CORRIERE DELLA SERA, 11 ottobre 1963

Natura crudele

Stavolta per il giornalista che commenta non c'è compito da risolvere, se si può, con il mestiere, con la fantasia e con il cuore.
Stavolta per me, è una faccenda personale. Perché quella è la mia terra, quelli i miei paesi, quelle le mie montagne, quella la mia gente.
E scriverne è difficile. Un po' come se a uno muore un fratello e gli dicono che a farne il necrologio deve essere proprio lui. Conosco quei posti così bene, ci sono passato tante centinaia e migliaia di volte che da lontano posso immaginare tutto quanto come se fossi stato presente. Per gli uomini che non sanno, per i paesi antichi e nuovi sulla riva del Piave, là dove il Cadore dopo tante convulsioni di valloni e di picchi apre finalmente la bocca sulla pianura e le montagne per la prima volta si rinserrano le une alle altre, è soltanto una bellissima sera d'ottobre. In questa stagione l'aria è lassù limpida e pura e i tramonti hanno delle luci meravigliose. Ecco, il sole è scomparso dietro le scoscese propaggini dello Schiara, rapidamente calano le ombre, giù dalle invisibili Dolomiti comincia a soffiare un vento freddo, qua e là si accendono i lumi, i buoi si assopiscono nelle stalle, gruppetti di operai dalla fabbrica di faesite pedalano canterellando verso casa, una eco di juke-box con la rabbiosa vocetta di Rita Pavone esce dal bar trattoria, con l'annessa colonnetta di benzina, rare macchine di turisti passano sulla strada di Alemagna, la stagione delle vacanze è finita. Proprio di fronte a Longarone la valle del Vaiont è già buia, più che una valle è un profondo e sconnesso taglio delle rupi, un selvaggio burrone, mi ricordo la straordinaria impressione che mi fece quando lo vidi la prima volta da bambino. A un certo punto la strada attraversava l'abisso, da una parte all'altra spaventose pareti a picco. Qualcuno mi disse che era il più alto ponte d'Italia, con un vuoto, sotto, di oltre cento metri. Ci fermammo e guardai in giù col batticuore. Bene, proprio a ridosso del vecchio e romantico ponticello era venuta su la diga e lo aveva umiliato. Quei cento metri d'abisso erano stati sbarrati da un muro di cemento, non solo; il fantastico muraglione aveva continuato ad innalzarsi per altri centocinquanta metri sopra il ponticello e adesso giganteggiava più vertiginoso delle rupi intorno, con sinuose e potenti curve, immobile eppure carico di una vita misteriosa.
Notte. Due finestre accese nella cabina comandi centralizzati, nell'acqua del lago artificiale si specchia una gelida faccetta di luna, ronzii nei fili, giù nel tenebroso botro lo scroscio dello scarico di fondo, a Longarone, Faé, Rivalta, Villanova dormono, ma c'é ancora qualcuno che contempla il video, qualcuno nell'osteria intento all'ultimo scopone. In quanto alle montagne, esse se ne stanno immobili, nere e silenziose come il solito.

No, a questo punto l'immaginazione non è più capace di proseguire; la valle, i monti, i paesi, le case, gli uomini, tutto riesco ad immaginare nella notte tranquilla poiché li conosco cosi bene, ma adesso non bastano la consuetudine e i ricordi. Come ricostruire con la mente ciò che è accaduto, la frana, lo schiantamento della rupe, il crollo, la cateratta di macigni e di terra nel lago? E l'onda spaventosa, da cataclisma biblico, che è lievitata gonfiandosi come un immenso dorso di balena, ha scavalcato il bordo della diga, è precipitata a picco giù nel burrone avventandosi, terrificante bolide di schiume, verso i paesi addormentati? E il tonfo nel lago, il tremito della terra, lo scroscio dell'abisso, il ruggito folle dell'acqua impazzita, il frastuono della rovina totale, coro di boati, stridori, rimbombi, cigolii, scrosci, urla, gemiti, rantoli, invocazioni, pianti?
E il silenzio alla fine, quel funesto silenzio di quando l'irreparabile è compiuto, il silenzio stesso che c'é nelle tombe? Un sasso è caduto in un bicchiere colmo di acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere, chè non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l'ha costruito.
Il bicchiere era fatto a regola d'arte, testimoniava della tenacia, del talento e dei coraggi umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro, perfino dal lato estetico. Mi ricordo che, mentre la facevano, l'ingegnere Gildo Sperti della S. A. D. E. mi portò alla vicina centrale di Soverzene dove c'era un grande modello in ottone dello sbarramento in costruzione. Ed era una scultura stupenda, Arp e Brancusi ne sarebbero stati orgogliosi.

Intatto, di fronte ai morti del Bellunese, sta ancora il prestigio della scienza della ingegneria, della tecnica, del lavoro. Ma esso non è bastato. Tutto era calcolato alla perfezione, e quindi realizzato da maestri, la montagna, sotto e ai lati era stata traforata come un colabrodo per una profondità di decine e decine di metri e quindi imbottita di cemento perché non potesse poi in nessun caso fare dei brutti scherzi, apparecchiature sensibilissime registravano le più lievi irregolarità o minimi sintomi di pericolo. Ma non è bastato. Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed astuta della fantasia della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alle spalle. Si direbbe quasi che in tutte le grandi conquiste tecniche stia nascosta una lama segreta e invisibile che a un momento dato scatterà. Intatto, e giustamente, è il prestigio dell'ideatore, dell'ingegnere, del progettista, del costruttore, del tecnico, dell'operaio, giù giù fino all'ultimo manovale che ha sgobbato per la diga del Vaiont.

Ma la diga, non per colpa sua è costata duemila morti, i quali morti non sono della Cina o delle Molucche, ma erano gente della tua terra che parlavano come me, avevano facce di famiglia e chissà quante volte ci siamo incontrati e ci siamo dati la mano e abbiamo chiacchierato insieme. E il monte che si è rotto e ha fatto lo sterminio è uno dei monti della mia vita il cui profilo è impresso nel mio animo e vi rimarrà per sempre. Ragione per cui chi scrive si trova ad avere la gola secca e le parole di circostanza non gli vengono. Le parole incredulità, orrore, pietà, costernazione, rabbia, pianto, lutto, gli restano dentro col loro peso crudele.

Dino Buzzati


CORRIERE DELLA SERA 13 ottobre 1963

Giustizia senza rissa

Il governo ha nominato una commissione d'inchiesta per accertare le eventuali responsabilità nella catastrofe del Vajont. Composta di tecnici e presieduta da un giurista, questa commissione deve rispondere a cinque quesiti.

   Il primo quesito riguarda l'esame idro-geologico della zona a monte del bacino.
Si domanda alla commissione se questo esame avvenne con sufficiente approfondimento durante la progettazione e la costruzione dell'opera. E dopo, a costruzione finita, di fronte ai franamenti verificatisi.
   Il secondo quesito riguarda il collaudo dell'opera. La commissione deve chiarire come e perché questo collaudo, disposto fin dal marzo 1958, si protragga tuttora.
   Il terzo riguarda il regime di sperimentazione prescritto dai collaudatori: si domanda se siano state sempre disposte e adottate le misure precauzionali, specie con riferimento ai movimenti franosi verificatisi.
   Il quarto quesito, il più inquietante, domanda se, nei giorni antecedenti al disastro, il regime del bacino corrispondesse alle prescrizioni dei collaudatori e offrisse garanzia di sicurezza.
   Il quinto, infine, domanda se le frane verificatesi a monte del bacino e altri fatti concomitanti, per i quali si ordinò lo sgombero del comune di Erto, a monte della diga, non fossero tali da imporre una eguale precauzione per il territorio a valle della diga, e domanda se i tecnici dell'esercizio abbiano informato le autorità dei fatti sottoposti al loro controllo e se le autorità, una volta avvertite, siano tempestivamente intervenute.
Questi cinque quesiti sono giustamente formulati. Si dirà, a inchiesta compiuta: il senno del poi.
Ma, purtroppo, è stato sempre così; le inchieste, e quindi i giudizi e le eventuali sanzioni, sono sempre avvenute solo dopo i disastri. La legge e l'onestà, e l'amore nella giustizia, vorrebbero che fino a quando l'inchiesta non sia stata conclusa le accuse tacessero e si pensasse e si provvedesse a consolare i vivi, a comporre nelle tombe i morti, a riparare i danni tremendi della catastrofe. Uno Stato e una società civili s'inchinano dinanzi ai morti e si affratellano coi vivi. Poi viene la giustizia a riconoscere le eventuali responsabilità, i possibili errori, le colpe, e a punire. Ma qui, da noi, sta succedendo qualche cosa terribilmente penosa e incivile. Il dolore dei vivi è ancora bruciante, i morti sono ancora insepolti, poco si sa della catastrofe e delle sue cause, e già s'é levato un grido d'odio, già una condanna è stata proclamata. Quale costume!

Il grido d'odio e la condanna sono stati lanciati contro lo Stato, inetto, corrotto, delinquente; contro la società nazionale, una società d'assassini, contro tutto e contro tutti.
Questo grido e questa condanna sono stati lanciati dal partito comunista, fin dal primo momento della catastrofe. Una terrificante sciagura è diventata immediatamente un fatto politico e una speculazione politica. La rissa, antica maledizione dell'Italia, imperversa furiosamente. Eppure, sciagure come quelle del Vaiont, sia pur minori per il numero delle vittime, sono avvenute recentemente in Francia, in Russia, in America. Ma lì nessuna condanna è stata proclamata prima di ricercare e accertare le responsabilità, gli errori, le colpe. Qui, anziché riunirci intorno ai vivi e inchinarci dinanzi ai morti, in uno slancio di pietà e d'amore, ascoltiamo e leggiamo parole di rancore e d'odio. Tutto sporco, tutto disonesto, tutto falso in Italia? Evvia: un po' di misura, un po' di lealtà e di onestà.

S'arriva all'indecenza e all'assurdità: s'arriva a sfruttare politicamente e ideologicamente lo strazio dei vivi e la pietà dei morti per accusare e condannare un «sistema» economico: quello privatistico da una parte, poiché la diga è stata costruita da una società elettrica privata; quello pubblico, da un'altra parte, perché la diga, con tutti i suo annessi e connessi, appartiene da otto o nove mesi all'ente statale, in seguito alla nazionalizzazione dell'energia elettrica.
Quali vergognose e stupide speculazioni. La rissa politica, l'attacco allo Stato, purtroppo inefficiente e vacillante, la predicazione dell'odio contro una società purtroppo disorientata e divisa in opposte fazioni, ricavano motivi, ragioni, sfoghi da una orrenda sciagura. Il fatto che i comunisti speculino pesantemente, ai fini della loro fazione, su questa sciagura non significa che non possano esistere responsabilità colpose.

Ma spetta allo Stato ricercarle e valutarle, non ai comunisti, non ai partiti, non alle fazioni. Lo Stato deve impegnarsi nel modo più severo, nel modo più inesorabile. Anche a costo di fare il processo a se stesso.
E intanto spetta allo Stato frenare le risse, neutralizzarle, impedirle.

Oggi il capo dello Stato si reca a Longarone per portare conforto ai vivi e per inchinarsi dinnanzi ai morti. Ebbene: accompagniamo Antonio Segni, che tutti ci rappresenta, in questo suo viaggio di pietà e d'amore, di speranza e di giustizia, al di là della rissa, al di là dell'odio, per la salvezza, la dignità e l'onore della nostra patria.


CORRIERE DELLA SERA, 16 ottobre 1963

La ricerca delle responsabilità

L'autorità giudiziaria e l'autorità politica, interpretando il sentimento comune di cordoglio e, insieme, di giustizia che ha commosso il Paese, hanno sollecitatamene disposto rispettivamente un'istruttoria penale e un'inchiesta amministrativa, per l'accertamento dei fatti e delle responsabilità per la terrificante catastrofe del Vajont.

Senza voler entrare in apprezzamenti tecnici, che non sono di nostra competenza, ed al solo scopo di illustrare al lettore, sommariamente, il compito delle due indagini, spiegheremo: 1) quali possono essere le eventuali responsabilità; 2) a chi potranno essere eventualmente attribuite; 3) quali sono i requisiti giuridicamente necessari, perché possa sorgere una responsabilità punibile con sanzioni penali o amministrative.

È evidente che una prima responsabilità potrebbe essere ravvisata già nella sola scelta del luogo, dove furono collocate le importanti opere del bacino. Non è necessario essere geologi o ingegneri, per intuire che uno sbarramento d'acqua e una raccolta delle acque stesse di notevoli proporzioni possono essere sopportati senza inconvenienti solo entro certe condizioni ambientali. Anche nella natura inanimata esistono rapporti di tipo organico, dimodoché una modificazione introdotta in una certa area reagisce su tutte le aree contigue. La scienza quindi poteva, a priori, sconsigliare nel Vaiont l'inserimento del bacino, data l'indole infida dell'ambiente geologico. Vi può essere stata poi una responsabilità nella progettazione o nella esecuzione delle opere, o perché genericamente difettose o perché difettose in relazione alle particolari condizioni del sito, che potevano forse imporre particolari dispositivi di cautela. In entrambi i casi, si tratterebbe di responsabilità connesse, diciamo così, 'costituzionalmente' con questo disgraziato bacino. Ma sembra accertato che, in questi ultimi tempi, non senza qualche precedente premonitorio, fosse stato constatato un moto di smottamento e che fosse stata disposta anche una particolare vigilanza. Vi è stato errore, sottovalutazione del fenomeno e della sua pericolosità, dell'urgenza dei rimedi?

Secondo quesito. Su chi, eventualmente, potranno ricadere le responsabilità?
I soggetti che possono essere chiamati in causa sono tre: la società originariamente concessionaria, la S.A.D.E.; l'E.N.E.L., succeduto alla S.A.D.E., dopo l'avvenuta nazionalizzazione delle industrie elettriche, ed infine gli organi dello Stato, Genio civile e Ministero dei lavori pubblici, se ed in quanto l'attività dei due enti nominati era soggetta ad autorizzazioni, controlli e collaudi da parte degli organi dello Stato. In proposito, però, non bisogna dimenticare che la responsabilità penale è personale, e, fatta salva ogni ragione civile dei danneggiati verso società, enti e Stato, le sanzioni punitive possono colpire solo i singoli funzionari dalla cui azione o omissione derivò l'evento.

In tutti i casi, ed eccoci alla terza spiegazione, in ipotesi non può che trattarsi di delitto colposo, sia pure quello più grave previsto nell'art. 449 del codice. Il delitto colposo, come è noto, è quello in cui l'evento, anche se preveduto, deriva da imperizia, negligenza e imprudenza o inosservanza di norme o di ordini. E va sottinteso che il grado di diligenza, prudenza, perizia, docilità alle leggi e agli ordini delle autorità va commisurato, in ogni fattispecie, alla gravità e dannosità dell'evento che bisogna evitare. Nel caso in esame la valutazione dell'elemento soggettivo della colpa non potrà non essere severo, considerato che la sciagura è costata la vita di migliaia di persone.

Nessuno dubita che sarà fatta piena luce sulla terribile notte del Vaiont. La magistratura farà come sempre il suo dovere. E la commissione d'inchiesta amministrativa, presieduta da un altissimo magistrato e composta dei più distinti specialisti che onorino la nostra università e la nostra burocrazia, non potrebbe dare più sicuri affidamenti.
Non va taciuto, infine, che il ministro dei lavori pubblici ha rivolto alla commissione una raccomandazione aggiuntiva: quella di indagare anche se la sciagura del 9 ottobre possa essere, eventualmente, attribuita, anche in parte, a difetto o a mancanza di un'adeguata disciplina legislativa. È, infatti, opportuno che lo spirito pubblico sia tranquillizzato anche sotto questo profilo, e cioè che la legislazione in materia sia adeguatamente aggiornata, qualora si trovi in ritardo, rispetto ai rischi che si connettono alle pur grandiose opere della civiltà moderna.

Non crediamo che si debba mescolare la politica ad una sventura, che tutti rattrista egualmente, e della quale tutti vogliono che siano individuate le colpe se colpe vi furono. Sarebbe mostruoso se qualcuno volesse trarre un profitto di parte dai morti, sepolti e non sepolti.

Panfilo Gentile


Pagine tratte da "La Diga di carta - Giornali e giornalisti sul Vajont"


Tiziano

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