INDICE

*= Pagina online
* 7 Istruzioni per l'uso
di Marco Paolini

* 13 Dopo quarant'anni

0 19 9 ottobre 1963

* 27 Chi sono gli sciacalli?


- 34 Il caso Rizzato

- 41 Il gioiello della SADE

- 49 Al limite estremo

- 58 Segni premonitori

- 64 Chi controlla chi?

- 72 Nasce l'ENEL, ma è sempre SADE

- 83 Il nuovo inganno

- 93 Il voltafaccia dell'Ente di Stato

102 L'ultimo tradimento

110 Il mercato del dolore

118 La giustizia presenta il conto

126 Il legittimo sospetto

132 Il suicidio di Pancini

140 Colpi di scena

150 «Che Dio ce la mandi buona»

171 Senza epilogo

9 ottobre 1963

Quel mercoledi' sera Tina Merlin era andata al cinema, a Belluno, sola in mezzo a pochi altri spettatori. La maggior parte della gente aveva scelto di seguire l'incontro di Coppa Campioni, trasmesso alla Tv. Una quieta conclusione di giornata, in una tranquilla cittadina di provincia. All'improvviso, il film si interrompe, la sala piomba nell'oscurità totale. È saltata la corrente, tutti pensano, un cortocircuito, forse un guasto all'impianto.
Attimi di attesa, di incertezza.
Ma la proiezione non riprende, e lo scarso pubblico esce brontolando, guidato dalle fioche luci di sicurezza.

Appena fuori, quelle poche persone si sentono assalite dall'ansia. Anche le strade sono al buio, non c'è una sola finestra illuminata, l'intera città appare immersa nelle tenebre. Sembra d'essere tornati di colpo al tempo della guerra. In lontananza si sente come un brontolio, l'inseguirsi di tuoni. Un soffio d'aria gelida si disperde nelle strade. Il rumore cresce, è come un rombo soffocato, e sale dall'infossatura profonda che costeggia la città, dove scorre il Piave. Ora dalle case molta gente esce all'aperto, si muove verso il ponte della Vittoria che scavalca il fiume familiare, solitamente smagrito, poco più d'un filo serpeggiante fra i sassi del greto. Anche Tina Merlin si dirige sul ponte, dove già una piccola folla, dalle spallette, scruta l'acqua, altissima, che quasi sfiora le arcate. Come ha potuto crescere in pochi minuti questa piena enorme, violenta, assordante? I gorghi torbidi e veloci trascinano verso valle tronchi, sterpi, rottami d'ogni genere. Carcasse di mucche galleggiano e corrono via. La gente, atterrita, scorge anche dei corpi affiorare nella fiumana. Tanti corpi umani, cadaveri nudi spinti verso valle.

Tina osserva a lungo, scossa da un tremito, oppressa da un'angoscia terribile. Poi, di colpo, si scuote, corre in cerca di un telefono, chiama Milano, «l'Unità», il suo giornale. Le sue sono frasi smozzicate, quasi un grido spaventato: «La diga, è saltata la diga del Vajont. Ci sono morti che scendono col Piave. Tanti morti, forse centinaia...».
Aniello Coppola, il condirettore, quasi non le crede:
«Centinaia di morti, ma come è possibile...». La Merlin replica esasperata: «Li vedo con i miei occhi. A Belluno c'è il terrore».
«Tina, va bene, provvediamo subito.»

Tina Merlin

Tina Merlin, quella vera.

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Da molti anni lei è corrispondente del giornale dalla provincia di Belluno. Una donna forte, decisa. Un viso un po' tartaro, naso piccolo e sottile, gli zigomi sporgenti, la figura alta e slanciata. Da ragazza, durante la Resistenza, ha fatto la staffetta partigiana. L'ultimo giorno di guerra i tedeschi in ritirata le hanno ucciso il fratello, comandante di una formazione garibaldina. Mette nel suo lavoro una enorme passione politica e civile. Lei sapeva che quella diga, da anni in costruzione sul torrente Vajont che dalla Valcellina si precipita nel Piave entro una gola stretta e altissima, costituiva una minaccia tremenda. perchè il monte Toc sovrastante il Vajont rischiava di franare nel lago profondo sotto la diga. L'aveva scritto più volte, nelle cronache venete de «l'Unità», tanto da ricavarne, nel maggio 1959, una denuncia dei carabinieri per «diffusione di notizie false e tendenziose, atte a turbare l'ordine pubblico». Processata. E assolta, dal Tribunale di Milano.
L'allarme, il turbamento, dice il Tribunale, sono veri e diffusi fra la gente della Valle Ertana, che vedono salire l'acqua nel lago e sommergere le loro terre. La giornalista ha semplicemente esercitato il diritto di cronaca.

E ora, quella sera del 9 ottobre 1963, ecco la tragica conferma.
Nell'istante in cui salta la corrente nel cinema di Belluno, si compie una immane catastrofe. È una notte sconvolgente, quella che si avanza. Vigili del fuoco, polizia, carabinieri, ambulanze, centinaia di macchine di volontari e di curiosi si inoltrano sulla strada che porta verso il Cadore, si dirigono a Longarone, a diciotto chilometri da Belluno, ignorando ancora che Longarone è distrutta, scomparsa.
A Ponte nelle Alpi, presso un distributore di benzina, due uomini di mezza età, scossi da una evidente agitazione, l'espressione angosciata, vengono sentiti scambiarsi frasi sconnesse: «Ma allora, è saltata la diga...»
«No, la diga no. È stata l'acqua, l'ha scavalcata. È caduta la frana...»
«Non è possibile, non avrebbe potuto uscirne tanta...».
Quei due individui smarriti, incapaci di spiegarsi ciò che sta avvenendo, sono l'ingegner Alberico Biadene, responsabile del Servizio costruzioni della SADE, accorso da Venezia, e un suo aiutante di Belluno, l'ingegner Caruso.

Da tutta Italia, intanto, si muove la macchina poderosa dell'informazione; i giornalisti partono a centinaia.
Da Milano, «l'Unità» spedisce a Belluno Piero Campisi, il suo miglior inviato di cronaca, e Sante Della Putta, che è nativo di Erto, che a Erto ha una casa quasi sul ciglio del lago. Io abito a Padova: il giornale mi sveglia prima dell'alba e mi dice di correre.
Nelle prime ore del mattino, mentre Della Putta raggiunge la sua vallata, io e Campisi ci incontriamo con Tina, con i compagni del PCI di Belluno, con alcuni volontari dagli occhi rossi per la stanchezza, forse per il pianto. Dicono: «Longarone è sparita, non esiste più...» Mi sembra di non capire, di non capacitarmi. Da Longarone passavo ogni volta che raggiungevo il Cadore, o la valle di Zoldo, quella dei gelatai diventati famosi in tutta Europa. Ricordavo la stazione ferroviaria con il suo piccolo scalo merci, la piazza con un'antica fontana di pietra, le stradine strette fra le case costruite di massi, con i tetti di legno. E ora, tutto finito?

La tensione estrema che continua a pervadere Tina non le consente di scrivere.
Il giornale anzi le chiede di recarsi a Milano. In redazione le sue indicazioni sarebbero preziose.
Della Putta avrebbe mandato i suoi pezzi da Erto, ma dopo il primo giorno neanche lui ce la farà più.

Piero e io ci dirigiamo verso il cuore del disastro. La mattina del 10 ottobre si annuncia con un clima torbido, afoso, un sole caldo, quasi estivo. Dopo Ponte nelle Alpi, lungo la strada d'Alemagna si procede a passo d'uomo, in un ambiente da retrovia militare, in un'atmosfera soffocante inasprita dall'odore dei disinfettanti. A Fortogna non c'è più la strada. Si deve proseguire a piedi in un ammasso fangoso, superare blocchi di pietra, tronchi, pozze d'acqua, e i primi cadaveri, scomposti, abbandonati dal fiume. Mucche riverse, dal ventre rigonfio e le zampe protese in alto accentuano il senso di morte del paesaggio.
Di quando in quando mi volgo verso Campisi, in silenzio.
Anche lui mi fissa negli occhi, senza parlare.

Poco oltre Faè, dopo l'ammasso gigantesco e disperso di tronchi, di assi, di cataste sfasciate di legname dello stabilimento Faesite, ecco le prime case tagliate in due come da un enorme coltello. Poi soltanto nuda roccia sbiancata sulla quale inerpicarsi, aggrappandosi con le mani, perchè il Piave è giunto fin qui nei pochi minuti in cui si è trasformato in un apocalittico mostro. Ora il letto del fiume non ha più confini, è un immenso sterminato pianoro che incute profondo un senso d'angoscia. Scarnificato il fianco della montagna, spariti i prati e i boschetti golenali, inghiottita la strada statale. Su in alto, all'uscita dalle brevi gallerie ferroviarie, tratti di binari protesi al cielo, attorcigliati come sculture astratte. Il piccolo ponte sul torrente Maè intasato di tronchi, di brecciame. E altri cadaveri che galleggiano, poveri corpi ignudi.
Sul colle di Pirago, spogliato del suo verde, ridotto a un cocuzzolo di pietra, il relitto del campanile, rimasto solo accanto a un moncone della chiesa.

Procediamo, sempre più in affanno, sempre più intontiti, depressi, spaventati da quanto ci circonda. Ma la misura non è colma. Bisogna guardare Longarone, quel che ne resta. L'animo umano fatica a immaginare ciò che non conosce, che non appartiene in qualche modo alla sua esperienza sensibile. Io che da ragazzo avevo vissuto la guerra, i bombardamenti sulla mia città, forse inconsciamente pensavo a cumuli di rovine, case diroccate, muri sbrecciati, ammassi di macerie. Nulla di tutto questo.
Longarone appare solo una immensa distesa piatta e grigia.
Ogni casa è scomparsa, livellata, ridotta a un tritume di pietra e ghiaia. Allora, un'altra immagine si affaccia, un paragone angosciante si propone: Hiroshima, la città giapponese annientata dalla bomba atomica il 6 agosto 1945, restituitaci da poche fotografie, dalle allucinanti immagini in bianco e nero di qualche documentario.
(Apprenderemo, durante l'istruttoria processuale, che l'energia prodotta dalla massa d'acqua scaraventata sulla vallata del Piave alle 22.39 del 9 ottobre 1963 è stata pari a quella di due bombe atomiche di tipo Hiroshima, 40 mila tonnellate di tritolo).

Vediamo uomini e donne aggirarsi inebetiti sul deserto di Longarone.
Soldati avvolti in tute mimetiche, rimpiccioliti dalla lontananza, si muovono laggiù, all'estremità opposta del greto. Di quando in quando, dagli anfibi dei vigili del fuoco prendono in consegna qualcosa, il cadavere di un bambino, di un uomo, di una donna. I soldati li stendono l'uno accanto all'altro sui sassi, li coprono con un telo. Mi succede di vedere da vicino qualcuno di quei corpi tratti fuori dopo tante ore dall'acqua. Mostrano una delicata trama di vene rosse e azzurre sotto la cerea trasparenza della pelle. Non riesco a scacciare l'idea raccapricciante di agnelli scuoiati nelle macellerie. La sera prima erano persone vive, con i sogni, le speranze, le amarezze, i pensieri e i progetti di tutte le persone del mondo.
Quanti sono i morti? Dove sono? Non è possibile rispondere.
Molte vittime hanno risalito il corso del Piave verso monte, fino a Perarolo di Cadore. Altri li scopriranno via via, a decine di chilometri di distanza, verso la pianura. Nei giorni successivi, centinaia di alpini scaveranno lunghe trincee nel ghiaione spesso e compatto, per strappargli i morti che ha seppellito. Tanti bisogna cercarli nelle buche, negli anfratti, nelle pozze d'acqua lasciate dalla piena. È un lavoro duro, amaro, in cui fra gli altri vedrò impegnato con feroce determinazione il mio amico Giovanìn Bortot, sindaco di Ponte nelle Alpi.

Nelle prime ore del mattino di giovedì 10 ottobre, dopo un'intera notte trascorsa in piedi a Longarone, il procuratore della Repubblica di Belluno, Arcangelo Mandarino, fa ritorno al suo ufficio. Prende una cartellina di cartone, vi scrive sopra un numero e un'intestazione: «Atti relativi alla catastrofe del Vajont». Per prime, finiscono nella cartella le comuncazioni degli ordini di sequestro, emessi telegraficamente, di tutti i documenti attinenti alla costruzione e all'esercizio del bacino idroelettrico del Vajont. Dopo qualche ora, al ministero dei Lavori pubblici, presso il Genio civile e le Prefetture di Belluno e di Udine, nei Municipi di Erto e Casso e di Longarone, negli uffici della Società Adriatica di Elettricità - la SADE - e dell'ENEL, l'Ente elettrico nazionale da poco costituito, i carabinieri sigillano le carte che contengono la Storia e le prove dell'immensa tragedia.

Prima di sera, io e Piero torniamo in città, a scrivere e a dettare i nostri pezzi. Lui deve raccontare la catastrofe, la frana che dal monte Toc è precipitata in pochi istanti nel lago artificiale del Vajont, l'ondata di 50 milioni di metri cubi d'acqua che si è sollevata per 260 metri sull'abitato di Erto, fino a lambire il campanile di Casso, il paesino gemello, per poi rovesciarsi oltre la diga, nella stretta gola affacciata sul Piave. Come un maglio il vortice immane si è abbattuto su Castellavazzo, tagliandola in due. Ha lasciato di Longarone solo la parte più alta, poche decine di case e la metà del municipio: tutto il resto èridotto a una spianata di fango e di sassi.

Già in quelle ore si parla di duemila morti.
Io ho l'incarico di ascoltare la gente, di raccogliere le testimonianze dei superstiti. È un servizio ingrato. Mi costa uno sforzo enorme avvicinare persone sconvolte, in lacrime, ragazzi rimasti soli, mamme che hanno perduto i loro figli, vecchi che il caso ha risparmiato e rimpiangono di non essere finiti come i loro cari. La notte non mi riesce di dormire.
Faccio il giornalista da più di dodici anni, ormai. Ripenso alle esperienze più intense già vissute. Ho avuto occasione di raccontare l'arrivo della «Task force» americana a Vicenza, nel 1954, e fui messo fuori dalla Military Police durante la cerimonia d'insediamento nella caserma (italiana) «Ederle», perchè rappresentavo un «giornale comunista». Mi sono occupato di una torbida vicenda come il «processo dei pionieri di Pozzonovo», promosso dal vescovo di Padova che accusava i braccianti comunisti di un paesino agricolo di dedicarsi alla corruzione sessuale dei bambini. Gli accusati furono tutti assolti.
La vigilia di Natale del 1956 l'ho trascorsa sul monte Giner, nel Trentino, dov'era precipitato un "Dakota" pieno di gente, la prima sciagura dell'aviazione di linea in Italia. E poi il più drammatico processo antipartigiano del dopoguerra, quello «dell'oro di Dongo», dove i testimoni si chiamavano Enrico Mattei, Luigi Longo, Walter Audisio, cioè il «colonnello Valerio», giustiziere di Mussolini. Un processo rimesso a Padova per «legittima suspicione» e troncato dal suicidio di un giudice popolare, mai più celebrato.

Ma ora qui non mi sento più soltanto un cronista, per quanto impegnato.
Sto vivendo una vicenda che coinvolge, con le mie capacità professionali, il cuore, i sentimenti. Oltre la pena, l'umana solidarietà, il dolore. Per toccare la coscienza, le mie fibre più profonde, qualcosa che rimarrà per sempre.

Mario Passi


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