INDICE

*= Pagina online
* 7 Istruzioni per l'uso
di Marco Paolini

* 13 Dopo quarant'anni

* 19 9 ottobre 1963

0 27 Chi sono gli sciacalli?


- 34 Il caso Rizzato

- 41 Il gioiello della SADE

- 49 Al limite estremo

- 58 Segni premonitori

- 64 Chi controlla chi?

- 72 Nasce l'ENEL, ma è sempre SADE

- 83 Il nuovo inganno

- 93 Il voltafaccia dell'Ente di Stato

102 L'ultimo tradimento

110 Il mercato del dolore

118 La giustizia presenta il conto

126 Il legittimo sospetto

132 Il suicidio di Pancini

140 Colpi di scena

150 «Che Dio ce la mandi buona»

171 Senza epilogo

Chi sono gli sciacalli?

L'indomani bisogna leggere i quotidiani prima di riprendere il pellegrinaggio verso la vallata dell'incubo. Le migliori penne del giornalismo nazionale intonano un concerto dal pathos straziante su immagini di morte, di dolore per le vittime e di pietà per i sopravvissuti. Nessuno come loro riesce a evocare l'atroce spettacolo sotto i nostri occhi. Ma accanto alle cronache più commoventi (Alberto Cavallari sul «Corriere della Sera»: «È l'immagine di un giorno del giudizio, surreale, come nelle pitture dell'orrido del Seicento... Hai la sensazione violenta della spietata valle di lacrime»), ecco i commenti mettere subito, pregiudizialmente, senza conoscere o misurare i fatti, le mani avanti sviolinando la tesi della «fatalità» dell'accaduto. Giorgio Bocca scrive sul «Giorno»: «Cinque paesi, migliaia di persone ieri c'erano, oggi sono terra e nessuno ha colpa; nessuno poteva prevedere ..: tutto è stato fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente».

Ancor più esplicito, sul «Corriere della Sera», uno scrittore bellunese, un conoscitore di quelle montagne come Dino Buzzati. Per lui la frana precipitata nel serbatoio idroelettrico del Vajont è come un sasso caduto per caso in un bicchiere pieno: l'acqua è uscita e ha bagnato la tovaglia.
Non prende in considerazione i microbi annegati da quell'acqua sulla tovaglia. Gli basta esaltarsi per il bicchiere che non si è rotto, «perchè era fatto bene, a regola d'arte... La diga del Vaiont era ed è un capolavoro».
E «l'Unità», che cosa deve scrivere «l'Unità» se non quel che può documentare in modo diretto? Il pericolo era conosciuto, la frana incombeva minacciosa da anni, lo avevamo pubblicato più volte, aggiunge di suo il giornale alle cronache di Piero Campisi e mie. E riproduce alcuni titoli degli articoli di Tina Merlin.

- 5 maggio 1959: «La SADE spadroneggia ma i montanari si difendono».
- 5 novembre 1960: «Una gigantesca frana precipita a Erto nel lago artificiale della SADE».
- 18 febbraio 1961: «Un'enorme massa di 50 milioni di metri cubi minaccia la vita e gli averi degli abitanti di Erto».
È il titolo più allarmante, più preciso, se non in difetto, che anticipa ciò che può accadere. E stavolta, niente più segnalazioni ai carabinieri da parte della SADE, nessuna denuncia per «diffusione di notizie false e tendenziose». Meglio lasciar cadere la notizia nel silenzio generale, tanto chi va avanti con i lavori sa già da tempo quali sono le vere misure della frana: 150-200 milioni di metri cubi almeno.

Quegli articoli non erano nati per caso, ma frutto dell'attenzione al proprio lavoro e dell'impegno di una brava corrispondente come Tina. Nascevano dalle lotte e dalla esasperazione della gente del Vajont. La SADE era arrivata dalle loro parti nel 1957 (ma li teneva d'occhio da una trentina d'anni!), quando i lavori per la costruzione della più alta diga ad arco del mondo erano iniziati ancor prima che fosse presentato il progetto definitivo. Da decenni si impadroniva dei corsi d'acqua del bellunese, espropriava vallate e terreni coltivati, sommergeva interi paesi come Vallesella di Cadore, dove d'estatein vacanza, con il lago che toccava i livelli minimi, io potevo intravedere sott'acqua il campanile e la chiesa, contare le case.
Ora toccava a Erto e Casso, i due paesini allo sbocco della Valcellina, proprio al confine fra le province di Udine e di Belluno, una piccola comunità di origine cimbra che viveva di agricoltura povera e di allevamento. Da secoli possedeva le sue «casère» sul fianco opposto della stretta vallata, sotto la cima del Toc, un ripido monte dal nome onomatopeico, a rammentare la frana preistorica da cui era nato: il nome, o forse il monte stesso. Nelle «casère» gli abitanti di Erto e Casso si trasferivano, d'estate, a falciare l'erba e a curare i campi di patate. La SADE ora toglieva loro gran parte di quei terreni, gli dava poche lire per gli espropri, e in cambio imponeva limiti e divieti. Così fra quelle poche centinaia di montanari era nato un forte movimento di protesta che aveva trovato un riferimento politico nella figura dell'onorevole Francesco Giorgio Bettiol, deputato comunista della circoscrizione di Belluno e Udine. Un uomo colto e pacato, legatissimo alla montagna e alla sua gente.
Lui aveva promosso la costituzione davanti a un notaio del 'Consorzio per la rinascita della Valle Ertana', e invitato la Merlin a seguire le assemblee dei paesani del Vajont per scriverne su «l'Unità». Così Tina si guadagnava, con l'articolo del 5 maggio 1959, denuncia e processo. Testi a difesa furono gli ertani. E il Tribunale, nell'assolvere la giornalista, scrisse in sentenza che si sarebbe dovuto vigilare sui pericoli che correva la gente di Erto. Poi sarebbero venuti una prima frana, nel novembre 1960, sinistro presagio di quanto sarebbe successo tre anni dopo su una scala immensamente e tragicamente più grande, e l'allarmante indiscrezione captata da Tina sulla «enorme massa» incombente.

Dati di fatto inoppugnabili, contro il comodo adagiarsi di commentatori illustri nella retorica della «fatalità». In ogni sciagura, dall'incidente ferroviario al crollo di un'abitazione, i mass-media si sforzano di trovare le cause, di individuare eventuali responsabilità. Di fronte alla maggior catastrofe che abbia colpito l'Italia contemporanea assumono invece il ruolo delle coefore della tragedia greca, che piangono il loro dolore programmato e invocano il fato e gli dèi. E non si chiedono altro. Sullo sfondo di un dramma umano senza confini, che scuote i sentimenti dell'intera nazione, ecco aprirsi uno scontro politico duro, una polemica perversa e avvelenata.

Quel giorno continua il penoso lavoro dei soldati e dei volontari per il recupero delle salme. In un terreno all'asciutto della frazione di Fortogna, dove alcuni campi sono ancora coperti dalle piante di granoturco, si installa una missione di medici inglesi e jugoslavi. Sono specializzati in disastri, nell'identificazione delle vittime. Ma qui di corpi, di volti resi irriconoscibili non ce ne sono molti: mancano invece i superstiti che possano riconoscere i parenti. Intere famiglie, a centinaia, sono state cancellate. I feriti risultano pochissimi. Chi è capitato sotto l'onda apocalittica che ha raschiato le rocce della gola del Vajont e cancellato Longarone non poteva salvarsi. Strappati dalle loro case, dai letti, spogliati di ciò che indossavano, trascinati via nel tumulto della piena, solo la pietosa professionalità di alcuni medici stranieri riesce ora a restituir loro almeno il nome.

Si comincia a fare la conta di chi c'è e di chi non farà più ritorno. In una stanza del municipio di Longarone, di quel po' che è rimasto, con le finestre rotte e i pavimenti dissestati, hanno approntato due registri: nel primo si allunga, ora dopo ora, la lista dei ripescati, dei defunti.
Nell'altro, il più breve elenco di chi si è salvato.
Fra le vittime ci sono il sindaco socialista del paese, Guglielmo Celso, e alcuni consiglieri comunali. Gli subentra il vicesindaco, socialista pure lui. Terenzio Arduini, si chiama.
Gestiva il bar della stazioncina ferroviaria di Longarone, cancellata. Ha perso un figlio maschio ventenne, il padre e la madre. Ha il volto scavato, gli occhi rossi di chi non dorme da due giorni, la voce rauca, quasi spenta, ma parole pacare e consapevoli. Quando arriva il presidente del Consiglio dei ministri, Giovanni Leone, a capo di un governo «balneare» ormai agli sgoccioli del suo mandato, Arduini loaccoglie dicendo: «Signor presidente, è stato un assassinio».

La sera, in un clima d'angoscia cui è difficile sottrarsi, convoca ciò che è rimasto del Consiglio comunale. Sono presenti anche alcuni amministratori bolognesi. Uomini che vent'anni prima avevano salito queste montagne per combattere la guerra partigiana. Hanno legami profondi con il bellunese e con il Vaiont. Sono tornati perchè si sentono solidali con questa gente. Nei giorni successivi vedrò anche Mariano Mandolesi tornato quassù dalla sua Gaeta. È un gigante bruno e ricciuto, sembra un eroe omerico. Lui fece precipitare dall'altezza impressionante del ponte del Colombèr, che univa le due sponde del Vajont, un generale tedesco dentro la sua Mercedes. E guidò l'assalto, rimasto leggendario, alle carceri di Belluno per liberare i partigiani e i politici detenuti.

Il Consiglio comunale presieduto da Terenzio Arduini formulava alcune richieste al governo e alle autorità. Prima di tutto, una rapida giustizia per le vittime e per il paese distrutto. Un miglior coordinamento degli aiuti. Misure per restituire un minimo di tranquillità ai superstiti, assicurazioni sulla fine di ogni ulteriore pericolo. Da Longarone, sopra la diga, si vedeva ormai solo il cono grigio della frana caduta che sovrastava ogni cosa. L'inquietudine, l'ansia, il timore si erano impadroniti di tutti, erano al limite di rottura. Tanto che il generale Carlo Ciglieri, comandante degli alpini accorsi da Bolzano, deciderà di dormire con i suoi uomini sotto le tende, nel desolato pianoro di fronte alla gola maledetta, proprio per rassicurare in qualche modo i sopravvissuti, mostrar loro che non c'è da temere più niente.

Gli amministratori bolognesi avevano aiutato Arduini e gli altri consiglieri, quasi annichiliti dal dramma che li colpiva, a meglio formulare le loro richieste. E questo bastava perchè si scatenassero i quotidiani del giorno dopo: «speculazione politica dei comunisti», «strumentalizzazione del dolore», e via accanendosi.
Allora, più o meno come adesso, non esistevano sfumature.
L'intero campo della «stampa d'informazione» era dominato dall'ossessione anticomunista. Ha raccontato Giampaolo Pansa nel 1993, trentennale del Vajont: «I grandi inviati dovevano descrivere. Descrivere il dolore dei superstiti. Descrivere gli alpini del Quarto Corpo d'Armata... Dovevano andare a "rompere i coglioni ai comunisti di Longarone", frase testuale, e non fatemi dire di chi è... C'era un clima ferreo, chiuso... » La DC, fece stampare e affiggere ovunque un manifesto contro il PCI intitolato «Sciacalli».

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Continuavo a lavorare in preda a un profondo turbamento. Un'amarezza greve si mescolava all'indignazione e a un senso cli impotenza di fronte a quello spudorato capovolgimento della verità. Gli «sciacalli» eravamo noi, non chi chiedeva l'assoluzione preventiva, chiudendo gli occhi difronte ai documenti e alle testimonianze, in nome della «fatalità». Persino Giovanni Mosca, sul confratello pomeridiano del «Corriere», il «Corriere d'informazione», respingeva tanta mistificazione e scriveva, il 12 ottobre: «Ci si rifiuta di pensare che possa esserci stato anche un minimo di colpa, che la tragedia avrebbe potuto essere evitata... Ma è un'ipotesi troppo comoda... Chi ha mancato dev'essere punito, concedere l'alibi della fatalità sarebbe vergognoso».
Nei brevi minuti in cui l'enorme frana si mosse dal fianco clel monte Toc e precipitò a una velocità di quasi 100 chilometri l'ora, scuotendo tutto all'intorno, cambiando la geografia clel paesaggio, gli strumenti degli osservatòri del Veneto e del Friuli registrarono ovviamente clelle onde sismiche. Ebbene, quelle onde provocate dalla frana diventarono, per alcuni giornali, un terremoto. La verità all'incontrario, un terremoto che avrebbe determinato la frana. Cosa si voleva di più, da contrapporre alle «speculazioni comuniste»?

Io scrivevo i miei pezzi in uno stato d'animo misto di dolore per quanto testimoniavo e rabbia per la violenza ottusa scatenata contro di noi. Nel pomeriggio di sabato raccontavo un episodio cui avevo assistito a Longarone. Nel traballante ufficio del municipio entrano due ragazzi, vent'anni o poco più. Sono da poco arrivati dalla Germania. Non hanno più notizie dei loro genitori. L'impiegato presente gli mostra i due registri, gli dice di cercare lì dentro. Loro si mettono a scorrere avidamente l'elenco dei vivi, dei superstiti. Lo sfogliano due, tre volte, temono di lasciarsi sfuggire qualche nome. Noto il loro viso cambiare colore, farsi sempre piùpallido. Poi, come restii, prendono in mano il registro delle vittime e, lentamente, cominciano a cercare...
Raccontavo questa scena, e di colpo dovetti lasciare la macchina da scrivere e rifugiarmi contro una finestra. Un groppo mi saliva alla gola, temevo di non poter trattenere le lacrime.

Poco dopo, mi dicono che due persone arrivate da Padova vogliono vedermi.
Sono due compagni, due operai dell'ex SADE che conosco da anni. Devono consegnarmi un rotolo, un pacco di fogli ricavati da un lucido. Me li manda Lorenzo Rizzato, un ragazzo con la passione del teatro, disegnatore tecnico all'Istituto di Idraulica dell'Università di Padova. Ma sul suo nome si deve mantenere la più totale riservatezza. «Vedi se questo materiale può esserti utile», dice più o meno il biglietto che accompagnava i fogli. Utile? È la prova che la SADE conosceva tanto bene la frana del Vajont che ne aveva fatto sperimentare su modello le possibili conseguenze: per un anno intero, fra l'aprile 1961 e il marzo 1962.



Sul libro della testimonianza di Passi che raccomando di cercare e leggere, ci sono le altre 140 pagine della vera storia di questo eccidio.


Tiziano Dal Farra

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