Inserimento originale: 18/07/2003
---- PROGETTI SBAGLIATI ----

LA LEZIONE NON È SERVITA

-- di PAOLO PARONUZZI* --

0 Negli ultimi anni, e in circostanze ben diverse dalla recente notorietà teatrale, televisiva e cinematografica del Vajont, mi sono trovato su incarico della Protezione civile del Friuli-Venezia Giulia, a rivivere una vicenda che aveva fissato i primi ricordi televisivi dell'infanzia: gli alpini che scavano in un'enorme distesa di fango.
0Ecco allora che, come uomo e come tecnico, mi sono posto una domanda che ancora oggi continuo a ripetermi, considerandola ormai un'imprescindibile riferimento morale e tecnico della mia attività di geologo applicato e di docente universitario: qual'è la lezione del Vajont?
E soprattutto, l'abbiamo veramente capita? O continuiamo ad agire come se si trattasse di un raro incidente di percorso da seppellire nella nostra coscienza come si seppelliscono i morti o tutt'al più da commemorare a scadenze fisse?

Questi interrogativi riguardano tutti noi, ma riguardano a maggior ragione i pubblici amministratori e la classe dirigente regionale attuale, cioè coloro i quali hanno e avranno dirette responsabilità sulla gestione futura del territorio e in particolare sulle scelte fondamentali di indirizzo, di pianificazione e di progettazione delle aree montane del Friuli.

La lezione del Vajont ha molte facce.
Innanzi tutto quelle dei morti e quelle dei sopravvissuti. Ma essa riguarda anche molteplici aspetti caratteristici di una società tecnologica come la nostra, aspetti che si compenetrano e si influenzano in modo anche molto stretto: aspetti scientifici e tecnici, aspetti legislativi e aspetti politico-economici. In passato è capitato molto spesso che del Vajont non si parlasse affatto o che si parlasse del Vajont da un unico punto di vista, togliendo cosi' di fatto la possibilità di un'analisi di insieme che è l'unica veramente in grado di rappresentare fedelmente la complessità degli eventi che si sono succeduti in quell'arco di tempo che vide la costruzione della diga e la realizzazione dell'invaso (1957-1963).

Della frana del Vajont - avvenuta il 9 ottobre 1963 alle ore 22.39 - sono note a tutti le conseguenze disastrose che seminarono morte e distruzione sui versanti prospicienti il lago artificiale, interessando il cantiere della diga e le frazioni minori di Erto e Casso, e soprattutto in molti paesi della valle del Piave dove venne praticamente cancellato l'intero abitato di Longarone.
Lo scivolamento del Monte Toc del 9 ottobre 1963 rappresenta a tutt'oggi la frana che ha causato il maggior disastro avvenuto in territorio europeo.

Recenti stime indicano in circa 800 milioni di euro il danno economico complessivo causato dalla frana, cui si aggiunge un numero di vittime molto elevato, oltre 2000, praticamente il doppio dei morti causati dal sisma del Friuli del maggio 1976, che pure investi' un'area molto più ampia. Nonostante l'immane disastro, e l'enorme sollecitazione trasmessa al corpo diga (che si è stimata essere circa nove volte il carico idrostatico di esercizio) l'elegante struttura a doppio arco è ancora là, praticamente integra, a ricordarci quel tragico evento: progettata per contenere l'invaso artificiale del Vajont ha resistito anche all'impulso generato dallo scivolamento nel lago di 250-270 milioni di metri cubi di roccia, franati con velocità di 70-90 chilometri all'ora!

Ma proprio questo è uno dei punti centrali della vicenda Vajont sul quale vale la pena soffermarsi per analizzare alcuni aspetti che appaiono quanto mai attuali, alla luce dei ricorrenti fenomeni di dissesto idrogeologico che sempre più frequentemente colpiscono il territorio del Friuli. La tragedia del Vajont non si è consumata a causa di un cedimento strutturale delI'opera di sbarramento, cioè la diga vera e propria; che risultò invece opera idraulica di grandissima qualità e di valore tecnico sicuramente mondiale per l'epoca. Ma l'errore tecnico fondamentale fu invece l'infelice scelta della localizzazione del bacino artificiale, in una vallata costellata da frane di vario tipo e soprattutto interessata da vari corpi di frana preesistenti di dimensioni enormi, da diverse decine a centinaia di milioni di metri cubi e presenti sia sui versanti che sul fondovalle. In altre parole, la stessa diga del Vajont realizzata in un'altra vallata alpina, priva della grande fragilità strutturale caratteristica della conca del Vajont, non avrebbe dato luogo alle tragiche conseguenze che ben conosciamo.

Naturalmente la conseguenza pratica di allora, come spesso succede in Italia, fu l'assai semplicistica associazione 'digà uguale a 'disastro ambientale' e l'allontanamento forzato (deportazione, Nota MIA) di un'intera comunità che con quella valle, pur difficile, conviveva da millenni.
In realtà si era costruito un invaso artificiale nel posto sbagliato e quando i tecnici si resero conto di ciò nessuno ebbe la forza, o la capacità, o la volontà di rinunciare a un progetto che era ormai arrivato alla fase conclusiva. Per quanto possa apparire strano, esiste purtroppo un filo sottile che lega questa successione di scelte sbagliate che portarono al disastro finale del Vajont con alcune scelte che vengono considerate, a torto, minori; di utilizzi territoriali che ancora oggi si ripetono con una certa frequenza. Vale la pena riflettere sul fatto che anche opere di alta ingegneria, cioè realizzate 'a regola d'arte' e con grandi sforzi di progettazione, possano risultare alla fine dannose o, più semplicemente, inutili.

Questo avviene quando la progettazione della singola opera di ingegneria non viene inquadrata nel suo contesto ambientale. Talune opere possono essere ben progettate dal punto di vista statico ed anche estetico, ma la loro collocazione topografica può essere del tutto inidonea, per non dire semplicemente sbagliata. Per questo motivo diversi fenomeni catastrofici e molte situazioni di accentuato danno idrogeologico derivano proprio dalla mancanza di una reale visione globale delle dinamiche ambientali.

È lo studio del contesto geologico/geomeccanico/idraulico/idrogeologico - quante parole sono necessarie per ricordare la complessità del sistema ambiente! - che deve sempre precedere la scelta di utilizzo finale del territorio e l'identificazione delle varie soluzioni costruttive specifiche, quando queste risultano utili o necessarie. Purtroppo, il territorio montano del Friuli presenta innumerevoli situazioni di aree con accentuata fragilità territoriale e di natura e di dimensioni variabili da caso a caso. Della vasta casistica regionale, la vecchia frana che dormiva appoggiata da millenni sul fianco settentrionale del Monte Toc rappresenta sicuramente l'esempio pià emblematico, ma non certamente l'unico.
Esistono diversi esempi, anche recenti, in cui opere di ingegneria di un certo impegno tecnico ed economico, hanno coinvolto corpi di frana di dimensioni rilevanti determinando una ripresa dei movimenti e, nei casi meno gravi, nuove e complesse progettazioni con un aggravio di costi e un prolungamento dei tempi di realizzazione dell'opera.

PAOLINI Queste aree fragili devono essere sempre identificate preliminarmente mediante quella vasta gamma di indagini geologico-tecniche ormai ampiamente previste dall'attuale normativa sui lavori pubblici, evitando l'individuazione della frana solo a lavori cominciati e in seguito al manifestarsi di fenomeni critici proprio come accadde nel caso del Vajont.

Queste aree vulnerabili sono le stesse zone che i vari Comuni devono imparare a conoscere meglio e aree che devono essere ben identificate e delimitate con opportune 'zonizzazioni' e a prescindere dalle situazioni di emergenza, stabilendo un uso del suolo adeguato alle loro caratteristiche e predisponendo, in taluni casi, anche un sistema di controllo per accertare la loro evoluzione nel tempo.

Se tutto questo fosse stato fatto preliminarmente, con dovizia di mezzi e con un impegno economico proporzionato alla complessità dell'invaso progettato, probabilmente oggi non saremmo a commemorare le oltre 2000 vittime del Vajont.

 

Il presente articolo e' stato pubblicato dal MESSAGGERO VENETO del 08/10/2003

* Paolo Paronuzzi è docente di Geologia applicata
alla Facoltà d'Ingegneria dell'Università di Udine.