Inserimento originale: 08/10/2003

IN FONDO AL LAGO CHE NON C'È PIU'


di PAOLO RUMIZ

ERTO

"Ascolta, è il Vajont che si scava la strada"
Albeggia, l'uomo fiuta la nebbia come un lupo, mastica un sigaro, ascolta il silenzio della sua valle. Ha bandana, canotta nera, capelli e barba grigio ferro. È lui, Mauro Corona, classe 1950, l'uomo che parla cogli alberi. Alpinista, narratore, scultore su legno.Superstite-ribelle dell'onda del 9 Ottobre '63.

"La senti?". Si drizza dalla balaustra davanti alla bottega, cerca qualcosa nel buio, qualcosa sotto il paese, oltre la chiesa delle Anime. È un mormorio che arriva dal profondo del bosco. La voce del Vajont, 40 anni dopo. L'acqua che si porto' via duemila persone con la forza di due bombe nucleari.
Oggi e' un rigagnolo, un sussurro tra le ghiaie.

Vajont - I LIBRI
• TINA MERLIN
"Sulla pelle viva, come si costruisce una catastrofe" (volume pubblicato da Cierre Edizioni)
• MARIO PASSI
"Vajont senza fine" (volume pubblicato da Baldini & Castoldi)
• GIUSEPPE Dl RAGOGNA
"Vajont, un grande romanzo dimenticato" (con prefazione di Mauro Corona - Edizioni Biblioteca dell'Immagine)
• MAURIZIO REBERSCHAK
"Il Grande Vajont" (volume pubblicato da Cierre Edizioni)
• PAOLINI-VACIS
"Il racconto del Vajont" (volume pubblicato da Garzanti)
• SANDRO CANESTRINI
"Vajont, genocidio dei poveri" (volume pubblicato da Cierre Edizioni)
• BRUNO PITTARELLO "Vajont, parole nuove" (volume pubblicato su iniziativa della Pro Loco di Longarone)

Vajont - I FILM
• MARCO PAOLINI
"Vajont 9 ottobre1963 - Orazione civile" (Rai Trade, Elleu Multimedia)
Disponibile in VHS e su DVD rom, ripropone lo spettacolo teatrale dell'attore e che venne trasmesso in diretta su Rai2, dalla stessa diga, nel 1997.
• RENZO MARTINELLI
"Vajont"
Il film, uscito nelle sale nel 2001 con eccezionale battage pubblicitario e proposto da Rai Uno in prima tv la sera dell'8/10/2003, è tratto liberamente* dal libro "Sulla pelle viva", di Tina Merlin.
Con Laura Morante, Philippe Leroy, Leo Gullotta e un Mauro Corona coi capelli in ordine (!) e berretto che vi ha interpretato la parte dell'oste 'svendutosi' alla SADE
(cristo! N.d.Scr).
* = Fumettone fiction - imperniato su una storia d'amore, cui il Vajont fa solo da cornice e da pretesto per gli effetti speciali - 'opera primà in campo cinematografico di Renzo Martinelli, un regista formatosi nel settore degli spot commerciali. Uno spottone, appunto, che non ha 'emozionato' certo chi del Vajont conosce i retroscena 'veri'. Ma è quello che il 'mercato' - e la casa di produzione - chiedevano.
• ENZO BALESTRIERI
"Quella notte le stelle videro le montagne camminare"
È l'ultima pellicola dedicata alla tragedia di Longarone. Il 10 ottobre sarà proiettato vicino alla diga, alla presenza di Carlo Azeglio Ciampi.
• PRO LOCO LONGARONE
"Vajont: la storia"
È il video prodotto in italiano, inglese e tedesco dalla Pro Loco del comune bellunese.

Scendiamo verso il lago che non c'è, siamo due palombari nei fondali del tempo. Mauro, che e' sempre svelto come una donnola, oggi ha movimenti lenti, quasi fluttua nella foschia. Forse e' colpa del vino. Ieri ha bevuto troppo, stamattina s'è sparato un intruglio di acqua e fernet per riaversi dalla ciocca. Ma forse e' un'altra cosa. La maledetta linea d'ombra, che deve passare. Erto vecchia, limite del mondo di ieri. Qui il tempo si e' fermato, tutto qui ha piu' di quarant'anni. Miracolata dall'onda che passo' poco piu' a Est, oggi e' intatta e deserta, uno straordinario monumentoalla montagna che fu. La abitano gli ultimi mohicani, quelli che rifiutano il cemento del paese nuovo, la sua illuminazione da stadio, la chiesa-astronave.

In basso, due latrine abbandonate. Mauro ghigna: «Ce le diede l'ENEL, dopo averci espropriato di tutto. Gli ingegneri pensarono: cosa possiamo dare a 'sti poveri bifolchi? E ci diedero i cessi. Me lo ricordo bene, li inaugurarono col taglio del nastro. Ecco, quanto contava la montagna». Passiamo la vecchia linea di battigia, l'altro mondo comincia ed il tempo finisce. Qui e' il contrario di Erto vecchia. Nulla ha piu' du quarant'anni. Niente.
Alberi, ciottoli, sentieri. Perfino la nebbia. Non esisteva, prima che la frana imprigionasse l'umidità bloccando la ventilazione in fondovalle.

«Venite, venite qua dove la montagna urla vendetta!» Corona non ne puo' piu' di rievocazioni, sparerebbe a mezzibusti e talk-show. Qua, dovete venire, a cercare i morti insepolti. Centoottanta, furono, nella sola Erto. «Aleggiano... e' come se non fossero mai morti, la notte ti tirano i piedi come i rimorsi».
E, proprio allora, dal buio, arriva un lamento soprannaturale, cupo come un corno tibetano. Un altro gli risponde, riempie l'anfiteatro. Mauro sorride. «Sono i cervi in amore, - sibila, e negli occhi rivedi il lampo del bracconiere - i maschi che segnano il territorio» Ecco, la forza della natura già annega gli incubi.

L'acqua chiama ancora. «La senti, come torna a cantare? Per secoli è stata la ninna nanna degli Ertani». Usciamo all'aperto, in una spianata di ghiaie lunari.
Dappertutto, orme di cervi. Non e' ancora la frana. È solo il sudario che la copre. Le ghiaie sono venute dopo l'onda, portate dai torrenti senza piu' deflusso. Salite di cento metri, due e mezzo all'anno.
Prima del lago, qui c'era una forra.
In fondo, vi confluivano tre torrenti. Intorno, un universo. A destra, i mulini; a sinistra le segherie. « Li'era la casa di mio nonno, là quella di Cate, li' c'erano gli Scarpa». L'uomo disegna a memoria la geografia delle cose perdute.«Li' i Ninin, la Dina, i Pierin. E poi i Menolin, le Spese. E la casa dei Paul, omoni dalla forza leggendaria. Uno di loro lotto' con un orso a una fiera in Carinzia. E vinse».

Riprende il passo veloce da talibano, non si lascia depistare dagli echi, trova il fianco della montagna, entra in un labirinto di rocce deformi. Gobbe, pinnacoli, mascelle. Urla: «L'acqua! Ecco l'acqua!» E già si arrampica oltre le cascate, nella forra che è solo l'anticamera di dieci, selvaggi chilometri verso gli strapiombi del Col Nudo. La valle alta del Vajont. Un pianeta sigillato dal mondo.

Un colpo di vento, la nebbia va via, il primo sole svela la topografia della devastazione. Sopra di noi, trenta metri piu' in alto, il moncone di un ponte che non c'è, i ferri da trenta millimetri artigliati al calcestruzzo e piegati come burro. Per gli Ertani era il ponte di Tharentón. Il ponte del frastuono, per via dei massi che cadevano dalle pareti.

ENEL rispondeSaliamo con una corda fissa verso uno spalto di roccia. La periferia della frana e' li', si impenna verso il passo di Sant'Osvaldo. Non e' scesa dall'alto, ma esplosa dal basso, dopo aver pattinato sull'acqua, spinta dalla forza di mille treni. Tutte le frane del Vajont sono contro natura. In salita.
Di nuovo lo stradone, poi i resti dell'osteria di Meneghin. «Qui mi fermavo con mio nonno - racconta Mauro - Ci scolavamo due quarti di rosso». Subito sotto, le fondamenta della chiesa medievale di San Martino. Spazzata via «e mai risarcita dall'ENEL», leggi sul cartello che la indica.

Ormai lo vedi bene, il Leviatano. Sta oltre le ghiaie e i boschi color ruggine, oltre cio' che resta del lago, ridotto a un abbeveramento di cervi e camosci. Duecentosessanta milioni di metri cubi di terra e rocce, la frana piu' grande del mondo in epoca storica. 2500 metri in lunghezza, quattrocento di altezza. Centocinquanta metri piu' in basso, la diga e' un pigmeo.
Italo Filippin

Italo Filippin

Saliamo sulla schiena del gigante con Italo Filippin, il guardiacaccia che fu sindaco negli anni clandestini, quando la gente torno' a casa contro l'ordinanza di sgombero, contro L'ENEL, contro i Carabinieri, contro il mondo. E visse vent'anni senza nemmeno la corrente elettrica solo perchè non voleva morire in pianura, baraccata e assistita.
Oltre una foresta di larici, faggi, aceri e abeti rossi, la cima. Li' tutto è visibile. Sopra, il piano inclinato a forma di 'emme' dove il monte Toc mollo' gli ormeggi in una fredda notte di luna.Smerigliato, minerale, lucido e terribile. Sotto, il segno dell'onda che si divise in tre. Una parte verso la diga, il Veneto e Longarone. Una verso Casso, dove l'acqua sovrasto' il paese ma ricadde all'indietro, non si sa come.

Mimetizzati nel bosco, sulla cima, gli ultimi superstiti del Toc. Larici. I piu' grandi. Una decina appena. Scivolarono per mille metri, caddero storti, ma rinsaldarono le radici e ripresero a crescere in verticale in mezzo alla devastazione. Oggi, quella commovente curva del tronco verso il cielo vale piu' di cento, mille lezioni di botanica. Mauro accarezza i patriarchi. «Guarda come torna la foresta, è la natura che si vergogna di noi!». E scopri che il viaggio nella morte è già un viaggio nella vita che ricomincia. In basso, tra le due montagne di terra, una zona umida, dove i cervi vanno a rotolarsi nel fango per togliersi i parassiti. E poi anatre, camosci, passeracei di ogni tipo.

Da lontano arriva il rumore delle Pantere. Sono auto blu e Carabinieri sulla strada, in fibrillazione per l'arrivo di Ciampi e il monumento da inaugurare. Filippin sorride: «Il vero monumento è questo, la frana». Ha ragione: le lapidi sono una tomba della memoria. La frana no, la tiene aperta. Forse per questo nessuno se ne occupa. Ed è uno scandalo che su questo posto unico al mondo non vi sia un percorso didattico, un cartello, niente.

Tramonta, verso la diga il cielo sfiata vapori arancione. Sembra un fossile, ma non è affatto così. L'ENEL la tiene in esercizio. È pronta ad usarla di nuovo appena il ricordo dei morti scotterà un po' meno. Corona:«Basta premere un bottone e aprire le paratie». L'invaso è ridotto a un terzo della capienza originaria, ma fa nulla. Nell'anno dei blackout c'è fame di energia. E ogni goccia che arriva al mare senza passare per una turbina, di questi tempi è uno spreco.

Ormai è notte, la notte della memoria.
MarcoSe non c'era l'attore Marco Paolini a tirare fuori questa storia con la sua orazione civile, la notte sarebbe stata piu' buia. Ma se l'Italia dimentica, l'ENEL invece ricorda tutto, e il Vajont ne è l'esempio piu' sublime. La sua acqua è ancora nel bilancio idrico nazionale. Come se non fosse accaduto niente.
Si inaugurano monumenti alle vittime dell'onda assassina, ma quei 150 milioni di metri cubi servono ancora. Sono il lago di carta che giustifica la devastazione del Piave, disidratato dalle sorgenti alla foce e ridotto a un mare di ghiaie che oggi, in occasione di grandi piogge, è sempre a rischio d'alluvione. No, il Vajont non è servito a niente.

Per colmare la perdita del bacino piu' grande del Veneto, hanno saccheggiato il Fiume Sacro della Patria, lo hanno salassato con un reticolo pazzesco di prese, condotte e dighe, rilasciato concessioni per ogni tipo di prelievi. E spinto al massimo, proprio qui, la privatizzazione della risorsa pubblica piu' strategica del Paese.

È notte, torniamo a Erto. Mauro riapre la sua bottega profumata di pino cembro, vedo che ha le mani nere. Non di carbone, ma dal tannino delle cùcole, le noci che ha raccolto arrampicandosi su un albero di trenta metri. Si siede in fondo alla tana, accende la stufa, spazza via il temperamatite, la carta assorbente, le penne, la lente. Apre i quadernoni di appunti. parla di questa sua montagna che non è solo stata usurpata, ma si è anche lasciata usurpare.
«Qui hanno subíto tutto: gli espropri, i progetti, la diga. la morte, la pietà, i risarcimenti, poi la rapina dei miliardi da parte della pianura, poi la ricostruzione, ora le celebrazioni. E oggi c'è chi scopre l'industria del dolore, il mestiere di superstite».

Le statue di legno sembrano muoversi nel buio. Fuori s'è levata la Luna.



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