0 Dal libro: "VAJONT: GENOCIDIO Dl POVERI"

A tutti i morti e i vivi del Vajont, perchè su di loro non cada la pietà

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Quello che succede ogni giorno, non trovatelo naturale.
Bertolt Brecht

 



2003 - Dimenticare: mai!

Qualcuno mi ha chiesto se era possibile "attualizzare" o "rivedere" i contenuti della prefazione di Carlo Bertorelle alla mia arringa e la mia postilla per l'anniversario del 1992.

Ho riletto questi documenti e ho visto che davvero non c'è nulla di nuovo da attualizzare quanto era stato detto allora. Il delitto è successo il 9 ottobre 1963 e le arrighe di parte civile sono dell'autunno del 1969. Chi avrà voglia di "rivedere'' la vicenda, con gli occhi di oggi, vedrà che gli occhi sono sempre gli stessi. Infatti da "attualizzare" o "rivedere" quanto avevamo detto non c'è assolutamente nulla. La inaudita prepotenza dello Stato, la inaudita violenza dell'iniziativa privata, la davvero incredibile posizione di larga parte delle forze politiche è lì. Oggi come allora. Cosa c'è da rivedere o da cambiare?

È di pochi mesi fa la sentenza per i morti di Marghera.
È di pochissimi anni fa il risultato per la strage della diga di Stava.
Giriamo le pagine dei giornali e vediamo cosa sta succedendo in campo politico e giudiziario sui fatti di Genova. Da una parte le vittime, tante ed innocenti, dall'altra parte il coro assordante del capitale che vuole far dimenticare tutto, con i suoi mezzi di stampa e di propaganda.
La parola d'ordine è: tenere nascosti i massacri, e dimenticare le parole sui cimiteri. Forse allora, di fronte a ciò e di fronte a una tradizione nazionale che tende sempre a far dimenticare (ma non c'è la televisione a far divertire?), il ricordare con una nuova manifestazione la tragedia del 9 ottobre 1963 perde ogni possibile definizione di un mesto anniversario per assumere fortemente quella rivoluzionaria.

Anche la ristampa degli atti di allora è tutta un grido: non dimenticheremo MAI.

Dall'infamia delle iniziative industriali a quella della "legittima suspicione" tutto già rivissuto all'epoca del Vajont. Appunto, non chiediamo pietà per i morti, dobbiamo insistere per denunciare le infamie di allora e quelle di oggi. Sicuri come siamo che la Storia porterà un'epoca meno buia.
Ricordavo a chiusura della mia arringa: «la verità è in cammino e nulla la fermerà... Quando si seppellisce la verità, essa si comprime e acquista una tale forza esplosiva che il giorno in cui avviene la deflagrazione, tutto salta in aria... l'atto [d'accusa] contro i malfattori sociali che qui ho compiuto, è unicamente un mezzo rivoluzionario per affrettare l'esplosione della verità e della giustizia. Amo soltanto una cosa: la luce, in nome dell'umanità che ha già tanto sofferto e che ha diritto alla felicità».
Parole pronunciate in occasione del processo Dreyfuss il 13 gennaio 1898 da Èmile Zola.

Sandro Canestrini



PREFAZIONE

di Carlo Bertorelle (1969)

Sandro Canestrini è un avvocato piuttosto noto nel Trentino, dove abita, dove da molti anni esercita la professione e dove è stato impegnato con funzioni di pubblica rappresentanza per il partito comunista. Ma è soprattutto un militante, un uomo che vive con passione e con pieno trasporto i problemi di chi è colpito da ingiustizia; e cerca onestamente di battersi per modificare le cose che non vanno.

Un'arringa non è un intervento politico, non è lotta politica.
Ma quest'arringa, che è insieme un comizio, una lucida e mordente documentazione, una denuncia ed una meditazione filosofica dice che cos'è la società italiana e perchè la politica oggi è un dovere. È un dovere in nome dell'«umanità che ha già tanto sofferto e che ha diritto alla felicità»; è un dovere per "affrettare l'esplosione della verità e della giustizia". Queste sono parole che il lettore ritroverà citate nel testo, e che risalgono alla fine del secolo scorso. Ma non sono affatto tramontate, perchè costringono a guardare in faccia la realtà e a prendere un impegno: e la realtà può essere benissimo questa macroscopica tragedia del Vajont (che l'arringa sa cogliere anche nel suo aspetto di commedia, di commedia umana) con tutto lo scenario che la circonda, cosi' come viene ricostruito nella densa rievocazione dei fatti e cosi' come viene spiegato nella penetrante analisi delle cause; e l'impegno è quello che ci costringe a muoverci, oltre la disperazione, come si è mosso il popolo della valle distrutta, i giudici di Belluno, qualche avvocato.
Non ci troviamo dinanzi ad un fatto per cui sia possibile la civile presa di posizione; un fatto che muova a sdegno e possa suscitare giusti sentimenti di riprovazione. Non ci sentiremmo di invocare giustizia, soluzioni, riforme. Anche questo certamente vogliono coloro che sono stati colpiti e che hanno lottato per cinque lunghi anni con ferma compostezza, ogni onesto e retto cittadino che abbia conservato un po' di coscienza di essere uomo, di «saper fare il semplice mestiere di uomo». Ma chi viene a conoscere tutta la storia e chi sa leggere questo documento ha il dovere anzitutto di capire, di chiedersi cose elementari e radicali, chi è, cosa fa, quale posto occupa. Il "perchè?" di fronte al quale ci troviamo, sale dal fondo. Le domande che vengono fuori da questo testo sono globali, e l'accusa che colpisce questa società è globale.
Perchè ad esempio ciascuno di noi è in grado di generare (e nella maggior parte dei casi lo fa) un Vajont di proporzioni più o meno grandi? Bisogna risalire alla condizione dell'uomo in questa societè, e vedere come egli sia ancora schiavo, diviso, alienato.

Ed è per un singolare processo collettivo, in fondo dovuto alla totale e capillare divisione del lavoro, che la società nel suo insieme schiaccia facilmente il singolo, sfuma e rende irriconoscibili le sue responsabilità (come viene detto molto bene nell'arringa); ma nello stesso tempo questo sistema, che pure è una cosa ben precisa ed ha un nome stampato a chiare lettere, ci dà una facciata di libertè e ciascuno di noi crede di essere consapevole e padrone di ciò che pensa, vuole, fa.
Certo c'è una grande diversità fra la libertà che potevano avere i cittadini della valle del Piave morti nel diluvio e la libertà dei funzionari delle aziende SADE ed Enel oggi imputati; in fondo però, il fatto che ci fossero proprio questi ultimi alla sbarra è dipeso in certa misura da una "sorte" anteriore, che aveva fatto gli uni contadini ed operai e gli altri ingegneri al servizio di potenti padroni.
Mi si intenda in questo intricato gioco: sappiamo bene che tale "sorte" è invece tutta spiegabile e riconducibile a precise leggi storiche ed economiche della società divisa in classi, e sappiamo anche che nella cronaca italiana è un evento casuale, cioè inconsueto e al di fuori delle regole vedere i potenti di fronte alla giustizia. Ma qui si vuole dire che loro come persone sono stati solo i fili meno solidi di una catena che, pur di fronte alla giustizia borghese, in questo punto non ha tenuto e si è spezzata. Loro come persone sono solo le cellule più deboli dell'organismo, le ruote che si sono guastate.
C'è invece alle spalle la trama delle colpe che in un aperto crescendo investe tutto il sistema del potere; anche a questo livello alcuni resteranno figure sbiadite di gigantesche quanto sfuggenti corporazioni, altri si stagliano come i capi veri, i "padroni del vapore", gli uomini nei quali si concentra ad altissimo grado la colpa. Gli uomini più riveriti della società sono gli stessi che la schiacciano: può sembrare sadomasochismo ma è un aspetto della realtè. Di qui si delinea il quadro complessivo del sistema in tutta la sua brutale irrazionalità. Le varie parti, in un primo tempo staccate e incomprensibili, si mostrano dispiegate nella loro nuda natura e si riuniscono in un disegno non più oscuro. I bei contorni a poco a poco svaniscono, e la realtà (come la «femmina balba» di Dante), non più sacra e inconoscibile, si vede ed è poca cosa; è all'altezza di tutti, e può essere abbattuta e superata. Tutto questo, come per cerchi via via più larghi, si dipana nell'arringa; le domande di prima trovano iniziali risposte, i "perchè" trovano una loro ragione che muove dall'interno di una rigorosa analisi di fatti, costituendo una prova documentaria di valore eccezionale (siamo al di là, ormai, della ipocrita accusa di essere "di parte").

Si può cosi' dimostrare «come la politica sia economia e come la legge del progetto determini scelte politiche»; il nemico sarà visto da vicino, nelle sue incarnazioni ben precise, si parlerà delle collusioni fra burocrazia e potere, della inesistenza dello Stato (la sua burocratica follia, «lontano dagli uomini ma vicino agli interessi del grande capitale»), della violenza necessaria e intrinseca del sistema, della vanità di ogni illusione neutralistica in ogni processo che si svolge in questa società, della subordinazione della scuola e della ricerca al potere, economico e politico, della necessità di una "ideologia", cioè di una scelta.
E ci vediamo sfilare davanti in questa amara "sacra rappresentazione" i padroni, piccoli e grandi, di questo sistema, le fila e coloro che tengono il capo delle varie fila: i ricchi proprietari dal passato fascista, i ministri e i capi di governo dalla corta memoria, gli alti e bassi burocrati dell'amministrazione statale (di uno Stato equivoco, bifronte, fragile supporto a grosse potenze economiche), gli uomini della SADE, gli esperti accademici paludati nel manto della loro "scienza" ma con la mano pronta all'intrigo, e poi capi e capetti di rango minore, uomini della legge, amministratori pubblici, politicanti di destra e di sinistra.

Va sottolineato come giustamente tutti costoro appaiono nel loro vero ruolo di "funzionari", di facenti funzioni di un unico grosso e incontrastato potere, quello economico. La politica è davvero economia, ed economia mossa dalla molla del profitto: sfrondando le cose dei loro torbidi contorni arriviamo al nocciolo, trasparente e cristallino: lo Stato, i partiti, la pubblica amministrazione, la tripartizione dei poteri servono in questa societè a giustificare il progetto, il primordiale impulso del più forte. Di qui il brutalismo con cui tutto ciò si manifesta, ed ancor più in casi macroscopici e di tanta apocalittica brutalità come questo (perchè «la brutalità non viene dalla brutalità, ma dagli affari che senza di essa non si possono più fare», B. Brecht).

Tre commissioni d'inchiesta, tra cui quella parlamentare, hanno sostenuto le tesi del monopolio, il processo è stato allontanato dalla sua sede naturale fino all'Aquila, la grande stampa e la TV si sono dimenticati del fatto, Longarone è diventata un'amministrazione di centrodestra, i congiunti dei deceduti vengono capillarmente sollecitati dall'ENEL e invitati, con la "transazione", a desistere dall'accusa; si è assistito ad un difensore di parte civile (Bettiol) che, mutate le sue parti, ha scagionato gli imputati. I morti del Vajont sono stati e continuano ad essere beffati.

Noi vorremmo che la sentenza dell'Aquila non segua la corrente e sappia essere un piccolo segno di riparazione. Questo libro vuole essere, anche per parte nostra che pubblichiamo l'arringa, un contributo umano e politico che ci è parso doveroso.
La vera giustizia però, ne siamo convinti, verrà da ben altro e dovrà comportare il superamento globale dell'attuale società, la morte e il fecondo seppellimento di queste strutture; dovrà vedere la nascita di un uomo nuovo. Attenderlo e lottare per costruirlo partendo dalla piana consumata del Vajont dove tanta brutalità si è abbattuta, partendo anche da questa gente veneta, sulla cui passiva acquiescenza bisogna cessare di costruire luoghi comuni (rischiano ogni giorno di più di essere fatti crollare), non ci pare fuori luogo.
Tanto meno oggi quando, ad un anno esatto dall'inizio del processo dell'Aquila (25 novembre 1968), l'Italia è investita da un ciclo fortissimo di lotte che solo di nome sono contrattuali mentre rappresentano la spinta proletaria che chiede la fine dello sfruttamento, la fine dell'alienazione, la conquista di un nuovo potere e di una autentica autodeterminazione del proprio destino. Ricordare tutto ciò dalla piana di Longarone o dal tribunale dell'Aquila, luoghi che hanno sperimentato una verità completamente opposta, non è fuori luogo, ma risponde ad una ben più ampia ragione storica, che crede nel futuro.

Carlo Bertorelle

Firenze, 25 novembre 1969



Postilla per l'anniversario 1992
0Stiamo chiudendo il terzo decennio dalla strage che, in occasione del processo dell'Aquila, avevo definito 'genocidio di poveri'. Coloro che coltivano l'ostinazione della memoria hanno ritenuto di dover ristampare l'arringa che pronunciai, quale patrono nel collegio di difesa della parte civile, il 23 settembre 1969. Sono riconoscente, molto, a coloro che hanno preso oggi l'iniziativa di riproporre quel testo, che in questa occasione ho voluto rileggermi per accertarmi se fosse stato ora opportuno avvertire che le parole roventi che avevamo pronunciato portavano in sè il segno di una data di prepotenza e di dolore, che il successivo trentennio aveva fatto impallidire per oggettivi mutamenti della realtà sociale dell'oggi.
Purtroppo invece questi decenni che sono passati hanno ribadito le ferree leggi del "capitalismo reale", semmai tentando con la potenza dei mezzi di informazione, di farle apparire meno crudeli. E, ancora e più di allora, l'opinione pubblica nazionale sembra disorientata. Proprio in questi giorni ho letto sul "Corriere della Sera" (23 settembre 1991), un articolo intitolato "Ingiustizia e colpe - il Paese dei passivi cittadini": l'autore S. Maffettone, inizia così:
«L'ingiustizia fiorisce nel nostro Paese. Ma non solo perchè criminali astuti o politici corrotti si danno da fare senza requie. L'attivismo degli ingiusti non è l'unica ragione dei nostri mali sociali. Altrettanto importante è la passività morale di molti, anzi di troppi cittadini. Uno scetticismo sordo si diffonde per il Paese, pervade le coscienze, rende abituale il male. Questo spirito di acquiescenza trasforma l'ingiustizia in sfortuna e il sopruso in abitudine».
L'analisi del giornalista è impietosa ma vera. Ebbene, se sappiamo per esperienza storica che la rassegnazione all'ingiustizia non è mai stato un mezzo valido per combattere gli ingiusti, l'occasione di questa memoria del Vajont, che pure permane, lunga, ostinata, fedele nella memoria della gente offesa, è preziosa per affermare che, vivaddio, questo Paese non è popolato solo da passivi cittadini, ma anche da persone che fanno del ricordo uno strumento di lotta.

Sandro Canestrini


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