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Cap. 1LA NASCITA DEL "CASO VAJONT" E DELLA SUA MEMORIA
L'origine del "caso Vajont" va ricercata verso la fine degli anni '20 quando l'ingegner Carlo Semenza, coadiuvato dall'amico geologo Giorgio Dal Piaz, ideò un ambizioso progetto di sfruttamento delle acque del fiume Vajont.
Quello che era solo un progetto diventò realtà a partire dalla seconda metà degli anni '50 quando, nella valle del Vajont, ebbe inizio la costruzione di una diga a doppio arco, tra le più grandi del mondo, in grado di creare un lago artificiale di ampissima portata, ideale per produrre una enorme quantità di energia idroelettrica.
1 - IL CASO VAJONT: BREVE STORIA DI UN "BUSINESS ASSASSINO"Dalla nascita dell'idea del "grande Vajont" alla sua tragica fine
Per poter affrontare la "memoria" di un tema tanto complesso quale quella del "caso Vajont" è assolutamente necessario ricostruire le principali tappe delle sue origini. Nel frattempo, i cittadini di Erto e Casso tentarono di opporsi agli ulteriori espropri di terreni, ma senza alcun esito positivo. Nessun effetto provocò l'inascoltato tentativo delle popolazioni ertocassane di richiamare l'attenzione di istituzioni quali Comuni, Province, parlamentari, ministeri, verso questi abusi. Si accese in tali popolazioni la convinzione sempre più forte che anche i deputati non erano "liberi", ma avevano un padrone. Nel 1958 il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici nominò una "Commissione di collaudo", attribuendole il compito di controllare che la costruzione della diga si svolgesse secondo le prescrizioni ed in assoluta sicurezza. Nel gennaio 1959 arrivò l'approvazione ministeriale della variante in opera al progetto della diga del Vajont, la quale, già in costruzione da due anni, era quasi ultimata. Dopo un primo monito costituito dagli studi di Muller, un altro accadimento giunse ad anticipare i futuri problemi dell'impianto: nel marzo del 1959 una frana cadde nel bacino imbrifero derivato dalla diga di Pontesei, poco distante da quella del Vajont e facente parte del progetto del "Grande Vajont". La diga era molto più piccola, ma la frana generò un'onda di ben 20 metri che provocò un morto. Con alcuni anni di anticipo si verificarono altrove le stesse dinamiche che avrebbero provocato, qualche anno più tardi, il disastro del Vajont. La S.A.D.E. tuttavia non tenne in alcun conto rilevante questo evento. Gli avvenimenti incalzarono rapidamente e gli ertocassani, scossi dalla vicenda, costituirono un "Consorzio per la difesa e la rinascita della valle ertana" per difendere i propri interessi nei confronti della S.A.D.E.. Il 5 maggio del 1959 uscì su "l'Unità" un articolo della giornalista Tina Merlin dal titolo "La SADE spadroneggia ma i montanari si difendono". Nell'articolo la Merlin faceva un resoconto della situazione e del nascituro "consorzio". Questo stesso articolo le procurò una denuncia per diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico, dalla quale fu assolta a Milano nel 1960. Contemporaneamente, invece, "Il Gazzettino", unico giornale regionale, non fece alcun accenno alla notizia, così come non ne aveva fatto alcuno riguardante le espropriazioni forzose dei terreni di Erto e Casso. Il tema Vajont era stato affrontato semplicemente in qualche occasione utile per presentare e dar importanza al grande progetto, frutto di luminari della scienza.
Nel luglio 1959 la Commissione di collaudo compì la sua prima visita al Vajont. I membri di questo ristretto organo statale furono accolti dallo staff della S.A.D.E. ed accompagnati a Cortina e Venezia per essere "intrattenuti". Il compito loro assegnato, analizzare la diga e la situazione della valle del Vajont, fu minimamente svolto. Massima fu invece la fiducia riposta nella S.A.D.E., alla quale, anzi, i membri della Commissione si rivolsero per aver un aiuto nell'elaborazione delle "accurate" relazioni riassuntive dell'ispezione da consegnare al Ministero. Nel 1959 un'altra tragedia ebbe come protagonista un bacino imbrifero: il 2 dicembre crollò la diga del Frejus, in Francia. Questo spinse l'ingegner Semenza a scrivere a Dal Piaz al fine di incontrarlo presto "per riparlare del Vajont che il disastro del Frejus rende più che mai di acuta attualità", denotando, forse per la prima volta, segnali di timore per l'evolversi della situazione e dubbi sulla ipotetica validità per le tesi del figlio Edoardo. Nel febbraio 1960 iniziarono le prime prove di invaso. Mentre il livello dell'acqua cresceva, piccole frane di terriccio e sassi si staccavano di continuo dalle pendici del Toc, accompagnate da continue lievi scosse sismiche. La S.A.D.E., preoccupata per questo, invitò il Sindaco ed i carabinieri di Erto a mantenere la popolazione distante dalle sponde del lago per via del rischio di loro cedimento. La popolazione si preoccupò ulteriormente perchè questo fu per loro sintomo che effettivamente qualcosa non andava. La stampa dell'epoca, nuovamente, non diede rilievo agli avvenimenti: "Il Gazzettino" non fece parola di quanto accadeva mentre gli articoli de "L'Unità" che se ne occuparono continuarono ad esser considerati scarsamente credibili perchè politicamente tendenziosi. Nell'agosto del 1960 la giornalista Tina Merlin venne addirittura citata in giudizio presso la Pretura di Milano, assieme al direttore responsabile de "l'Unità", per aver scritto l'articolo del maggio '59 in occasione della nascita del Consorzio per la difesa della valle ertana. Il 4 novembre 1960 suonò un nuovo campanello d'allarme: in seguito alle abbondanti precipitazioni che ogni anno in quel periodo si abbattono sulla valle, una frana di 800.000 metri cubi di roccia si staccò dal monte Toc e cadde nel bacino, sollevando un'onda che, fortunatamente, non provocò vittime, danneggiando le case nei pressi delle rive del lago. La S.A.D.E., sempre più in allarme, fece evacuare la popolazione residente sulle zone limitrofe all'invaso. Sul monte Toc, nel versante sinistro della valle del Vajont, comparve una fessura che interessava una lunghezza di circa 2.500 metri e si presentava con una particolare forma a "M". Gli articoli di allarme che denunciavano il grave pericolo del progetto del Vajont continuarono su "l'Unità", ma sempre additati quali volontarie esagerazioni della stampa comunista non credibile. Oramai preoccupata seriamente per l'evoluzione futura della situazione, la S.A.D.E. si preparò al peggio e studiò un modo per salvare il bacino nell'eventualità di una frana di dimensioni tali da ostruire l'unitarietà del lago con creazione di due laghi minori. Si progettò, così, la costruzione di una galleria di by-pass che avrebbe permesso il deflusso dell'acqua tra i due laghi senza danneggiare la funzionalità dell'intero impianto. Il 28 novembre 1960 si ebbe la terza visita della commissione di collaudo, all'esito della quale il geologo dello Stato, Francesco Penta, ritenne insufficienti gli elementi che testavano la gravità della situazione del suolo del monte Toc evidenziati da Muller e ripropose come affidabile la relazione di Caloi, rilevatrice di un pericolo comunque trascurabile. Il 30 novembre 1960 il deputato comunista Franco Busetto presentò un'interrogazione parlamentare diretta al Ministro dei LL.PP. per chiedere "quale controllo intende esercitare e quali provvedimenti adottare per difendere l'abitato del Comune di Erto nell'alto bellunese colpito da due grosse frane precipitate a poca distanza di tempo l'una dall'altra sulla destra e sulla sinistra del bacino idroelettrico del Vajont", ma il Ministro Zaccagnini non rispose. Contemporaneamente, a Milano si svolse il processo contro "l'Unità" per l'articolo della Merlin. La sentenza che ne derivò, anche alla luce degli accadimenti degli ultimi tempi (la frana del 4 novembre si era da poco verificata), fu di piena assoluzione per gli imputati. Ciò fu anche una implicita ammissione della pericolosità del progetto "Grande Vajont" da parte dei magistrati milanesi. La testata de "l'Unità" pubblicò il giorno dopo un articolo dal titolo "La SADE sconfitta al Tribunale di Milano", mentre "Il Gazzettino" continuò a mantenere il silenzio. L'inverno 1960 ed il gelo che portò con sè fermarono momentaneamente l'oramai visibile frana del Toc, ma la preoccupazione della S.A.D.E. era sempre più presente. Il 19 gennaio 1961 una nuova interpellanza parlamentare dei deputati comunisti non trovò risposta da parte del Ministro Zaccagnini. Nel febbraio del 1961, il geologo Muller, in una relazione rimasta segreta, invitò la S.A.D.E. ad abbandonare il progetto. Dopo una nuova serie di approfondimenti dei suoi studi sulla valle egli individuò una grande massa di frana, da lui stimata in 200 milioni di metri cubi. Questa frana non sarebbe stata soggetta a possibile controllo se non con opere di sicurezza che comportavano tecniche improponibili o spese eccessivamente onerose. Nonostante questo ulteriore drammatico avvertimento, il progetto proseguì senza interruzione alcuna. Il 21 febbraio del 1961, dopo una serie di riflessioni sulla pubblicazione o meno, "l'Unità" pubblicò un altro articolo della Merlin dal titolo "Una enorme massa di 50 milioni di metri cubi minaccia la vita e gli averi degli abitanti di Erto". Erano le prime ipotesi di catastrofe che si sarebbero, poi, rivelate riduttive, ma che già allarmarono gli abitanti di Erto su due ipotetiche soluzioni: se la diga fosse caduta Longarone sarebbe stato fortemente danneggiato, ma se la diga avesse retto allora ad esser spazzato via sarebbe stato Erto. Il 17 ottobre 1961 tornò la commissione di collaudo. La galleria di by-pass era terminata e l'esperto del Consiglio superiore del LL.PP. e membro della Commissione, Francesco Penta, comunicò al Ministero che "si ritiene opportuno riprendere il riempimento del lago con gradualità, tenendo costantemente sotto controllo la situazione". Il 31 ottobre 1961 morì il primo grande protagonista del caso Vajont, l'ingegner Carlo Semenza, artefice del progetto.
Al suo posto subentrò Alberico Nino Biadene. Le conclusioni di Ghetti prevedevano l'altezza di 700 metri del livello dell'acqua nella diga quale quota "di assoluta sicurezza nei riguardi anche del più catastrofico evento di frana". Egli ritenne inoltre la quota massima prevista, cioè 722,5 metri, realmente molto rischiosa perchè generatrice di un evento catastrofico anche per la zona a valle della diga. In realtà le simulazioni furono fallimentari perchè sbagliarono la velocità di caduta e la compattezza del materiale (cosa che naturalmente fu comprensibile solo col senno di poi), ma i risultati furono comunque tenuti segreti. Il 20 aprile 1962 morì il secondo grande protagonista del caso Vajont, il geologo Giorgio Dal Piaz che, primo tra gli ultimi, aveva iniziato ad avere dei dubbi su un progetto che molti anni prima gli aveva fatto "tremare le vene ai polsi". Nel frattempo si continuava a parlare sempre di più di nazionalizzazione dell'energia elettrica, progetto che giunse a termine nel dicembre del 1962 quando fu pubblicata la legge che diede origine all'Ente Nazionale energia elettrica, l'E.N.E.L. Tra gennaio e maggio del 1962, mentre la SADE procedeva con l'invaso, si registrarono ripetute scosse telluriche, che la SADE e, per essa, il suo direttore del servizio costruzioni idrauliche, Alberico Biadene, non comunicò al Ministero. Il 3 maggio 1962, mentre la popolazione della valle era sempre più allarmata, la S.A.D.E., vedendo vicina la nazionalizzazione dell'energia elettrica, cercò di accelerare le operazioni di collaudo chiedendo al ministero di poter alzare il livello del lago fino a quota 700 metri, dopo di che forzò la mano per raggiungere comunque il collaudo dell'opera, previsto a 715 metri, per poterla così vendere allo Stato col massimo guadagno. Tra il marzo ed il luglio del 1963 la S.A.D.E. trasferì i suoi manufatti allo Stato che nominò il professor Feliciano Benvenuti, docente dell'Università Cattolica di Milano,quale amministratore provvisorio dei beni dell'ex S.A.D.E. "Da ora in poi quanto accadrà sul Vajont porterà anche la firma diretta dello Stato. Non solo, come prima, in quanto controllore, ma in quanto proprietario."
Lo Stato non prese in consegna solo l'impianto, ma passarono sotto le sue dipendenze anche tutti gli operai, gli impiegati e dirigenti della S.A.D.E. che avevano gestito il progetto, per cui la situazione non cambiò.
Nel settembre 1963 gli invasi procedettero celermente raggiungendo quota 710 metri, soli 5 metri meno dei 715 necessari per il collaudo, ma ben oltre la "quota di assoluta sicurezza" prevista dal professor Ghetti. Sul monte Toc comparvero evidenti inclinazioni degli alberi, avvallamenti della strada di circonvallazione del lago e l'accentuarsi sempre più veloce della lunga fessurazione a forma di M che attraversava la montagna. La preoccupazione generale fu nuovamente sedata dalla S.A.D.E. che attribuì le scosse sismiche ad epicentri che non erano minimamente rapportabili alla situazione del lago del Vajont. Gli uomini della SADE ormai certi che la montagna stava per cadere, si interrogavano sul modo in cui sarebbe caduta. Per cercare di limitare al minimo i danni possibili si decise così per lo svaso del lago fino al raggiungimento almeno della "quota di assoluta sicurezza" di 700 metri e si procedette di conseguenza ad un veloce svaso che non frenò ugualmente la continua accelerazione della frana. L'8 ottobre 1963, in un clima di generale confusione, Biadene telefonò alla SADE presso la sua sede di Venezia affinchè fosse inviato un telegramma al sindaco del Comune di Erto-Casso per ottener l'emanazione di un ordine di sgombero delle frazioni situate sotto il monte Toc che era al limite di resistenza.
Il tragico 9 ottobre 1963Il 9 ottobre 1963 fu l'ultima giornata per quasi 2000 persone.La popolazione di Longarone, a differenza di quella di Erto e Casso, fino a poco tempo prima era stata fiera di ospitare un'opera prestigiosa come la diga. Con l'evolversi della situazione, però, il suo atteggiamento era cambiato in quanto era cresciuta la preoccupazione per le scosse sismiche, ormai percettibili anche in questo paese a valle, e per il pericolo della frana del Toc. Tuttavia, la gente di Longarone era rinfrancata dal fatto di ospitare in paese gran parte dei tecnici e dirigenti dell'ex S.A.D.E. con le loro famiglie. Questo fatto significò una certezza in più diretta verso la convinzione di una non così eccezionale pericolosità della situazione. L'epilogo del "primo" Vajont iniziò con una giornata di sole nella quale la gente di Casso ancora si recava sul Toc per non lasciare i propri averi e si disinteressava dell'ordinanza emanata dal Sindaco di Erto-Casso riguardante la pericolosità della zona. Oramai per la S.A.D.E. il cedimento della frana era imminente, anche per via dei dati allarmanti che dimostravano il sempre più celere avanzamento della fenditura sul Toc. La preoccupazione era parzialmente sedata solo dal livello dell'acqua che era sceso a 701 metri quindi un solo metro più della presunta "quota di assoluta sicurezza". Biadene, speranzoso che in caso di frana si sarebbero formate "solo" piccole onde che avrebbero "un po' spruzzato il villaggio di Vajont all'imboccatura della valle", tornò a Venezia dicendo ai geometri di turno alla diga di mantenerlo aggiornato sulle evoluzioni della situazione. La giornata scorse velocemente e, giunta la sera, dalla diga si continuò a scrutare la situazione del monte Toc con un grosso riflettore che da tempo era stato posizionato sul suo coronamento. Il geometra Rittmeyer, responsabile del turno di notte, preoccupato dalla frana che si muoveva sempre più velocemente, telefonò a Venezia a Biadene chiedendogli informazioni circa l'evacuazione di una piccola frazione di Erto che si trovava ad una quota pericolosa. La telefonata fu intercettata da una centralinista di Longarone che chiese preoccupata informazioni circa l'eventuale pericolo anche per il suo paese, ma venne tranquillizzata sull'assenza di tale pericolo. Intorno alle 22:30 tutti i bar di Longarone erano affollati di gente, anche delle frazioni vicine: erano tutti accorsi per poter assistere alla partita di calcio Glasgow Rangers - Real Madrid in programmazione sul secondo canale TV. Alle 22:39 del 9 ottobre 1963 si compì la tragedia. Ad un tratto un lampo illuminò la vallata a giorno subito seguito da un terribile boato. L'acqua del bacino a questo punto era alta 700,42 metri. All'improvviso dal monte Toc si staccò una frana colossale di 260 milioni di metri cubi di roccia, terriccio e detriti (la seconda frana più grande di tutti i tempi) che cadde nel lago del Vajont in un corpo unico e non in due momenti separati come ipotizzato nelle prove di laboratorio di Ghetti. La frana all'impatto con l'acqua del bacino fece scaturire un'onda apocalittica di 50 milioni di metri cubi, alta ben 250 metri nei punti più elevati, la quale addirittura scavalcò il paesino di Casso, che per miracolo non fu costretto a contar vittime il giorno seguente. L'onda assassina si divise in due parti: una operò la distruzione a monte della diga e l'altra si incamminò verso la distruzione della valle. L'onda a monte si schiantò sulle pendici ai lati del lago e risucchiò dentro di esso i villaggi situati sulle sue rive risalendo fino all'imboccatura della Valcellina. L'altra parte dell'onda gigantesca si alzò centinaia di metri sopra la diga scavalcandola. Le pareti della gola portano ancora oggi i segni del passaggio dell'onda a testimonianza della potenza dell'acqua. Quest'ultima percorse in un minuto e mezzo, alla velocità di 80 km/h, i 2 chilometri che la separavano dalle prime case della vallata di Longarone. Quattro minuti fu il tempo concesso alla gente di Longarone dalla caduta della frana all'arrivo dell'acqua. La popolazione della valle, dopo il lampo, si trovò priva della corrente elettrica. Molti stavano già dormendo, ma, tra quelli che ancora animavano i bar e le case del paese, iniziarono ad affacciarsi le prime ipotesi. Si pensò inizialmente ad un grosso temporale tipico della stagione, però, i continui bagliori in cielo, la valle che tremava, il vento che spirava molto forte e senza alcuna interruzione portando con sè uno strano odore di terra, fecero presto pensare al peggio. Qualcuno intuì che non si trattava di un temporale, ma che era accaduto qualcosa di grave alla diga. Quando questa consapevolezza si realizzò fu panico. Si cercò di scappare ma il tempo di riflettere fu talmente poco che non si sapeva chi salvare, nè esattamente dove andare a rifugiarsi: nessuno fu in grado di prevedere l'entità del disastro che stava per verificarsi. Il vento intanto continuava ad imperversare in modo sempre più violento. Fu proprio questo, in realtà, a causare il maggior numero di vittime. La violenza dell'aria compressa dall'onda e spinta attraverso la gola verso la valle fu, in seguito, paragonata a quella sprigionata dalla violenza dell'aria causata dalla deflagrazione di due bombe atomiche. Una volta abbattutasi sulla valle di Longarone, l'onda sollevò tutto ciò che incontrò: case, auto, alberi, animali e persone quindi, guadagnando il letto del Piave, si divise nuovamente in due parti: metà risalì il fiume controcorrente per ben 2 chilometri, l'altra metà seguì la direzione della corrente verso il mare, con onde ancora alte 12 metri. L'onda che era risalita controcorrente dopo 15 minuti ritornò sui suoi passi e, nell'attraversare l'oramai distrutto territorio ove prima c'era Longarone, spianò il terreno e creò la pietraia lunare che fu il terribile panorama del giorno seguente. Entrambe le onde danneggiarono e fecero vittime nei luoghi che raggiunsero. L'acqua quindi, spazzando via ciò che l'aria aveva distrutto, provocò complessivamente quasi 2000 vittime. "La storia del 'grande Vajont', durata vent'anni, si concluse in tre minuti di apocalisse, con l'olocausto di 2000 vittime".
2 - I PROTAGONISTI DELLA "MEMORIA" DEL VAJONT
Cap. 1.2
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