina si arrivò all'unificazione tra le forze garibaldine (di orientamento comunista) e quelle osovane (Dc-Partito d'Azione) in un'unica Brigata, la "Ippolito Nievo A", il cui comando ebbe sede a Claut. La Brigata ebbe giurisdizione su tutta la Valcellina fino alla fine della guerra. Nella dislocazione dei reparti, alla conca del Vajont vennero destinati, il 20 luglio 1944, il Distaccamento osovano di "Raul" e il Battaglione garibaldino "Gramsci" (che in seguito vennero sostituiti da altri reparti, sempre misti). «Alla fine di luglio 1944 le forze partigiane che occupavano ormai stabilmente la Valcellina e la conca del Vajont erano circa 600 uomini (320 garibaldini, 260 osovani, 20 uomini addetti al Comando di Claut)». M. Candotti, "La lotta partigiana in Valcellina", in «Storia contemporanea in Friuli», n. 10, Udine 1979.

12) Il primo attacco nazifascista alla val Mesazzo ebbe luogo nella seconda metà di marzo 1944. Vennero incendiate case e stavoli e rastrellate oltre 100 persone, che vennero portate come ostaggi nelle carceri di Belluno e Pordenone. Molte vennero rilasciate dopo un mese di detenzione, alcune avviate ai campi di concentramento in Germania. Erto subì un altro grosso rastrellamento il 9 ottobre 1944, nel quadro di massicce operazioni militari tendenti ad annientare il movimento partigiano della Valcellina. Il centro di Erto e la valle del Vajont furono sottoposti ad un ininterrotto cannoneggiamento per una settimana da un presidio nemico che si era installato a Monte Pul, sopra Casso. Sotto il Toc vennero distrutti 140 edifici tra case, stalle e fienili. I tedeschi minacciarono di incendiare anche Erto se la popolazione non avesse ricostruito in 48 ore il ponte del Colomber, fatto saltare dai partigiani il 20 settembre. Il ponte era l'unico collegamento tra la Valcellina e la valle del Piave, ed era costruito sopra una profonda forra che il torrente Vajont si era scavata tra le rocce nel corso dei secoli. Era alto 136 metri. L'impresa era praticamente impossibile. «... gli abitanti terrorizzati dalla minaccia tedesca, sentendosi ormai in completa balia del nemico, accettarono e in 17 ore di lavoro ossessionante e disperato contro il tempo, col lancio di 14 cordate d'acciaio, molto prima del tempo fissato, gettarono sopra l'abisso del Colomber, a fianco del vecchio ponte distrutto, un nuovo ponte su corde tanto resistente da poter sostenere il passaggio anche di mezzi pesanti», (M. Candotti, La lotta partigiana cit., p.190). Cfr. anche AA.VV., "Testimonianze sulla liberazione di Erto e Casso", Comune di Erto e Casso, Pordenone 1975. Nuove incursioni nemiche sul paese ebbero luogo nel corso dell'inverno 1944/'45. In una di queste vennero prelevate diverse persone sospettate di collaborare con i partigiani.
Fra queste Domenica Filippin di 50 anni. Tradotta nella Gendarmeria tedesca di Belluno, venne orrendamente seviziata e morì sotto le torture. È da ricordare che le due province di Udine e Belluno non facevano parte del territorio della Repubblica di Salò ma, con altre province, di due distinte zone di operazione, la prima denominata «Litorale Adriatico» che comprendeva anche la provincia di Udine, la seconda chiamata «Prealpi» che comprendeva anche la provincia di Belluno, erano sotto la diretta giurisdizione politica, amministrativa e militare tedesca. Nel caso di vittoria del terzo Reich, queste province erano destinate ad essere annesse alla Germania.

13) Nelle elezioni per la Camera del 1958 il PCI ottenne solo 2 voti a Casso, contro i 189 della DC.



_ IN memoria di TINA MERLIN _


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Poi sbucarono - e vennero avanti - i delinquenti, naturalmente quelli istituzionali ....

  


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VOMITO, ERGO SUM. Fortogna: nella foto sotto, il *Giardino delle bestemmie* attuale, un fal$o TOTALE dal 2004: falso storico, fattuale, e IMMORALE da 3,5 mln di Euro. Un FALSO TOTALE - a cominciare dai FALSI cippi «in marmo di Carrara» - targato *sindaco De Cesero Pierluigi/Comune di Longarone 2004*.
Oggi questo «Monumento/sacrario» riproduce fedelmente in pianta e in miniatura, come il parco "Italia" di Rimini, il campo "B" di Auschwitz/Birkenau. Fantastico, no?
Ma se ti azzardi a dirlo, sono guai.

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