Cap. 1

LA NASCITA DEL "CASO VAJONT" E DELLA SUA MEMORIA

L'origine del "caso Vajont" va ricercata verso la fine degli anni '20 quando l'ingegner Carlo Semenza, coadiuvato dall'amico geologo Giorgio Dal Piaz, ideò un ambizioso progetto di sfruttamento delle acque del fiume Vajont. Quello che era solo un progetto diventò realtà a partire dalla seconda metà degli anni '50 quando, nella valle del Vajont, ebbe inizio la costruzione di una diga a doppio arco, tra le più grandi del mondo, in grado di creare un lago artificiale di ampissima portata, ideale per produrre una enorme quantità di energia idroelettrica.
Finanziatrice del progetto e proprietaria dell'impianto era la S.A.D.E., società monopolista dell'elettricità nell'Italia nord-orientale che, per realizzare il suo progetto, potè avvalersi di un notevole "potere" derivante da una congiuntura storico-politca che le permise di procurarsi tutti i requisiti legali necessari per l'inizio dei lavori.
Terminata la costruzione della grande diga con enorme dispendio di denaro, questo progetto si rivelò in realtà ricco di insidie, rese palesi dalle prove di invaso necessarie per giungere al collaudo dell'impianto, che ne dimostrarono la reale inutilizzabilità.
La S.A.D.E. tentò comunque di portare a termine l'impresa nonostante i ripetuti segnali di ribellione manifestati dalla natura. L'erosione della montagna ad opera dei continui invasi e svasi del livello dell'acqua del lago, nella notte del 9 ottobre 1963, originò il rilascio di una frana di dimensioni gigantesche che, scivolando nel lago artificiale, originò un'onda apocalittica che in pochi minuti cambiò la geografia di una vallata provocando all'incirca 2000 morti. Il giorno dopo ebbe inizio il lungo percorso di una memoria "difficile", sotto più punti di vista, per tutti i suoi protagonisti diretti ed indiretti.
Una memoria difficile soprattutto per le popolazioni delle valli sinistrate, i superstiti della tragedia, che furono costretti a ricominciare tutto da zero poichè privati di tutti i loro affetti e di tutti i loro beni. Essi lottarono per ottenere giustizia e dignità per i loro morti.
I mass-media, principalmente rappresentati dalla carta stampata, dalla radio ed in minor misura dall'ancor poco diffusa televisione, portano e porteranno la macchia del loro operato nel tempo.
Essi si occuparono infatti dell'accaduto in modo "consono" al tipo di giornalismo che caratterizzava quell'epoca, finendo col dare una chiave di lettura della vicenda che, col senno di poi, si rivelò "parziale".
La gestione dell'eredità di una simile memoria fu difficile anche per le istituzioni statali e per le forze politiche di governo: esse furono complici del disastro poichè assorbite da un servilismo al potere economico venutosi a creare in un momento storico particolare.
Il fallimentare tentativo di definir "fatalità" la tragedia e di discolparsi da eventuali responsabilità portò alla necessità, che seguì, di eliminare una memoria colpevolizzante dalla coscienza civile nazionale.

1 - IL CASO VAJONT: BREVE STORIA DI UN "BUSINESS ASSASSINO"

Dalla nascita dell'idea del "grande Vajont" alla sua tragica fine

Per poter affrontare la "memoria" di un tema tanto complesso quale quella del "caso Vajont" è assolutamente necessario ricostruire le principali tappe delle sue origini.
Tutto iniziò nella seconda metà degli anni '20 quando l'ingegner Carlo Semenza ed il geologo Giorgio Dal Piaz si recarono a fare i primi sopralluoghi in una valle situata al confine tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, nei pressi di Belluno. Quella zona fu identificata come proficua, dal punto di vista idrico, a fini di sfruttamento delle acque del fiume Vajont, un affluente del Piave. L'ingegnere iniziò a riflettere sull'utilizzo sistematico delle acque del fiume Vajont attraverso la realizzazione di una diga. Il geologo, da tempo suo collaboratore ed amico, ebbe il compito di stendere la prima relazione geologica della zona, per valutare le caratteristiche dei terreni montani e definire l'eseguibilità o meno del progetto.
Nel 1929 l'idea si concretizzò: finanziatrice di questa colossale impresa ideata dall'ingegner Semenza fu la S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità), società monopolista dell'elettricità nord-orientale, che vide nel progetto una consistente fonte di guadagno.
Nel 1939 nacque la prima idea del "Grande Vajont", cioè un insieme di sbarramenti di più corsi d'acqua realizzati in zone limitrofe alla valle del Piave e tutti facenti riferimento alla vicina centrale idroelettrica di Soverzene.
Nel 1940 la SADE inoltrò la richiesta al Ministero dei Lavori Pubblici "di utilizzare i deflussi del Piave, degli affluenti Boite, Vajont e altri minori per scopi idroelettrici. Con tale domanda era prevista fra l'altro l'utilizzazione dei deflussi regolati da un serbatoio della capacità di 50 milioni di metri cubi, creato mediante la costruzione, nel Vajont, di una diga alta 200 metri sottendente un bacino imbrifero di 52 chilometri quadrati". La prima autorizzazione alla realizzazione del progetto del "Grande Vajont" risale al 1943, con un apparato statale molto caotico per via della Seconda Guerra Mondiale in svolgimento. Essa fu il risultato del voto di 13 membri su 34 della IV Sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, voto che in realtà avrebbe dovuto esser considerato invalido per assenza del numero legale di partecipanti. Questa decisione venne poi ulteriormente ratificata in corrispondenza di circostanze storicamente altrettanto cruciali alla precedente. Nel 1948 il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, con un proprio decreto, accordò alla SADE la concessione definitiva.
Ottenuta l'approvazione da parte dello Stato all'effettuazione dell'opera, la S.A.D.E. mirò all'acquisto dei terreni situati sulle pendici delle due montagne che stringevano la gola rocciosa da "tappare" con la diga e che sarebbero stati dunque sommersi dal lago artificiale.
Tali terreni erano di proprietà degli abitanti di due piccoli paesi, Erto e Casso e costituivano la loro unica fonte di sostentamento, trattandosi di popolazioni contadine. Nonostante le dure lotte per tentare di resistere alla vendita, la S.A.D.E. riuscì, comunque, a raggiungere il suo scopo acquistando le suddette terre a prezzi irrisori. In alcuni casi lo fece addirittura ricorrendo all'espropriazione d'ufficio. Ciò costrinse molti ertocassani all'emigrazione perchè ormai privi di lavoro.
Tra 1950 e 1953 furono velocemente ultimate e collaudate le dighe vicine al Vajont che facevano parte del progetto "Grande Vajont". Nel gennaio 1957 la S.A.D.E. iniziò i lavori di costruzione della diga più maestosa ed alta del mondo, prima ancora di ricevere l'autorizzazione ministeriale alla modificazione del progetto e nonostante le proteste del Genio Civile di Belluno, certa del buon esito delle sue richieste date le conoscenze tra i " 'ministeriali' e addirittura un governo che preme per la produzione di nuova energia[...]".
Nell'aprile dello stesso anno, infatti, la S.A.D.E. presentò al Ministero dei LL.PP. la richiesta per l'approvazione di una variante in corso d'opera al progetto, ovvero l'innalzamento della diga di 66 metri, con conseguente aumento delle dimensioni del lago fino a raggiungere un volume d'acqua del bacino imbrifero pari a 150 milioni di metri cubi, il triplo del precedente progetto. La nuova opera che ne sarebbe derivata sarebbe stata la diga più grande del mondo, un progetto maestoso, ma che lo stesso geologo Dal Piaz ritenne a dir poco ardito, nonostante ne firmò ugualmente la relazione geologica per la richiesta di approvazione, evidenziando la sudditanza anche della scienza accademica al monopolio privato.
Il ministero si fidò della S.A.D.E. e dei suoi studi, non inviò nessuno sul Vajont a controllare e non si rese conto, quindi, che la S.A.D.E. aveva già iniziato la costruzione della diga prima di aver ottenuto regolarmente i permessi per farlo.
Nel luglio 1957 la S.A.D.E. commissionò indagini sul territorio anche al geotecnico austriaco Leopold Muller, che evidenziò un "forte pericolo di frana" sulla sponda sinistra del bacino, esattamente localizzata sul monte Toc, antico ammasso residuale di vecchie frane epocali.

Nel frattempo, i cittadini di Erto e Casso tentarono di opporsi agli ulteriori espropri di terreni, ma senza alcun esito positivo. Nessun effetto provocò l'inascoltato tentativo delle popolazioni ertocassane di richiamare l'attenzione di istituzioni quali Comuni, Province, parlamentari, ministeri, verso questi abusi. Si accese in tali popolazioni la convinzione sempre più forte che anche i deputati non erano "liberi", ma avevano un padrone.

Nel 1958 il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici nominò una "Commissione di collaudo", attribuendole il compito di controllare che la costruzione della diga si svolgesse secondo le prescrizioni ed in assoluta sicurezza. Nel gennaio 1959 arrivò l'approvazione ministeriale della variante in opera al progetto della diga del Vajont, la quale, già in costruzione da due anni, era quasi ultimata. Dopo un primo monito costituito dagli studi di Muller, un altro accadimento giunse ad anticipare i futuri problemi dell'impianto: nel marzo del 1959 una frana cadde nel bacino imbrifero derivato dalla diga di Pontesei, poco distante da quella del Vajont e facente parte del progetto del "Grande Vajont". La diga era molto più piccola, ma la frana generò un'onda di ben 20 metri che provocò un morto. Con alcuni anni di anticipo si verificarono altrove le stesse dinamiche che avrebbero provocato, qualche anno più tardi, il disastro del Vajont. La S.A.D.E. tuttavia non tenne in alcun conto rilevante questo evento. Gli avvenimenti incalzarono rapidamente e gli ertocassani, scossi dalla vicenda, costituirono un "Consorzio per la difesa e la rinascita della valle ertana" per difendere i propri interessi nei confronti della S.A.D.E..

Il 5 maggio del 1959 uscì su "l'Unità" un articolo della giornalista Tina Merlin dal titolo "La SADE spadroneggia ma i montanari si difendono". Nell'articolo la Merlin faceva un resoconto della situazione e del nascituro "consorzio". Questo stesso articolo le procurò una denuncia per diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico, dalla quale fu assolta a Milano nel 1960.

Contemporaneamente, invece, "Il Gazzettino", unico giornale regionale, non fece alcun accenno alla notizia, così come non ne aveva fatto alcuno riguardante le espropriazioni forzose dei terreni di Erto e Casso. Il tema Vajont era stato affrontato semplicemente in qualche occasione utile per presentare e dar importanza al grande progetto, frutto di luminari della scienza.

Nel luglio 1959 la Commissione di collaudo compì la sua prima visita al Vajont. I membri di questo ristretto organo statale furono accolti dallo staff della S.A.D.E. ed accompagnati a Cortina e Venezia per essere "intrattenuti". Il compito loro assegnato, analizzare la diga e la situazione della valle del Vajont, fu minimamente svolto. Massima fu invece la fiducia riposta nella S.A.D.E., alla quale, anzi, i membri della Commissione si rivolsero per aver un aiuto nell'elaborazione delle "accurate" relazioni riassuntive dell'ispezione da consegnare al Ministero.
Nel frattempo continuarono le analisi degli specialisti sui terreni della valle. Un geosismico, Pietro Caloi, dichiarò che il monte Toc era sicuro e che lo strato di terreno a rischio di frana era solo superficiale. Contemporaneamente un'ulteriore perizia scientifica affidata a due giovani geologi, uno dei quali era Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga, individuò l'esistenza di una enorme massa in movimento che rischiava di portare alla nascita di massicce frane se sottoposta ai continui invasi e svasi del lago artificiale.
Nemmeno questo bastò a fermare il progetto del "Grande Vajont". Nell'autunno del 1959 la diga fu ultimata anche se non rifinita. La commissione di collaudo tornò per una seconda visita e, naturalmente, non fu informata circa gli studi fatti da Muller e da Edoardo Semenza. Pochi giorni dopo questa seconda visita, la S.A.D.E. inoltrò domanda al Ministero per dar inizio al parziale invaso del bacino.

Nel 1959 un'altra tragedia ebbe come protagonista un bacino imbrifero: il 2 dicembre crollò la diga del Frejus, in Francia. Questo spinse l'ingegner Semenza a scrivere a Dal Piaz al fine di incontrarlo presto "per riparlare del Vajont che il disastro del Frejus rende più che mai di acuta attualità", denotando, forse per la prima volta, segnali di timore per l'evolversi della situazione e dubbi sulla ipotetica validità per le tesi del figlio Edoardo.

Nel febbraio 1960 iniziarono le prime prove di invaso. Mentre il livello dell'acqua cresceva, piccole frane di terriccio e sassi si staccavano di continuo dalle pendici del Toc, accompagnate da continue lievi scosse sismiche. La S.A.D.E., preoccupata per questo, invitò il Sindaco ed i carabinieri di Erto a mantenere la popolazione distante dalle sponde del lago per via del rischio di loro cedimento. La popolazione si preoccupò ulteriormente perchè questo fu per loro sintomo che effettivamente qualcosa non andava. La stampa dell'epoca, nuovamente, non diede rilievo agli avvenimenti: "Il Gazzettino" non fece parola di quanto accadeva mentre gli articoli de "L'Unità" che se ne occuparono continuarono ad esser considerati scarsamente credibili perchè politicamente tendenziosi.

Nell'agosto del 1960 la giornalista Tina Merlin venne addirittura citata in giudizio presso la Pretura di Milano, assieme al direttore responsabile de "l'Unità", per aver scritto l'articolo del maggio '59 in occasione della nascita del Consorzio per la difesa della valle ertana.

Il 4 novembre 1960 suonò un nuovo campanello d'allarme: in seguito alle abbondanti precipitazioni che ogni anno in quel periodo si abbattono sulla valle, una frana di 800.000 metri cubi di roccia si staccò dal monte Toc e cadde nel bacino, sollevando un'onda che, fortunatamente, non provocò vittime, danneggiando le case nei pressi delle rive del lago.

La S.A.D.E., sempre più in allarme, fece evacuare la popolazione residente sulle zone limitrofe all'invaso. Sul monte Toc, nel versante sinistro della valle del Vajont, comparve una fessura che interessava una lunghezza di circa 2.500 metri e si presentava con una particolare forma a "M". Gli articoli di allarme che denunciavano il grave pericolo del progetto del Vajont continuarono su "l'Unità", ma sempre additati quali volontarie esagerazioni della stampa comunista non credibile. Oramai preoccupata seriamente per l'evoluzione futura della situazione, la S.A.D.E. si preparò al peggio e studiò un modo per salvare il bacino nell'eventualità di una frana di dimensioni tali da ostruire l'unitarietà del lago con creazione di due laghi minori. Si progettò, così, la costruzione di una galleria di by-pass che avrebbe permesso il deflusso dell'acqua tra i due laghi senza danneggiare la funzionalità dell'intero impianto.

Il 28 novembre 1960 si ebbe la terza visita della commissione di collaudo, all'esito della quale il geologo dello Stato, Francesco Penta, ritenne insufficienti gli elementi che testavano la gravità della situazione del suolo del monte Toc evidenziati da Muller e ripropose come affidabile la relazione di Caloi, rilevatrice di un pericolo comunque trascurabile. Il 30 novembre 1960 il deputato comunista Franco Busetto presentò un'interrogazione parlamentare diretta al Ministro dei LL.PP. per chiedere "quale controllo intende esercitare e quali provvedimenti adottare per difendere l'abitato del Comune di Erto nell'alto bellunese colpito da due grosse frane precipitate a poca distanza di tempo l'una dall'altra sulla destra e sulla sinistra del bacino idroelettrico del Vajont", ma il Ministro Zaccagnini non rispose.

Contemporaneamente, a Milano si svolse il processo contro "l'Unità" per l'articolo della Merlin. La sentenza che ne derivò, anche alla luce degli accadimenti degli ultimi tempi (la frana del 4 novembre si era da poco verificata), fu di piena assoluzione per gli imputati. Ciò fu anche una implicita ammissione della pericolosità del progetto "Grande Vajont" da parte dei magistrati milanesi. La testata de "l'Unità" pubblicò il giorno dopo un articolo dal titolo "La SADE sconfitta al Tribunale di Milano", mentre "Il Gazzettino" continuò a mantenere il silenzio. L'inverno 1960 ed il gelo che portò con sè fermarono momentaneamente l'oramai visibile frana del Toc, ma la preoccupazione della S.A.D.E. era sempre più presente.

Il 19 gennaio 1961 una nuova interpellanza parlamentare dei deputati comunisti non trovò risposta da parte del Ministro Zaccagnini. Nel febbraio del 1961, il geologo Muller, in una relazione rimasta segreta, invitò la S.A.D.E. ad abbandonare il progetto. Dopo una nuova serie di approfondimenti dei suoi studi sulla valle egli individuò una grande massa di frana, da lui stimata in 200 milioni di metri cubi. Questa frana non sarebbe stata soggetta a possibile controllo se non con opere di sicurezza che comportavano tecniche improponibili o spese eccessivamente onerose. Nonostante questo ulteriore drammatico avvertimento, il progetto proseguì senza interruzione alcuna.

Il 21 febbraio del 1961, dopo una serie di riflessioni sulla pubblicazione o meno, "l'Unità" pubblicò un altro articolo della Merlin dal titolo "Una enorme massa di 50 milioni di metri cubi minaccia la vita e gli averi degli abitanti di Erto". Erano le prime ipotesi di catastrofe che si sarebbero, poi, rivelate riduttive, ma che già allarmarono gli abitanti di Erto su due ipotetiche soluzioni: se la diga fosse caduta Longarone sarebbe stato fortemente danneggiato, ma se la diga avesse retto allora ad esser spazzato via sarebbe stato Erto.

Il 17 ottobre 1961 tornò la commissione di collaudo. La galleria di by-pass era terminata e l'esperto del Consiglio superiore del LL.PP. e membro della Commissione, Francesco Penta, comunicò al Ministero che "si ritiene opportuno riprendere il riempimento del lago con gradualità, tenendo costantemente sotto controllo la situazione". Il 31 ottobre 1961 morì il primo grande protagonista del caso Vajont, l'ingegner Carlo Semenza, artefice del progetto.

Al suo posto subentrò Alberico Nino Biadene.
Nel 1962 la S.A.D.E., oramai consapevole che la frana molto probabilmente sarebbe caduta, si preparò ad affrontare ipotetiche emergenze nel bacino artificiale del Vajont e per tale motivo commissionò al professor Augusto Ghetti, titolare dell'Istituto di Idraulica dell'Università di Padova, l'esecuzione di alcune prove di laboratorio su una ipotetica frana. Fu proprio Ghetti a suggerire di eseguire tali prove al di fuori dell'Università, in un luogo al sicuro da occhi indiscreti. Si scelse per la realizzazione dei suddetti esperimenti la zona di Nove di Fadalto, in un quartier generale della SADE, ben sorvegliato e chiuso.

Le conclusioni di Ghetti prevedevano l'altezza di 700 metri del livello dell'acqua nella diga quale quota "di assoluta sicurezza nei riguardi anche del più catastrofico evento di frana". Egli ritenne inoltre la quota massima prevista, cioè 722,5 metri, realmente molto rischiosa perchè generatrice di un evento catastrofico anche per la zona a valle della diga. In realtà le simulazioni furono fallimentari perchè sbagliarono la velocità di caduta e la compattezza del materiale (cosa che naturalmente fu comprensibile solo col senno di poi), ma i risultati furono comunque tenuti segreti.

Il 20 aprile 1962 morì il secondo grande protagonista del caso Vajont, il geologo Giorgio Dal Piaz che, primo tra gli ultimi, aveva iniziato ad avere dei dubbi su un progetto che molti anni prima gli aveva fatto "tremare le vene ai polsi".

Nel frattempo si continuava a parlare sempre di più di nazionalizzazione dell'energia elettrica, progetto che giunse a termine nel dicembre del 1962 quando fu pubblicata la legge che diede origine all'Ente Nazionale energia elettrica, l'E.N.E.L.

Tra gennaio e maggio del 1962, mentre la SADE procedeva con l'invaso, si registrarono ripetute scosse telluriche, che la SADE e, per essa, il suo direttore del servizio costruzioni idrauliche, Alberico Biadene, non comunicò al Ministero.

Il 3 maggio 1962, mentre la popolazione della valle era sempre più allarmata, la S.A.D.E., vedendo vicina la nazionalizzazione dell'energia elettrica, cercò di accelerare le operazioni di collaudo chiedendo al ministero di poter alzare il livello del lago fino a quota 700 metri, dopo di che forzò la mano per raggiungere comunque il collaudo dell'opera, previsto a 715 metri, per poterla così vendere allo Stato col massimo guadagno.

Tra il marzo ed il luglio del 1963 la S.A.D.E. trasferì i suoi manufatti allo Stato che nominò il professor Feliciano Benvenuti, docente dell'Università Cattolica di Milano,quale amministratore provvisorio dei beni dell'ex S.A.D.E.

"Da ora in poi quanto accadrà sul Vajont porterà anche la firma diretta dello Stato. Non solo, come prima, in quanto controllore, ma in quanto proprietario."

Lo Stato non prese in consegna solo l'impianto, ma passarono sotto le sue dipendenze anche tutti gli operai, gli impiegati e dirigenti della S.A.D.E. che avevano gestito il progetto, per cui la situazione non cambiò. Nel settembre 1963 gli invasi procedettero celermente raggiungendo quota 710 metri, soli 5 metri meno dei 715 necessari per il collaudo, ma ben oltre la "quota di assoluta sicurezza" prevista dal professor Ghetti.
In seguito a questi invasi si manifestarono nuove scosse telluriche sempre più frequenti e più acute al punto da sentirsi chiaramente anche a Longarone ove gli abitanti iniziarono a preoccuparsi ed a chieder informazioni agli operai che lavoravano per la S.A.D.E.

Sul monte Toc comparvero evidenti inclinazioni degli alberi, avvallamenti della strada di circonvallazione del lago e l'accentuarsi sempre più veloce della lunga fessurazione a forma di M che attraversava la montagna. La preoccupazione generale fu nuovamente sedata dalla S.A.D.E. che attribuì le scosse sismiche ad epicentri che non erano minimamente rapportabili alla situazione del lago del Vajont.

Gli uomini della SADE ormai certi che la montagna stava per cadere, si interrogavano sul modo in cui sarebbe caduta. Per cercare di limitare al minimo i danni possibili si decise così per lo svaso del lago fino al raggiungimento almeno della "quota di assoluta sicurezza" di 700 metri e si procedette di conseguenza ad un veloce svaso che non frenò ugualmente la continua accelerazione della frana.

L'8 ottobre 1963, in un clima di generale confusione, Biadene telefonò alla SADE presso la sua sede di Venezia affinchè fosse inviato un telegramma al sindaco del Comune di Erto-Casso per ottener l'emanazione di un ordine di sgombero delle frazioni situate sotto il monte Toc che era al limite di resistenza.

Il tragico 9 ottobre 1963

Il 9 ottobre 1963 fu l'ultima giornata per quasi 2000 persone.
La popolazione di Longarone, a differenza di quella di Erto e Casso, fino a poco tempo prima era stata fiera di ospitare un'opera prestigiosa come la diga. Con l'evolversi della situazione, però, il suo atteggiamento era cambiato in quanto era cresciuta la preoccupazione per le scosse sismiche, ormai percettibili anche in questo paese a valle, e per il pericolo della frana del Toc. Tuttavia, la gente di Longarone era rinfrancata dal fatto di ospitare in paese gran parte dei tecnici e dirigenti dell'ex S.A.D.E. con le loro famiglie. Questo fatto significò una certezza in più diretta verso la convinzione di una non così eccezionale pericolosità della situazione.

L'epilogo del "primo" Vajont iniziò con una giornata di sole nella quale la gente di Casso ancora si recava sul Toc per non lasciare i propri averi e si disinteressava dell'ordinanza emanata dal Sindaco di Erto-Casso riguardante la pericolosità della zona.

Oramai per la S.A.D.E. il cedimento della frana era imminente, anche per via dei dati allarmanti che dimostravano il sempre più celere avanzamento della fenditura sul Toc. La preoccupazione era parzialmente sedata solo dal livello dell'acqua che era sceso a 701 metri quindi un solo metro più della presunta "quota di assoluta sicurezza". Biadene, speranzoso che in caso di frana si sarebbero formate "solo" piccole onde che avrebbero "un po' spruzzato il villaggio di Vajont all'imboccatura della valle", tornò a Venezia dicendo ai geometri di turno alla diga di mantenerlo aggiornato sulle evoluzioni della situazione.

La giornata scorse velocemente e, giunta la sera, dalla diga si continuò a scrutare la situazione del monte Toc con un grosso riflettore che da tempo era stato posizionato sul suo coronamento. Il geometra Rittmeyer, responsabile del turno di notte, preoccupato dalla frana che si muoveva sempre più velocemente, telefonò a Venezia a Biadene chiedendogli informazioni circa l'evacuazione di una piccola frazione di Erto che si trovava ad una quota pericolosa. La telefonata fu intercettata da una centralinista di Longarone che chiese preoccupata informazioni circa l'eventuale pericolo anche per il suo paese, ma venne tranquillizzata sull'assenza di tale pericolo.

Intorno alle 22:30 tutti i bar di Longarone erano affollati di gente, anche delle frazioni vicine: erano tutti accorsi per poter assistere alla partita di calcio Glasgow Rangers - Real Madrid in programmazione sul secondo canale TV. Alle 22:39 del 9 ottobre 1963 si compì la tragedia. Ad un tratto un lampo illuminò la vallata a giorno subito seguito da un terribile boato. L'acqua del bacino a questo punto era alta 700,42 metri.

All'improvviso dal monte Toc si staccò una frana colossale di 260 milioni di metri cubi di roccia, terriccio e detriti (la seconda frana più grande di tutti i tempi) che cadde nel lago del Vajont in un corpo unico e non in due momenti separati come ipotizzato nelle prove di laboratorio di Ghetti. La frana all'impatto con l'acqua del bacino fece scaturire un'onda apocalittica di 50 milioni di metri cubi, alta ben 250 metri nei punti più elevati, la quale addirittura scavalcò il paesino di Casso, che per miracolo non fu costretto a contar vittime il giorno seguente.

L'onda assassina si divise in due parti: una operò la distruzione a monte della diga e l'altra si incamminò verso la distruzione della valle. L'onda a monte si schiantò sulle pendici ai lati del lago e risucchiò dentro di esso i villaggi situati sulle sue rive risalendo fino all'imboccatura della Valcellina.

L'altra parte dell'onda gigantesca si alzò centinaia di metri sopra la diga scavalcandola. Le pareti della gola portano ancora oggi i segni del passaggio dell'onda a testimonianza della potenza dell'acqua. Quest'ultima percorse in un minuto e mezzo, alla velocità di 80 km/h, i 2 chilometri che la separavano dalle prime case della vallata di Longarone. Quattro minuti fu il tempo concesso alla gente di Longarone dalla caduta della frana all'arrivo dell'acqua.

La popolazione della valle, dopo il lampo, si trovò priva della corrente elettrica. Molti stavano già dormendo, ma, tra quelli che ancora animavano i bar e le case del paese, iniziarono ad affacciarsi le prime ipotesi. Si pensò inizialmente ad un grosso temporale tipico della stagione, però, i continui bagliori in cielo, la valle che tremava, il vento che spirava molto forte e senza alcuna interruzione portando con sè uno strano odore di terra, fecero presto pensare al peggio. Qualcuno intuì che non si trattava di un temporale, ma che era accaduto qualcosa di grave alla diga. Quando questa consapevolezza si realizzò fu panico.

Si cercò di scappare ma il tempo di riflettere fu talmente poco che non si sapeva chi salvare, nè esattamente dove andare a rifugiarsi: nessuno fu in grado di prevedere l'entità del disastro che stava per verificarsi. Il vento intanto continuava ad imperversare in modo sempre più violento. Fu proprio questo, in realtà, a causare il maggior numero di vittime. La violenza dell'aria compressa dall'onda e spinta attraverso la gola verso la valle fu, in seguito, paragonata a quella sprigionata dalla violenza dell'aria causata dalla deflagrazione di due bombe atomiche.

Una volta abbattutasi sulla valle di Longarone, l'onda sollevò tutto ciò che incontrò: case, auto, alberi, animali e persone quindi, guadagnando il letto del Piave, si divise nuovamente in due parti: metà risalì il fiume controcorrente per ben 2 chilometri, l'altra metà seguì la direzione della corrente verso il mare, con onde ancora alte 12 metri. L'onda che era risalita controcorrente dopo 15 minuti ritornò sui suoi passi e, nell'attraversare l'oramai distrutto territorio ove prima c'era Longarone, spianò il terreno e creò la pietraia lunare che fu il terribile panorama del giorno seguente. Entrambe le onde danneggiarono e fecero vittime nei luoghi che raggiunsero. L'acqua quindi, spazzando via ciò che l'aria aveva distrutto, provocò complessivamente quasi 2000 vittime. "La storia del 'grande Vajont', durata vent'anni, si concluse in tre minuti di apocalisse, con l'olocausto di 2000 vittime".

2 - I PROTAGONISTI DELLA "MEMORIA" DEL VAJONT

Cap. 1.2

Fatta 'a mano' con un Apple Macintosh