La nuova serie di «Cronistoria»

Longarone anno zero

 

Con «Longarone anno zero», l'editrice La Cronistoria presenta ai suoi lettori una nuova interessante serie di cronaca. I tragici avvenimenti del Vajont hanno imposto agli Editori una variante nel programma che prevedeva il debutto a Roma con la ricostruzione completa di una clamorosa inchiesta di polizia giudiziaria.
La scelta dell'argomento viene oggi proposta ai lettori come base per un giudizio sulla sensibilità editoriale di una formula inedita che sottoponiamo all'attenzione di un pubblico vastissimo e senza limitazioni di categoria. La veste tipografica, i criteri giornalistici moderni che non possono più prescindere dallo sfruttamento completo dell'immagine fotografica, la collaborazione e la diretta partecipazione degli autori della nostra quotidiana cronaca, la loro onestà apolitica, non ultimi la accessibilità del prezzo e i criteri diffusionali, sono i maggiori motivi di interesse che offriamo ai nostri amici, desiderosi di accertarne il gradimento, con l'augurio di costruire un'opera oltretutto utile.

La tragedia del Vajont sovrasta le cronache degli ultimi anni e resterà impressa nel ricordo di tutti.
«La Cronistoria» ha voluto rendere omaggio alle vittime del disastro e a quanti si sono adoperati nell'opera di soccorso pubblicando questo libro che è una fedele narrazione, corredata da una ricca appendice fotografica, dei fatti che hanno sconvolto Longarone e gli altri paesi che vivevano sotto la grande diga all'ombra del monte Toc. Abbiamo affidato a Felice Borsato, inviato speciale de «Il Giornale d'Italia» di Roma sui luoghi del sinistro il non facile compito di narrare ai nostri lettori le terribili conseguenze della sventura.
Lo spirito del cronista è stato sollecitato dall'immane compito. È una storia che sembra quasi irreale per la sua impressionante fisionomia. A questa storia si è diretto il nostro impegno. È un impegno difficile che si ispira moralmente a quello sovrumano dei vigili del fuoco, dei soldati, dei civili che, sul luogo del disastro, hanno lavorato ininterrottamente, lottando con i badili, coi picconi, colle sole unghie contro la massa di fango che aveva creato su Longarone una tragica tomba.
Ringraziamo tutti coloro che che hanno permesso di realizzare questa cronaca. E il nostro pensiero va a chi è caduto sotto l'ondata della morte, a chi è sopravvissuto senza più casa, senza più famiglia. Un pensiero di dolore e di solidarietà
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Gli Editori  


LONGARONE ANNO ZERO


Capitolo I - La grande ondata

Pag. 7

Capitolo II - Il giorno dopo

>> 19

Capitolo III - Sul versante del Friuli

>> 29

Capitolo IV - Il viaggio più triste

>> 37

Capitolo V - L'opera dei Vigili del Fuoco

>> 43

Appendice fotografica (qui omessa)


  CAPITOLO PRIMO

LA GRANDE ONDATA

  Mercoledì, 9 ottobre 1963, ore 21,30.
Due carabinieri escono dalla stazione di Longarone per effettuare un servizio urgente; non si tratta del solito accertamento di polizia giudiziaria per fornire informazioni alla tale tenenza o al tale commissariato di pubblica sicurezza: non sarebbe l'ora più adatta.
I due carabinieri - un giovane messinese ed un veterano di Rovereto -, moschetto in spalla, escono dalla caserma e si avviano a piedi verso Castellavazzo, alla periferia nord di Longarone. È stato dato loro l'ordine di bloccare il traffico automobilistico sulla statale 51, l'«Alemagna», che, oltre Longarone, raggiunge il magnifico lago artificiale di Pieve di Cadore costeggiando la strada ferrata sino alla stazione terminale di Calalzo.

Da almeno un paio di anni la gente di Longarone, poco più di quattromila persone, viveva nell'incertezza, volgendo lo sguardo timoroso verso la grande montagna che serra nella sua gola la diga. Il monte Toc - per quello che dicevano in paese e un po' tutti nella valle cadorina del Piave - non avrebbe dato preoccupazioni; era la diga che, un giorno o l'altro, sarebbe venuta giù e quella sera l'allarme era stato dato proprio dalla cima, dalle camere di controllo incassate nella massicciata di cemento, dove i tecnici controllavano il livello del «manufatto», come chiamavano il grande quantitativo d'acqua contenuto nell'invaso.
Francesco D'Amico e Rinaldo Aste raggiunsero in pochi minuti l'«Alemagna» e cominciarono il loro servizio, limitandosi a deviare il traffico senza dare spiegazioni agli automobilisti un poco sorpresi della imprevedibile novità. Ne avevano sentite tante sulla diga del Vajont che qualsiasi cosa avessero detto poteva essere fraintesa, male interpretata o non creduta. Trascorse appena un'ora, poi il disastro troncò bruscamente la vita pacifica dei cadorini di Longarone e di Faé, dei friulani dell'altro versante, dei valligiani del Piave sovvertendo l'ordine naturale delle cose, come una apocalittica rivolta della natura, impegnata a distruggere e ad uccidere. Fu la fine di Longarone.

Felice BorsatoI due militi - racconteranno una settimana dopo, ancora sbigottiti, quasi increduli di fronte all'immane disastro - superarono di corsa l'abitato di Castellavazzo repentinamente destato dal sonno e, a bordo di una di quelle auto che provvidenzialmente avevano bloccato a pochi passi dal municipio di Longarone, ripararono nel Trentino dove furono accolti in un ospedale di Bolzano.
Che cosa era accaduto? Aveva ceduto la diga oppure la montagna era precipitata a valle trascinando l'acqua dell'invaso?

In quella notte le voci più disparate si incrociarono da un centralino telefonico all'altro, ai lati opposti del disastro, Castellavazzo a nord, Ponte nelle Alpi e Belluno a sud. Furono così confuse e discordanti le prime informazioni che nelle sedi dei giornali giunsero contorte, falsate e imprecise, laddove la cronaca esige particolari chiarissimi. Non era crollata la diga e la frana della montagna aveva assunto particolari aspetti, nuovi nella luttuosa storia dei disastri che avevano fatto epoca fino al più recente, quello di Frejus in Francia.

Mezzo milione di metri cubi di montagna era franato nell'invaso della diga; l'acqua aveva formato una gigantesca colonna e, superata la cinta di cemento elevata dall'uomo, aveva avvolto in un vortice di morte le case di Longarone, spazzando via ogni segno di vita e lasciando le tracce della disastrosa cascata verso valle, oltre l'ansa del Piave a Ponte nelle Alpi e Cadola.
Sul versante opposto, nel Friuli, aveva prodotto le stesse terribili conseguenze, trovando meno resistenza e provocando, quindi, la completa distruzione: le case di Casso e di Erto erano state appena sfiorate, come era accaduto nel versante cadorino per i villaggi incassati nella montagna, in riva al Piave. La grande colonna d'acqua li aveva sovrastati ed erano stati protetti dalla parabola stessa dell'ondata, quasi sotto un arco, in trepidante attesa.

I primi ad accorrere furono i tecnici della TELVE, l'azienda telefonica veneta.
Essi si erano resi conto del disastro, pur non potendone intuire la natura, prima ancora che l'acqua raggiungesse l'abitato di Longarone; al controllo dei cavi telefonici, le centrali di Belluno, di Pieve di Cadore e tutte le altre del Veneto, da un capo all'altro della regione, notarono l'interruzione repentina appena i primi allacciamenti a terra furono sradicati dall'ondata. Così da Conegliano partì la prima squadra di emergenza: una ventina di operai e una mezza dozzina di tecnici. Arrivarono lassù, un paio di chilometri oltre l'abitato di Ponte nelle Alpi, insieme ai primi soldati, gli alpini di Belluno, gli alpini di Pieve, i fanti di Vittorio Veneto, gli uomini dei servizi assistenziali del capoluogo.
Tutti, strada facendo, si resero conto delle proporzioni del disastro.
   Dal sud, incontrando le devastazioni provocate dal Piave, osservando il sinistro procedere delle acque del fiume che trascinavano a valle corpi umani, carcasse, detriti di ogni genere, automobili, alberi e tralicci dell'alta tensione;
   dal nord, disperatamente impegnati ad individuare le luci di Longarone spente improvvisamente e udendo i rumori sordi della disordinata caduta dell'acqua. Poi, da Castellavazzo a Ponte nelle Alpi e Faé, lo spettacolo di morte fu chiaro, evidente, terribilmente presente e la verità si rivelò molto più spaventosa e drammatica di qualsiasi storia costruita ad arte dalla più fervida immaginazione letteraria.

Longarone era scomparso in poco più di cinque minuti. Soltanto a nord un gruppo di bicocche e l'edificio del municipio erano stati risparmiati, quasi protetti, sulla sinistra, da una vecchia strada impraticabile che si congiungeva, dall'altra parte del paese, al bivio per lo Zoldano, Dont e il Passo Duran. Al centro dell'abitato sradicato dalle fondamenta, una casa di mattoni era rimasta indenne; un'altra sul pendio a sinistra e in mezzo alla distesa di sassi il campanile della chiesetta e una parte dell'arcata centrale quasi piegata sul fondale dell'altare maggiore dedicato al culto della Vergine. Il resto desolazione, fango, melma, pietra che dal letto del fiume era stata sollevata e scaraventata per centinaia di metri; nessuna traccia di strade e distrutto anche il doppio binario della ferrovia che aveva assunto una posizione irreale, scagliato in alto fino a una ventina di metri laddove i tralicci e i pali della linea telegrafica erano stati piegati a terra in posizione orizzontale. Peggio di un terremoto, peggio di un ciclone: una sciagura che pone nuovi termini di paragone per le cronache di un disastro allucinante.

Il Piave ha mormorato ancora, cinquant'anni dopo, come nella grande guerra dei nostri padri, ma allora il suo boato fu un inno impetuoso di vittoria. Le misurazioni idrometriche nei centri attraversati dal fiume, dalle Alpi all'Adriatico, avevano segnato le punte massime della piena per oltre un'ora. A Belluno, poi, la piena era durata quattro ore e mezzo e se il corso del Piave non toccasse la città in leggera pendenza, il capoluogo avrebbe subìto, parzialmente, la stessa sorte dei sobborghi: almeno qui la natura è stata provvidenziale!

Arrivai lassù di notte, mentre già un migliaio di uomini in divisa erano intenti a mettere ordine in uno scenario dantesco.
Verso l'alba ebbero la luce dalle «fotoelettriche» e cominciarono a lavorare di piccone per rimuovere le macerie e cercare gli scampati. Ma quella notte erano morti quasi tutti. Anche più tardi, quando i mezzi affluiti da ogni parte della regione, da Rovigo al Trentino, consentirono una più razionale operazione di rastrellamento, il numero dei superstiti bisognosi di cure non arrivò ad una quarantina, mentre gli altri vagavano da un masso all'altro, inebetiti, a cercare i loro morti.

Quello che accadde alle prime luci dell'alba ha qualcosa di prodigioso: la cronaca più scrupolosa non è riuscita a registrare i movimenti, le azioni, i passi decisivi compiuti da coloro ai quali spettava, in quel caos, mettere ordine ed organizzare l'assistenza. Una volta tanto la lenta macchina della burocrazia statale italiana ha smentito se stessa supplendo alle inevitabili deficienze di un organismo paralizzato, quasi, da una sciagura più grande dell'immaginazione: dove non arrivò la prefettura di Belluno, dove non riuscì ad intravedere la gravità della situazione e la minaccia incombente la prefettura di Udine, arrivarono dal Ministero degli Interni e dalla «Difesa» gli ordini precisi da eseguire, i programmi da attuare con immediatezza, la scelta tempestiva degli uomini cui sarebbe stato affidato il comando della più impegnativa operazione di assistenza che un triste destino aveva reso impellente in un angolo d'Italia.

Il Ministero degli Interni mosse la prima pedina facendo suonare la campana d'allarme nella caserma dei vigili del fuoco di via Genova e per il Cadore partirono i mezzi della colonna mobile con i suoi centocinquanta specialisti; contemporaneamente dall'Alto Adige si mosse il IV Corpo d'Armata agli ordini del gen. Ciglieri.
Gli alpini, vecchi e giovani, della provincia di Belluno, non avrebbero mai potuto da soli affrontare una situazione così grave e disimpegnare i cento e cento compiti da svolgere in quello stato di calamità; nè a Belluno nè a Udine se ne sarebbero resi conto prefetti ed ufficiali di governo, destati repentinamente da una devastazione apocalittica. E così ebbe inizio, in un clima di disperata tensione, di dolore e di costernazione generale, un'opera che ogni italiano dovrà rammentare, onore e vanto dei figli migliori della Patria.

Bisognava unificare i comandi e dominare la situazione; mille cose da fare, tutte urgenti, tutte essenziali per limitare i danni, per strappare alla morte altre vite umane, per la salute pubblica, per sollevare moralmente gli scampati ed aiutarli, sin da allora, a superare i minuti più tragici della loro esistenza. E tutto fu fatto con uno spirito di dedizione, quasi con entusiasmo, nel dolore che aveva colpito ogni italiano, sin dalle remote regioni del sud e dalle Isole, senza risparmio di energie, con i larghi mezzi di cui i nostri soldati hanno potuto disporre, oltre ogni previsione dal punto di vista organizzativo e della efficienza.

Il comando del IV Corpo d'Armata si accampò sotto una tenda, a due passi dalla statale «Alemagna» cancellata come ogni opera dell'uomo, per oltre tre chilometri, da Faé a Castellavazzo. E di lì un generale coordinò i movimenti dei suoi uomini, dei carabinieri, delle guardie di pubblica sicurezza, della polizia stradale, dei vigili del fuoco e dei soldati delle altre armi accorsi nella valle del Piave, primi fra tutti gli alpini, poi i bersaglieri, i genieri e gli specialisti. Sotto quella tenda il generale ha combattuto la sua battaglia di pace e l'ha vinta, ad onta delle difficoltà più grandi. Dove soltanto poche ore prima sorgeva Longarone, sui due lati della strada per Pieve di Cadore, sulla riva sinistra del Piave dominava una lunga distesa di sassi, di alberi divelti, di rotaie sradicate, di traversine spezzate, automobili frantumate, tetti strappati dalle case abbattute, di mobili, di alberi e soprattutto di corpi umani dilaniati, contorti, nello spasimo di una morte orribile, spesso dovuta ad asfissia, recanti nel volto i segni dei polmoni lacerati nel disperato e vano tentativo di respirare e di sopravvivere.
In alto a destra, a ridosso dell'altra sponda non risparmiata, il gigante di cemento, la diga del Vajont, resa quasi più piccola, nella sua maestosa posizione al centro della gola, dalla massa di terra piombata giù dalla montagna.

Un terremoto, un ciclone, una frana in zona montana, un bombardamento aereo non avrebbero provocato tanta distruzione: la piana dove sorgeva il piccolo paese di Longarone sembrava aver subìto un grande colpo di falce, come se un esercito di bulldozers avesse arato l'intera superficie scaraventando nella piena del fiume uomini e mattoni. Eppure il disastro di Frejus, i terremoti di Agadir e di Skopje, le stesse alluvioni del Polesine e del Salernitano avevano riempito le cronache di spettacoli allucinanti. Ma Longarone era qualcos'altro di più, che l'immaginazione avrebbe stentato a disegnare.

In Macedonia, tre mesi prima, avevo visto le conseguenze delle cinquanta scosse sismiche di Skopje ed ero stato costretto a proteggermi, trenta ore dopo il disastro, dal ritorno del sisma in forma sussultoria. Tante costruzioni, però, erano rimaste in piedi e non soltanto quelle in cemento armato edificate dal regime di Tito; le fondamenta avevano resistito consentendo una limitazione del numero delle vittime di quella povera gente e le acque del Vardar furono, in molti casi, una strada senza insidie per abbandonare, seppure fortunosamente, l'abitato della capitale macedone traballante sempre più al ripetersi di ogni scossa. E anche in Jugoslavia i morti furono centinaia e non tutti i corpi furono recuperati nonostante il lavoro sovrumano di migliaia di giovani reclute dell'«Armata Rossa».

Eppure Longarone, anche senza considerare nei primi bilanci il triste primato delle vittime, non consentì paragoni e apparve subito agli occhi sbigottiti dei soccorritori come una landa senza vita dove la morte era passata, con rapidità inaudita, falciando l'uomo ed ogni sua opera.
E anche il Piave fu un letto di morte. I superstiti più giovani non l'avevano mai visto così impetuoso; i loro padri sono tornati con la mente alle vicende eroiche della grande guerra quando il Piave, davvero, "mormorò". E fu un letto di morte per la sua violenza, alimentato dalle acque stagnanti del Vajont e del lago artificiale scaraventate a valle dalla grande frana precipitata nell'invaso.


  CAPITOLO SECONDO

IL GIORNO DOPO

  Sotto un sole implacabile mille uomini lavoravano con il piccone a rimuovere le macerie. "Una sola probabilità di trovare uomini in vita, su quante... non so", mi disse il generale Ciglieri. E allora scavarono per trenta ore senza un minuto di interruzione, riuscendo soltanto a raccogliere i primi corpi straziati da una morte tremenda. Vennero alla luce, sotto i sassi, i bimbi di Longarone e i loro nonni: giovanissimi e vecchi che non avevano avuto il tempo di rendersi conto di quanto stesse accadendo; a sera ne avevano recuperati poco meno di cento. Eppure avevano accatastato tanto materiale da alzare un grattacielo. Ormai le macerie trattenevano soltanto dei corpi senza vita e nonostante questa certezza logica l'ordine fu di scavare ancora per affrettare l'opera di recupero delle salme e ridurre, fino alla eliminazione, la possibilità del diffondersi di epidemie. Un lezzo insopportabile orientava, già, al calar della sera, i soldati da un cumulo all'altro di sassi ed ogni volta la loro ricerca pietosa confermava la presenza di altre salme.
Ma il numero maggiore fu recuperato nel Piave, anche oltre a valle, a Cadola, dove sorgono gli stabilimenti della «Faesite»; qui la piena del fiume aveva ammassato un enorme quantitativo di legname ed una volta rimosse le cataste i corpi erano affiorati uno dopo l'altro presentando tutti lo stesso desolato aspetto, i più completamente spogliati, con le ossa frantumate dalla corsa folle dell'acqua verso il tratto pianeggiante del fiume.

D'ora in ora le esigenze del comando operativo crebbero. Ma la buona organizzazione e la larghissima disponibilità dei mezzi impiegati consentirono di assolvere ogni compito. Entro la giornata di venerdì, oltre cinquemila uomini giunsero nel Cadore; tra questi i centocinquanta vigili del fuoco della colonna mobile di Roma la cui presenza, nelle ore che seguirono, si doveva rivelare di enorme utilità. Sulla strada provinciale, dal bivio di Ponte nelle Alpi a Belluno, oltre il pratone che ospita l'aeroclub provinciale, vennero sistemati i mezzi pesanti dell'esercito e quelli modernissimi dei vigili di Roma. Prima di sera il piccolissimo aeroporto servì da base agli elicotteri il cui contingente venne rapidamente aumentato con la partecipazione degli americani della SETAF di Vicenza. Così, disponendo di una trentina di elicotteri, ebbe inizio la sistematica perlustrazione del Piave, per segnalare ai mezzi anfibi dei «pompieri» la presenza di corpi umani o di carcasse, queste da recuperare e distruggere immediatamente con i lanciafiamme.

Nell'intera zona del disastro, con particolare cura nel versante cadorino di Faé e di Longarone maggiormente colpito, gli specialisti della «sanità» diedero inizio alla disinfestazione cospargendo le macerie di cloruro di calcio, dopo aver ripetuto già alcune volte la stessa operazione nei tratti del fiume dove i detriti avevano trattenuto per alcune ore i corpi delle vittime. L'ordine di evitare in qualsiasi modo di servirsi delle acque del Piave impartito dall'autorità prefettizia di Belluno fu esteso ai territori delle provincie di Treviso e di Venezia (nella Laguna fu persino proibita la pesca), fece impressione e in tutta la zona, non soltanto quel giorno, fu distribuita acqua trasportata da Pieve di Cadore e da Feltre.
Dalla mattina precedente, poche ore dopo il disastro, i cadorini erano stati messi in allarme per la presenza nel Piave di dodici barili di cianuro di potassio travolti dalla colonna d'acqua quando aveva raggiunto un piccolo stabilimento artigianale di Longarone; nonostante le ricerche, dopo trenta ore circa, ne erano stati recuperati soltanto otto: anche questa minaccia tenne lontana la gente dalle acque del Piave che vennero sottoposte a continue disinfestazioni fino alla Priula, in provincia di Treviso, San Donà e a Cortellazzo, in piena laguna di Venezia.

Quel giorno ancora, il traffico sull'«Alemagna» venne interrotto al bivio di Ponte nelle Alpi per Belluno: qui centinaia di macchine provenienti da ogni parte d'Italia e da oltre il confine, dai paesi dell'arco alpino facevano ressa a pochi chilometri dal blocco della «stradale». Tutti volevano passare e tutti quegli automobilisti avevano almeno 'un' motivo valido per arrivare a Longarone, a Faé, a Cadola e a Castellavazzo. Ma la strada, nonostante la comprensione degli uomini che a quel servizio furono addetti e degli stessi amministratori della prefettura di Belluno, non c'era più.
Dal bivio di Ponte nelle Alpi non ci si poteva rendere conto della gravità della situazione e di cosa quella terribile ondata aveva provocato nel cuore della valle dove sorgevano Longarone e Faé.
Alcuni non riuscivano a farsi un'idea della portata eccezionale del disastro e quando, a piedi oppure sui camion dell'esercito e dei vigili del fuoco, giunsero nella piana, subirono lo stesso choc dei soccorritori, dei giornalisti, delle autorità giunte da Roma, di quanti erano lassù per constatare le conseguenze di un disastroso disegno della natura*. [* questa la versione in voga, in quei giorni, N.d. webmaster]

Molti erano emigranti; gente di Longarone andata a lavorare nelle miniere della Francia e dell'Inghilterra o in Germania o in Austria dove erano riusciti a creare piccole aziende artigiane; la maggior parte arrivò ai blocchi, li superò in un modo o nell'altro, e poco più avanti ebbe la conferma che tutto ormai era perduto. Li ho visti vagare nella piana desolata, facilmente riconoscibili per le valigie che portavano con sé, alla ricerca di quei sassi che erano appartenuti alla casa che li aveva visti nascere e crescere. Quasi tutti, ormai, si accontentavano di localizzare le mura della casa dei genitori e dei fratelli e poi scavavano con i soldati e i vigili per recuperare e riconoscere i corpi straziati dei loro congiunti.

All'albergo Centrale di Belluno, quella notte, vidi un giovanotto di vent'anni o poco più. Vestito di blù, con la camicia di seta e la cravatta bianca, le scarpe di vernice nera coperte di polvere e di fango. Era arrivato dalla Germania e la domenica successiva avrebbe dovuto condurre all'altare la fidanzata per coronare un sogno d'amore nato nell'infanzia e cullato in tanti anni di lavoro lontano da casa. Tra le macerie della casa dove la sua ragazza abitava con la madre, trovò soltanto un vestito bianco, lo stesso per il quale, lui e lei, si erano scritti tante lettere, fino a raggiungere un accordo, per la scelta del modello. «Lo ha raccolto in mani tremanti - mi raccontava un ufficiale della polizia - lo ha serrato al petto ed è scappato via». Poi è stato rivisto, accanto ai soldati, a scavare tra i sassi.

Venerdì sera alla prefettura di Belluno i giornalisti cercarono di conoscere le cifre ufficiali del disastro: fino a quel momento si era parlato genericamente di «migliaia di morti», alcuni avevano azzardato un bilancio sulla base delle notizie discordanti che rimbalzavano dalle prefetture venete al Ministero degli Interni. Quanti erano? Duemila? Tremila? O forse anche quattromila?

Si seppe soltanto che i danni materiali avevano superato i venti miliardi di lire e che i dispersi erano non meno di duemilacinquecento.
In prefettura usavano il termine "dispersi" precisando, poi, il numero irrilevante delle salme recuperate. Si poteva già parlare di morti, anche perchè più o meno tutti erano certi ormai dell'impossibilità di trovare dei superstiti sotto le macerie di Longarone. Era vero che gli infaticabili carabinieri di Gorizia, i soldati del Friuli e dell'Alto Adige, le «fiamme oro» di Padova, gli stessi vigili del fuoco di Roma erano ancora lì a scavare intorno alle fondamenta nude delle casupole di Longarone, ma gli scampati, con gli occhi velati dallo strazio di una realtà che essi avevano intravisto prima di tutti, dicevano che la gente dormiva ai piani di sopra e che quando la montagna era piombata nell'imbuto della diga, sollevando la grande colonna d'acqua, dormivano tutti da un paio d'ore «e son andati giù... insieme al Piave, verso il mare».
E chi avrebbe potuto, e come sarebbe stato possibile effettuare il recupero delle vittime, se la maggior parte seguì il corso impetuoso del fiume nello stesso momento in cui il disastro si verificò?

Il problema della sepoltura delle salme divenne, nelle ore di quel secondo giorno che seguirono, impellente e grave. Le precauzioni prese dalle autorità sanitarie non davano più sufficienti garanzie; lo stato di allarme per la presenza nel Piave della maggior parte dei corpi e di un quantitativo considerevole di cianuro di potassio non era cessato; anzi si era giunti inevitabilmente al momento più critico. Le prime salme recuperate dove sorgeva Longarone e sotto la diga erano state trasportate al cimitero di Belluno; poi il costante afflusso, appena i vigili del fuoco furono incaricati di occuparsi del recupero e del seppellimento, e le esplorazioni compiute nelle anse del fiume consigliarono di spostare dal capoluogo il concentramento delle salme.
Bisognava considerare, infatti, che alcune non potevano essere sepolte perchè non erano state ancora riconosciute e che non si potevano lasciare tre o quattrocento bare aperte in un centro urbano per due o tre giorni senza correre il rischio di un inquinamento. [epidemia]

Così il prefetto di Belluno, ascoltati i tecnici della «sanità» e con il parere del generale Ciglieri e del vice comandante dei vigili di Roma, ing. Rosati, che dirigeva la colonna mobile, scelse due grandi campi coltivati a granturco e patate, a lato della piccola stazione di Fortogna: qui, a due chilometri circa dalle prime case di Longarone, sulla sinistra della statale 51, oltre il passaggio a livello della ferrovia per Calalzo, sarebbe sorto il camposanto di Longarone [quello stuprato DEFINITIVAMENTE, checché se ne dica, dal giovane sindaco De Cesero nel 2004, nota d. webmaster].
Nel cimitero di Belluno, in quello minuscolo di Castellavazzo e a Pieve di Cadore erano state già sistemate le bare scoperchiate dall'acqua a Longarone: non era stato risparmiato neppure il cimitero e ad indicarlo erano rimasti due cipressi e qualche lastra di marmo con l'epigrafe dei morti del secolo ventesimo.

Non potrò mai dimenticare lo spettacolo di Fortogna.

Oltre il binario della ferrovia la mia attenzione fu richiamata dal rombo degli escavatori che liberavano il campo dalle piante ancora acerbe, creando una lunga fila di solchi. Di fronte, sotto la grande montagna che chiude la valle sulla sinistra, nascondendo l'ultimo tratto della «Zoldana», la Croce Rossa aveva alzato le sue grandi tende bianche per proteggere dai raggi inclementi del sole una catasta interminabile di bare ancora aperte.

Un gruppo di uomini pieni di coraggio e di carità animava uno scenario macabro ed incredibile. Sulla destra altre salme, già ricomposte, in attesa di essere riconosciute; poi ancora bare recanti a calce, su un fianco, un numero che equivaleva a un nome, in attesa di essere definitivamente collocate nell'ex campo di mais. Al centro delle due tende più grandi, i vigili del fuoco scaricavano le salme così come giungevano a Fortogna dai luoghi dove erano state recuperate: avvolte in un lenzuolo di nailon, disinfettate con gli spruzzatori che i contadini usano per cospargere di verderame le viti, quindi adagiate nelle casse e portate sotto una tenda in attesa che una mano pietosa sollevasse il coperchio per riconoscerle. Uno spettacolo allucinante in una radiosa giornata di ottobre, sotto le pendici verdi delle montagne.

A Fortogna le autorità sanitarie hanno combattuto e vinto la loro battaglia: seppellire a tempo di record i corpi, garantire la osservanza delle norme igieniche e liberare l'ampia zona del disastro dall'unica fonte di infezioni e malattie.

Un frate con la lunga barba e i sandali, l'acquasantiera e un messale nelle mani, suppliva con la sua pietà alla mancanza di funzioni e di esequie solenni, come avrebbero meritato quei poveri disgraziati colti nel sonno dalla morte più atroce. I corpi degli uomini e delle donne di Longarone e di Faé si presentavano ai nostri occhi in condizioni irreali e riuscivano a spiegare, nel loro terrificante aspetto, meglio di ogni realistica ricostruzione, la portata del disastro. Avevano un aspetto diverso dalle vittime del Polesine, di Agadir, di Skopje: sembravano morti due volte!


  CAPITOLO TERZO

SUL VERSANTE DEL FRIULI

  Il Toc e la diga, a quanti giunsero in Cadore per rendersi conto della gravità del disastro, nascondevano le rovine del versante friulano. La diga del Vajont, geograficamente, appartiene al territorio della provincia di Udine, in pieno Friuli, dunque. Dalla parte opposta, l'acqua del lago aveva superato i limiti abituali con la stessa violenza; era piombata sulle casette sparse del versante, falciando e seminando la morte, ne più ne meno di quanto era accaduto nel Bellunese, a Longarone e a Faé. Il versante friulano, però, con la sua configurazione, non ha offerto alla grande colonna d'acqua la possibilità di accrescere la velocità di caduta. Così se i danni sono apparsi meno gravi, dopo aver visitato metro per metro il versante cadorino del Toc, ciò è dovuto unicamente alla mancanza di un agglomerato di case dove la furia dell'acqua si sarebbe abbattuta con estrema violenza. Cento case nel versante cadorino, dieci soltanto nel versante friulano: le une e le altre sradicate da una forza incontenibile.
Le prime notizie fecero intravedere una situazione piu' grave per le abitazioni di Erto e Casso, ma in effetti l'acqua del Vajont non giunse oltre quelle piccole case di contadini. Provocò sue vittime anche ad Erto e a Casso, ma non raggiunse il centro degli abitati che si snodano in lunghezza ai lati della strada provinciale che da Cimolais sale fino alla diga per scendere, poi, nel versante cadorino fino a Longarone. Qui la piena strappò le casette sparse sulla china, a metà strada tra l'abitato di Erto e il livello del lago, provocando danni enormi sulle rive del lago dove sorgevano piccoli stabilimenti artigiani e dove le opere di consolidamento avevano richiesto un impegno non indifferente. Volò tutto via, come le case di Longarone, come le massicciate dell'«Alemagna», come la strada ferrata interrotta da Faé a Castellavazzo.

Soltanto più tardi, tre giorni dopo, l'abitato di Erto fu minacciato da una nuova frana: una frana del Toc che non avrebbe trovato altro sfogo nel bacino quasi asciutto e che avrebbe travolto inevitabilmente l'intero paese. Fu allora che il prefetto di Udine impartì l'ordine categorico di evacuazione, ribadito con l'intervento dell'esercito nella giornata del lunedì successivo quando il movimento della frana fu visibile ad occhio nudo. Dell'operazione si incaricarono carabinieri e finanzieri del comando di Maniago e, in poche ore, quasi milleduecento persone vennero sistemate alla meno peggio nelle colonie estive della Pontificia Opera d'Assistenza e negli alberghi stagionali di Claut, Cimolais, Maniago fino ad Aviano e Pordenone nel Basso Friuli ai confini con la provincia di Treviso.

Al posto di blocco di Cimolais, tenuto dai carabinieri, ho assistito ad una serie di incidenti inevitabili e la cui responsabilità non deve ricadere su nessuno. A Cimolais era ospitata quasi tutta la popolazione di Erto e di Casso e quanti abitavano lungo la strada che si affaccia sul lago artificiale. Gli uomini, giovani e vecchi, volevano tornare in paese, a prendere semplicemente un abito o per dare un'occhiata alle bestie lasciate incustodite; ma carabinieri e finanzieri avevano ordini precisi e quando, il lunedì pomeriggio, la situazione sembrò precipitare da un momento all'altro, vennero revocati anche i permessi rilasciati precedentemente dal prefetto di Udine ai capifamiglia, a coloro che dovevano recarsi ad Erto per riconoscere le salme recuperate, ai giornalisti e ai cineoperatori.

Era lunedì 14 ottobre.
A bordo di un'auto dei vigili del fuoco riuscii a superare il blocco stradale di Cimolais: mi dicono, comunque, che viaggio a mio rischio e pericolo e per non incoraggiarmi a salire ancora verso la diga, mi avvertono subito che mi lasceranno a metà strada, tra Cimolais ed Erto. Ci sono sei chilometri abbondanti di strada in salita e la seconda parte costeggia il lago artificiale della grande diga. Da vicino posso osservare le conseguenze della grande ondata; per raggiungere Longarone - stando alle indicazioni stradali - dovrei camminare ancora per venti chilometri circa, eppure qui la frana del Toc ha già seminato la morte.

L'acqua si è sollevata in alto spazzando via una strada e ricadendo ha avuto la stessa violenza con la quale si è scatenata sul versante opposto. Se le case fossero state una dietro l'altra come in un centro abitato, le conseguenze del disastro sarebbero state catastrofiche.

Le case invece, da Cimolais ad Erto, erano appena una decina, ma sono state tutte distrutte dalle fondamenta e gli alberi sradicati e i tralicci dell'alta tensione divelti come fuscelli al vento. L'acqua, ad un certo punto, a tre chilometri da Erto e a circa diciotto da Longarone, deve essere salita a non meno di venti metri: viceversa non sarebbe andata distrutta una strada e almeno gli impianti elettrici più importanti avrebbero resistito.

Ecco Erto!

A piedi sono subito costretto a lasciare i ciottoli ordinati della strada maestra per evitare i grossi camion dell'esercito che sostano per caricare mobili e bestiame. Se ogni abitante di Erto, infatti, ha già lasciato il paese da alcune ore, non tutti hanno avuto il tempo e la possibilità di evacuare con mobili e masserizie. Così i soldati completavano l'opera, spesso alla presenza di qualcuno di casa riuscito a sgusciare attraverso la fitta maglia del blocco, percorrendo a piedi i sette chilometri in salita. Se le autorità dovessero allentare la sorveglianza, il paese si ripopolerebbe in poche ore: questa gente di montagna sarebbe disposta a rischiare tutto per tutto pur di rimanere tra le mura amiche. E non è stato facile convincerli, i vecchi soprattutto, quelli - come tanti - scesi dalla montagna soltanto per la guerra, un paio di volte da quando sono nati. Così era già accaduto che il paese, sfollato durante il giorno, si ripopolava d'incanto nel corso della notte; un mistero che soltanto il maresciallo dei finanzieri di Maniago era riuscito a spiegare.
I vecchi non intendevano abbandonare ad un destino di incertezza le bestie e quando i soldati li avevano sorpresi ad Erto erano tutti nelle stalle intenti alla stessa operazione. E per toglier loro un motivo validissimo per tornare tra le case, a ridosso della «montagna che trema», fu molto opportunamente disposta una massiccia operazione di evacuamento di tutte le bestie: vidi persino gli alpini prendere le capre sulle spalle e i vigili del fuoco incaricarsi di muli e di vacche.

Di quando in quando, attraversando il paese abbandonato alla sorveglianza dei carabinieri si avvertiva il triste movimento della frana che fu possibile in determinati momenti del pomeriggio, puntando il cannocchiale sul monte Toc.

Erto era circondato da oltre cinquecento uomini. Sui pratoni alle porte del paese erano accampati i vigili del fuoco di Udine che anche qui - come i loro colleghi romani della colonna mobile in Cadore - si erano assunti il doloroso compito di dar pace alle salme. Il cancello del piccolo cimitero era stato aperto la domenica pomeriggio, durante la visita del Capo dello Stato e dei ministri Andreotti, Rumor e Jervolino, per seppellire tre giovanissimi. Ma da quel lunedì le salme recuperate vennero fatte scendere a valle verso i cimiteri di Cimolais e Claut: ad Erto non c'era più posto. Durante il mio passaggio clandestino, alla periferia nord, sotto il minaccioso picco centrale del Toc, recuperarono quattro salme: quattro corpi di donne che i vigili avevano localizzato a un paio di metri di profondità trattenuti da un grosso tronco d'albero.

«La posizione dei corpi - mi diceva un vigile sardo in servizio nel Friuli - era tale da far pensare ad una circostanza stranissima: una coincidenza senz'altro; diversamente non potrebbe essere. Quasi come se le poverette si fossero aggrappate all'albero per salvarsi. Ma non è possibile... non avranno avuto certo il tempo di pensare in un modo o nell'altro a salvarsi».

Qui, come non era stato fatto neppure a Longarone e a Faé, poche salme erano state riconosciute prima di essere definitivamente sistemate nelle bare e trasferite per la sepoltura. Le esigenze che avevano imposto alle autorità lo sgombero categorico dell'abitato tenevano lontani i pochi superstiti in grado di dire «questo è mio figlio» oppure «questa è mia madre». A sentirli parlare, gli sfollati di Casso e di Erto, veniva la pelle d'oca.
È gente forte come tutte le genti di montagna, ma questi cadorini e questi friulani hanno dimostrato, nella vicenda più drammatica della loro esistenza, di saper reagire con uno spirito nuovo, soltanto in quella rassegnazione cristiana che esclude forme collettive di isterismo che pur sarebbero state giustificabili, rendendo più facile l'opera di quanti si impegnarono in una gara umana di solidarietà ed annullando, con il decoro del loro lutto, persino le più volgari speculazioni dei politicanti.

E anche le donne hanno dato una grande prova, non escluse quelle - e non erano poche - che sui due versanti del Vajont persero decine e decine di familiari. Ce n'era una inginocchiata davanti al cimitero di Erto: pregava trattenendo le lacrime, mentre leggeva ai due figlioletti l'iscrizione di una vecchia targa di smalto. «Fatevi coraggio... bisogna aver coraggio - ripeteva - lì c'è scritto: "Io ero come tu sei. E tu sarai come io sono"».


  CAPITOLO QUARTO

IL VIAGGIO PIU' TRISTE

  «È stato il mio viaggio più triste» disse il Presidente Segni rientrando al Quirinale. Era il 13 ottobre e quella domenica, accompagnato dalla signora Laura e dai ministri Andreotti, Rumor e Jervolino, il Capo dello Stato aveva visitato le zone del disastro, portandosi in aereo da Roma a Treviso e di qui a Belluno in elicottero. Scendendo alle porte della città, Antonio Segni aveva notato con evidente soddisfazione, oltre il campo d'atterraggio la cui superficie era occupata da elicotteri italiani, della SETAF, dell'U.S. Army e della NATO, la base volante dei grossi automezzi dell'esercito e del corpo dei Vigili del fuoco.

In automobile si era subito recato alla prefettura per conferire privatamente con le autorità cittadine, il gen. Ciglieri e i tecnici dell'esercito ai quali era stato affidato il controllo della situazione ad evitare nuovi «attacchi» di sorpresa della terribile montagna e della diga, qualora si fosse profilata una ulteriore possibilità di cedimento. Poi all'incontro furono ammessi il vescovo di Belluno Muccin ed alcuni rappresentanti comunali del superstite consiglio di Longarone. Il Capo dello Stato ebbe per tutti parole di conforto, senza tralasciare il problema centrale che stava maggiormente a cuore ai bellunesi, ai friulani e ai cadorini: quello delle responsabilità.
Forse, però, nel corso di quella riunione informativa, nonostante i tecnici gli avessero esposto la situazione in tutta la sua gravità, il Presidente Segni non ebbe ancora l'esatta valutazione dell'immane disastro che aveva cancellato dalle carte geografiche un intero paese e cinque villaggi. Lasciò il palazzo della prefettura e si recò a piedi al duomo dedicato al culto del grande Papa veneto Gregorio XVI seguito, in un silenzio religioso, da migliaia di bellunesi.
Antonio Segni era commosso e la popolazione se ne rese perfettamente conto: avrebbe voluto applaudirlo per dimostrare il gradimento di quella sua profonda partecipazione al dolore di ogni italiano e in modo particolare di quanti lo seguivano in quel mesto pellegrinaggio, ognuno, direttamente o indirettamente, colpito dal lutto di Longarone, Faé, Erto e Casso.
Passò tra due ali di folla rispettosa: le donne, con i lunghi veli neri sulle spalle, piangevano e quando il piccolo corteo entrò nel duomo la signora Laura non riuscì a trattenere le lacrime.

Dopo la messa funebre il Capo dello Stato tornò al piccolo campo dell'aeroclub e in elicottero si portò sulle zone devastate. Prima sul versante friulano, a Cimolais, dove scese per incontrare i sinistrati di Erto alloggiati nella colonia della POA; quindi sul versante del Cadore, in mezzo alla piana dove un tempo sorgevano le case di Longarone. Qui il Presidente andò incontro, oltre gli sbarramenti della polizia, agli emigranti e ai superstiti, parlò con i deputati comunisti che gli consegnarono un «libro bianco» sulle presunte responsabilità e strinse nuovamente la mano al vice sindaco socialista Arduini e ai collaboratori del consiglio comunale. Poi, prima di salire sull'elicottero per rientrare a Belluno, intrattenendosi con uno degli scampati, pronunciò poche parole. Semplicemente: «Giustizia sarà fatta», volgendo lo sguardo ai ministri, ai due prefetti e agli alti ufficiali del IV e del V corpo d'armata che erano alle sue spalle. Tornato in città, Antonio Segni visitò i feriti all'ospedale civile. Qui disse parole di incoraggiamento per tutti, sforzandosi di sorridere da un letto all'altro nella grande sala «Pietro Trois» ed assicurando il direttore sanitario - senza che questi, naturalmente, ne avesse fatto cenno - che Belluno avrebbe avuto quanto prima il suo nuovo ospedale. «Ne avete proprio bisogno. Non potete andare avanti in questo vecchio convento».

Prima di tornare all'aeroporto, il Presidente e la signora Laura Segni si intrattennero con gli uomini della Croce Rossa Italiana; ne avevano incontrati alcuni nell'atrio dell'ospedale, ed erano proprio i responsabili delle autocolonne affluite nel Bellunese da ogni parte di Italia. La Croce Rossa, prima ancora della POA, era intervenuta in Cadore con la sua attrezzatura per lenire le sofferenze degli scampati, fiancheggiando le autorità prefettizie e il comando operativo dell'Esercito, nella distribuzione di quei generi di conforto indispensabili per fronteggiare la gravissima situazione sin dal mattino del 10 ottobre.
Antonio Segni ebbe parole di affetto e di gratitudine per tutti e andò a stringere la mano al capo squadra di Rovigo accanto alla vettura che recava scritte sulle fiancate parole indimenticabili: «il Polesine memore, per i fratelli del Cadore».

Il viaggio ufficiale del Capo dello Stato era finito. Quella sera stessa, a Roma, il ministro della difesa Giulio Andreotti si intrattenne a lungo con i suoi colleghi degli «Interni» e della «Sanità» e nelle ore che seguirono, durante lo svolgimento delle interrogazioni a Montecitorio, gli italiani ebbero, forse per la prima volta, l'impressione che il governo sarebbe andato fino in fondo nell'accertare le responsabilità della sciagura. Per quanto, infatti, lo stesso Presidente Segni, nei suoi incontri bellunesi, avesse rassicurato tutti, pur mantenendo logiche riserve nel far cenno alle eventuali responsabilità; nonostante lo stesso ministro dei Lavori Pubblici - sempre in sede parlamentare - avesse escluso la possibilità immediata di affermare l'accertata esistenza di colpa nella sciagura del Vajont, ogni italiano sapeva che la sciagura avrebbe potuto essere evitata e il vivo interessamento dimostrato dal Presidente della Repubblica, le sue chiare parole, la sua partecipazione per niente formale al dolore delle popolazioni colpite, diedero fiducia agli scampati, agli emigranti e agli stessi ufficiali di governo impegnati da quattro giorni in una battaglia senza quartiere, bene organizzata dai partiti politici, al di sopra delle immediate esigenze di una situazione così grave; una battaglia che doveva sfociare, poi, in una vera e propria denuncia presentata all'autorità giudiziaria contro i prefetti di Belluno e di Udine per "omessa assistenza in fase preventiva".


  CAPITOLO QUINTO

L'OPERA DEI VIGILI DEL FUOCO

  La terrificante sciagura del Vajont ci ha dato nuovamente la possibilità di valutare il sentimento degli italiani e di costatare l'efficienza delle nostre organizzazioni.
0All'alba del 10 ottobre 1963, lassù, oltre Ponte nelle Alpi, in una zona eminentemente turistica e quindi ottimamente attrezzata per ogni evenienza, ci fu improvvisamente bisogno di tutto, in modo particolare di braccia, di uomini forti, di uomini decisi a qualsiasi sacrificio. E gli scampati di Longarone trovarono questi uomini nel corpo dei Vigili del Fuoco. Il Ministero degli Interni e la direzione romana dei servizi anti-incendio avevano messo in movimento la famosa colonna mobile: i centocinquanta uomini del nostro migliore reparto d'emergenza. Il loro immediato impiego consentì all'Esercito di fronteggiare la situazione con maggior ordine, in quanto ai Vigili del Fuoco furono riservati i compiti più delicati del recupero delle salme e della loro cristiana sepoltura. In Cadore, però, gli uomini del Corpo, impiegati anche nel versante friulano del monte Toc, furono alcune centinaia; accanto alla squadra speciale giunta da Roma con i pesanti automezzi della colonna, operarono i Vigili del Fuoco di tutta la regione, quelli della Lombardia (primissimi nel versante del Friuli i vigili di Sondrio), quelli dell'Emilia e persino quelli di Venezia: la squadra di Cà Foscari giunse con i mezzi anfibio e nelle prime ore del 10 ottobre fu impiegata nel Piave, da Faé a Belluno, per segnalare alle pattuglie scaglionate sugli argini la presenza di corpi umani e di carcasse. A loro - abbiamo detto - sono stati riservati i compiti più delicati; le genti del Bellunese se ne resero conto subito e i superstiti, i feriti appena furono in grado di tornare tra le rovine di Longarone, gli emigrati rientrati in Patria per vedere quanto era accaduto tra le loro case, non lo dimenticheranno più.
Ad essi si rivolsero tutti e moltissime identificazioni furono possibili soltanto per la perfetta organizzazione dei Vigili del Fuoco che al campo di Fortogna allestirono in poche ore un cimitero laddove, prima, sorgevano grandi distese di granturco; ebbero la collaborazione della Croce Rossa che aprì le sue grandi tende per proteggere dai raggi del sole i corpi dilaniati, in attesa delle identificazioni. Il comando operativo del Corpo assunse la responsabilità dei registri e nessuna salma fu seppellita, senza che fosse stata identificata, ricomposta e, nella maggior parte dei casi, persino rivestita con abiti puliti.

(Questa notizia è stata confermata in termini di certezza dalle autorità prefettizie nei primi giorni del successivo dicembre, quando quasi tutti i Vigili erano tornati nelle loro sedi per combattere le quotidiane battaglie, nelle campagne e nelle grandi città, impegnati giorno e notte in luoghi di dolore).
La documentazione fotografica, anche qui, fa testo: senza l'impiego immediato degli uomini migliori del Corpo e senza la dedizione affettuosa di tutti indistintamente i nostri Vigili, il problema della sepoltura - e prima ancora del recupero e della identificazione - delle salme avrebbe creato serie difficoltà: lo stesso generale Ciglieri ebbe a dirlo al Capo dello Stato e lo stesso Presidente Segni tenne a sottolinearlo più volte all'allora Ministro degli Interni, on. Mariano Rumor.

Sul versante opposto al Cadore, in provincia di Udine, operarono i Vigili dei comandi provinciali del Veneto, della Lombardia e dell'Emilia. Qui furono impiegati anche per l'evacuazione delle popolazioni di Erto e di Casso, quando, due giorni dopo il disastro si profilò la minaccia di nuove frane. Sui pesanti automezzi rossi vennero trasportate a Cimolais e a Cault persino le bestie, e quando fu necessario, soprattutto nel Friuli, consentire ai tecnici delle aziende elettriche e telefoniche di riattivare urgentemente le linee, gli stessi Vigili diedero il loro contributo, lavorando anche di notte, senza turni e senza la possibilità di un cambio che consentisse un periodo pur breve di riposo.
Questa situazione durò per i Vigili almeno quindici giorni, mentre i soldati, la polizia e i carabinieri si avvicendarono facilmente con i commilitoni giunti da ogni parte d'Italia.

Tutto ciò essi hanno fatto con la semplicità che è prerogativa e caratteristica della nostra gente migliore, dei forti, dei coraggiosi, degli altruisti, ai quali si sa di poter ricorrere in ogni momento. Essi hanno scritto, indubbiamente, delle pagine indelebili nella storia del terrificante autunno '63 del Vajont. Pagine indimenticabili che le giovani reclute del Corpo terranno a mente come patrimonio inestimabile delle migliori tradizioni; pagine indimenticabili che ogni italiano dovrà valutare per trarre oneste conclusioni di riconoscenza, ripetendo simbolicamente l'affettuoso saluto che il Capo dello Stato diede ai nostri Vigili, lassù, tra le rovine del Cadore, mentre essi davano inizio alla loro più recente "grande opera".


 

Appendice fotografica

  Longarone. Le immagini parlano. Urlano il dolore delle popolazioni sconvolte dalla catastrofe. Rendono più aspra e dilaniante la tragedia che ha sconvolto non solo un pezzo di sventurata terra veneta ma tutto il Paese. La Nazione piange stretta intorno ai suoi fratelli in lutto, senza casa, senza più il calore della famiglia. È accaduto in una notte di autunno. Una tiepida, dolce notte di montagna. Mentre il cielo veneto invitava a divagazioni poetiche, il grande monte Toc rumoreggiava, preparava l'apocalittica scena che di lì a poco avrebbe stroncato tante vite, avrebbe cancellato dalla carta geografica un ridente paesino.

Come in una iconografia antica le immagini incidono, nel cuore di chi le osserva e le studia, un qualcosa di incancellabile, di indimenticabile. Sono la descrizione. Ma una descrizione che vale più di tutto, che parla più delle parole, che non ha bisogno di spiegazioni. E mentre la antica Pompei, la classica Ercolano, la elegante Ostia dei Romani ricordano l'epopea di una potenza finita sotto i colpi di una natura scatenata, con i loro ruderi incrostati dal tempo, le foto di Longarone creano e completano la cronaca di un minuto, di un giorno, di un anno che diverrà eternità. Perchè nei secoli si parlerà ancora di quella ondata crudele che è piombata dalla montagna, ha scavalcato la diga rendendo impotente l'opera dell'uomo, ha distrutto.

Il volto contratto e commosso del Presidente Segni, il sorriso buono della signora Laura, la pittoresca sottoscrizione per le vittime fatta dai marinai giapponesi, le bare, le carcasse di animali; tutto è vivo in un paesaggio di morte. La donna che piange dinanzi ad una scena da inferno dantesco, i soldati che trasportano senza posa i morti. I vigili del fuoco che avanzano faticosamente portando le barelle con i pochi feriti - troppo pochi! - sopravvissuti alla distruzione. Ecco cosa ci resta di Longarone. Accanto al dolore che ci tortura l'animo e ci rende ancora increduli, a tanti giorni di distanza.

La notizia ci scosse. Sembrava una alluvione. Era ben altro. E di peggio. Le redazioni dei giornali si animarono. Partirono gli inviati speciali, i fotoreporters. E di quella tragedia, ecco i documenti. Documenti che fanno paura, che lasciano senza fiato.

Gli occhi stentano a rimanere aperti su queste immagini. Bruciano di pianto. Lo sguardo si vela. È duro osservare ora quello che è stato il dramma di una popolazione. E la mente si riporta alle ultime tragedie italiane. L'alluvione del Polesine, l'alluvione della costiera amalfitana e di Salerno, le devastazioni fatte nel Beneventano da quel piccolo fiume che è il Calore.
Anche ora, come allora, come sempre, gli italiani hanno risposto come meglio potevano all'appello della disperazione. E le sottoscrizioni hanno tentato di colmare i grandi vuoti che si sono aperti, hanno tentato di sanare la tremenda ferita. Almeno per evitare che questa diventasse purulenta. Tre miliardi sono stati raccolti. Oltre un miliardo dal solo Corriere della Sera. Oltre un miliardo dalla Rai. Sono cifre che fanno pensare.
L'italiano è buono, ama i suoi fratelli. Soffre con loro ed è sensibile alle sventure altrui. L'italiano piange ma agisce. Ha agito anche questa volta. Per Longarone, per Erto, per gli altri paesi schiantati dalla tragedia del Vajont, l'italiano si è mosso. Nell'unica maniera possibile per trasformare un passivo dolore in un attivo anelito di rinascita.

Ecco cosa vogliono significare queste immagini. Una promessa per il futuro.
Comprensione per gli afflitti, lutto per i morti, promessa per i vivi. Longarone vivrà ancora. La opera dei soldati, dei vigili del fuoco, dei civili, rimarrà indelebile. Ma accanto a questa, accanto a quello che si è fatto sui luoghi del disastro, v'è un'altra opera. Un'opera che guarda al futuro, che sorride dolcemente ai vivi. La ricostruzione.
I fanciulli di Longarone riavranno la loro scuola, i loro giardini, le loro case, il loro avvenire. La vita lo impone, gli italiani lo vogliono. Ed hanno dimostrato ancora una volta che l'amor patrio diventa amore per i fratelli in lacrime, per i figli sofferenti della stessa madre.

Come, trovare le parole per descrivere le immagini? Impossibile dire qualcosa.
Difficile parlare a chi osserva. Le scene di dolore, di distruzione, di morte parlano da sole, con il linguaggio insostituibile della riproduzione fotografica. Non abbiamo voluto corredare di didascalie le foto di Longarone. Sarebbe stata una banalità imperdonabile.
Il lettore scruterà nelle immagini il dramma del Vajont. Longarone parla così. Ed è una parola che difficilmente può essere sostituita. Longarone sotto la grande ondata. È morto. Ma da questa distruzione, da questa morte, da questa catastrofe, prende le mosse il futuro. La vita cammina e tornerà. È la migliore risposta ad una tragedia che nessuno dimenticherà mai.
Una tragedia che ha sconvolto l'animo di tutti, impressionante e irrefrenabile.

b. d'a.


Fonti: se non specificato nel testo, mie ricerche, Google, libri, librerie (biblioteche).