Barbaramente e vilmente trucidati per leggerezza e cupidigia umana, attendono invano giustizia per l'infame colpa. Eccidio premeditato
LONGARONE - I morti furono 1910, la vittima più giovane, Claudio, aveva 21 giorni.
Nessuno, dirà un testimone oculare come ricorda Lucia Vastano nel suo libro «Vajont, l'onda lunga», è mai riuscito a lasciarsi quella notte alle spalle. Una notte di 42 anni fa, il 9 ottobre del 1963: data di una catastrofe senza eguali e che s'impone alla memoria ora che - rientrati da più remoti orizzonti - ci stiamo avventurando nelle guerre dell'acqua di casa nostra.

Una guerra - quella del Vajont - che non si è conclusa con la sepoltura dei cadaveri ma continua tuttora: perché centinaia di morti e superstiti non furono mai risarciti, perché le responsabilità delle aziende nella costruzione della diga non furono mai completamente accertate e punite, perché la pioggia di miliardi destinati alle famiglie delle vittime venne sperperata e utilizzata con «criminale disinvoltura» per altri obiettivi, facendo della tragedia un gigantesco business. Ripercorrendo ora le vie (asfaltate) di Longarone e delle minuscole frazioni travolte dall'onda lunga (Pirago, Rivalta, Villanova, Faè) oltre che i sentieri dei comuni di Erto e Casso alti sulla roccia, ti senti investito dai rigurgiti di una polemica che negli anni non ha perso nulla dell'originale incandescenza. È un fatto che a ogni angolo, sulle piazzette o nei vicoli come al bar trovi sempre qualcuno pronto a sfogarsi, a snocciolare in un crescendo rossiniano ricordi, rimpianti, accuse-ammonimenti, insulti, minacce.

Una curva lungo la strada che da Longarone sale verso Erto e il Friuli è il miglior «osservatorio» per rivivere la sciagura: siamo alle spalle della diga che non è riuscita a contenere, quella notte, la valanga d'acqua provocata dalla frana del Monte Toc nel bacino artificiale del Vajont. È la balconata dei turisti.
Un chiosco serve tè, caffè, vin brulé. Trovi sempre uno del posto che racconta la propria odissea. Questa volta tocca a Giuseppe Vazza, 'Bepi' da questi parti, che ha passato i settanta: «Eravamo al bar Bezza - ricorda - , come tutte le sere. Si giocava a carte, c'era la partita Glasgow-Real Madrid... Quando sono uscito dall'osteria per tornare a casa, un ciclone d'acqua e di vento mi ha scaraventato non so dove come un pezzo di legno. Longarone non e'era più, solo nebbia. Ho perso la mamma, il nonno, gli zii, i cugini, quindici persone in tutto. Il papà morì due anni dopo, di crepacuore». Ma per Bepi, come per tanti altri, «il peggio è venuto dopo».
«E quando dico 'il peggio' - lamenta - mi riferisco al malgoverno delle autorità locali, provinciali e regionali e anche ai politici di Roma che non hanno fatto nulla. Anzi, hanno agito ai danni dei superstiti. Ognuno doveva arrangiarsi da solo. Io avevo un negozio di macelleria e non è stato facile, nelle circostanze, ripristinare la licenza: come se essere sopravvissuti fosse una colpa. Ci fu una pioggia di soldi, che però finivano spesso nelle tasche di chi non aveva subito alcun danno. Per riprendere l'attività occorreva firmare una transazione e, nella vertenza, chi ci guadagnava erano gli avvocati: si son beccati 15 milioni per il mio risarcimento (48 milioni) e per quello di mia sorella (32 milioni)».

Non meno angosciosa l'esperienza vissuta da Vincenzo («Cencio» per gli amici) Teza e da sua moglie Carolina, anche se il tempo è riuscito a mitigare in parte l'amarezza dei ricordi. È l'ora di cena e nella sua casetta di Pirago, Cencio, piuttosto massiccio e laconico, stappa una bottiglia di buon vino che forse gli renderà meno penosa la rievocazione di quei giorni. Per fortuna c'è Carolina che gli fa da spalla e riduce ai minimo i suoi interventi. Tornato dalla Germania dov'era emigrato per lavoro, Vincenzo si ritrova solo, completamente solo: «Aveva 21 anni - racconta la moglie -, l'acqua gli aveva spazzato via e sepolto l'intera famiglia: il padre, la madre, la nonna, più i tre fratelli e la sorellina. Si mise a cercarne i corpi lungo il fiume e li trovò tutti, uno dopo l'altro, straziati dalla corrente. Riuscì a seppellirli prima di tornare in Germania a lavorare». Esperienza che lo ha segnato per la vita (insonnia, incubi, incapacità di comunicare, chiuso a riccio com'era dentro se stesso) e non sorprende che per anni non abbia più voluto parlare del Vajont e della sua disgrazia: anche perché angustiato e offeso dal trattamento riservato ai superstiti dalle autorità. Essendo venuta a mancare un'indagine che stabilisse la diretta responsabilità dello Stato e degli enti Sade-Enel per la costruzione della diga, Cencio e i suoi compagni di sventura hanno avuto come risarcimento uno sputo in faccia: «A voi superstiti - fu detto loro brutalmente - non spetta niente!».

Secondo la graduatoria dei risarcimenti, erano previsti un milione e mezzo (delle vecchie lire) per i genitori e 800 mila lire per i fratelli. Ma per chi avesse perso il nonno o la nonna non toccava nulla, grazie ad un cavillo legale escogitato da un gruppo di esperti di cui faceva parte anche l'avvocato Giovanni Leone (il futuro Presidente della Repubblica) che militava nel collegio di difesa della controparte (SADE/Enel).

Vincenzo Teza dovette 'contentarsi', per i suoi sette morti, di poco più di 6 milioni. Ma non fu certo questo inadeguato trattamento economico a invelenirgli il sangue e a provocare in lui un senso profondo d'indignazione quando sbottò nella famosa (e mai negata) invettiva: «Mi vergogno di essere italiano». Erano altre le cose che facevano incazzare Cencio: «Come quando - interviene Carolina - gli avevano chiesto da dove venisse e lui aveva risposto... «da Longarone». Per sentirsi dire da quei farabutti: "Beati voi che vi siete arricchiti coi vostri morti. Con le tasche piene, si piange meglio"».

Cinismo e avidità che si manifestano altrettanto spudoratamente quando il flusso illimitato del denaro da ogni parte del mondo giunge a destinazione per essere equamente distribuito con criteri d'emergenza. In Italia si fanno gare di solidarietà per raccogliere fondi destinati al Vajont. La Rai, il Corriere della Sera, altri giomali ed enti finanziari spediscono a Longarone somme ingenti, centinaia di miliardi. Il quotidiano l'Unità, su cui spiccano i drammatici resoconti della sua corrispondente Tina Merlin (che avrebbe poi scritto un libro - Sulla pelle viva - sull'argomento) raccoglie da sola 965 milioni. Ma a tutt'oggi nessuno sembra aver scoperto che fine abbiano fatto quei soldi, destinati ai superstiti e, soprattutto, agli orfanelli. In parte avrebbero dovuto anche finanziare le operazioni di ricerca di 451 vittime, mai ritrovate. In quel periodo, alcune aziende private hanno visto una fioritura extrastagionale dei propri affari. Nel nome del Vajont.

La mattina dopo, la notizia dell'apocalisse del Longarone ha già fatto il giro del mondo, ma i media italiani si muovono lentamente, con circospezione, cautela, anche se già emergono i primi sospetti sulle responsabilità dell'uomo, cioè dello Stato. Al contrario, la tesi ufflciale, granitica e inattaccabile nei primi giorni, è quella di una catastrofe naturale, imprevedibile. La sostiene a denti stretti la Dc, che nel suo settimanale, "La Discussione", attribuisce praticamente la tragedia alla volontà (imperscrutabile) di Dio. Quanto vi si legge, nell'incipit dell'articolo, è raggelante: «Perché sono morti? Quella notte nella Valle del Vajont si è compiuto un misterioso disegno d'amore».
Cosa mai avevano fatto le 1910 vittime per meritarsi tanta... benevolenza?

Ma anche le grandi testate e le grandi firme - Montanelli, Buzzati, Bocca - sottoscrivono la certezza dell'estraneità dell'uomo alla sciagura, anche se nell'«ambiente» qualcuno insinuava con insistenza che gli esperti della Sade-Enel «sapevano benissimo che la montagna (il Monte Toc, che precipitò nel lago dietro la diga, ndr.) stava per crollare».
Dino Buzzati, che più di ogni altro, essendo di Belluno, soffriva per lo sconquasso subito dal paesaggio della sua infanzia montanara, scrive che «la diga del Vajont era un capolavoro perfino dal lato estetico» e che «tutto era stato calcolato alla perfezione». Ma in qualche modo l'uomo aveva modificato la Natura e la "Natura Crudele" «si è vendicata».

Per Giorgio Bocca, questa era «una sciagura pulita», in cui «nessuno ha colpa e nessuno poteva prevedere»; quanto a Indro Montanelli, non v'era dubbio che la strage degli innocenti di Longarone dovesse essere addebitata esclusivamente a «cause naturali». Nel rogo della congettura la Dc imbratta i muri di manifesti che mettono sotto accusa il PC e definiscono «sciacalli» i comunisti, responsabili di una «spregevole speculazione politica» sulla sciagura del Vajont.
«Se proprio devo dire la mia - è Carolina che parla questa volta, con l'aria di voler buttare nel cestino ogni vecchia polemica - , non ho nessuna stima per la stampa, che ci ha anche definiti "parassiti dello Stato". Mai visto un giornalista, in quei giorni, che venisse a chiederci come stavano effettivamente le cose. Basta. Lasciamo perdere. Voltiamo pagina».

Cimitero Fortogna, 2005. Foto di IFF - Inutile visitare il cimitero nuovo di Fortogna (nella foto, n.d. Tiziano. Cliccala), inaugurato un anno e mezzo fa, allo scopo di ricostruire attraverso la successione delle tombe l'itinerario della sofferenza e il martirio finale del Vajont: poiché, a differenza del vecchio camposanto con le foto ingiallite dei defunti su lapidi e croci sbilenche, ci sono ora 1910 cippi bianchi di marmo, tutti uguali e anonimi che fanno pensare ai cimiteri di guerra. «Sui cippi - spiega Giovanni Danielis, consigliere comunale di Longarone, che mi accompagna nel pellegrinaggio tra i morti - ci sono i nomi di tutte le vittime, anche di quelle che risultarono disperse e i cui cadaveri non furono mai trovati. È comprensibile il disagio di molti davanti a questo camposanto geometrico, quasi teutonico... ma quello vecchio era allo sfascio, senza possibilità di restauro. Comunque, il progetto per quello nuovo è stato approvato dopo molte sedute, cui è intervenuta la cittadinanza. E certamente esagera chi ci accusa di aver fatto uno scempio».

È un fatto - sento dire - che la gente del luogo ha diradato le visite al cimitero. Forse ha un senso la spiegazione di Carolina quando afferma che, rimuovendo le vecchie lapidi dalle fosse in cui nell'ottobre del '63 vennero affannosamente interrati i corpi smembrati delle vittime (due teste nella stessa cassa, quattro braccia in un'altra, non era facile ricomporre i cadaveri) per evitare il rischio delle epidemie, «hanno distrutto la memoria». Ci vollero quattro giorni - informano le cronache del tempo - per mettere sottoterra Longarone.

Consci del disagio di gran parte della comunità, le autorità locali si sono impegnate a ridefinire la fisionomia del nuovo cimitero, risistemando, dove possibile, i «simboli» di quello vecchio: un compito non facile.
Eloquente, a proposito, l'aneddoto riferito dai giornali secondo cui il sindaco del paese, trovandosi di fronte una persona che cercava la tomba dei suoi cari per deporvi un mazzo di fiori, le avrebbe detto, con poca grazia: «Ma questi non sono più i vostri morti. Sono i morti di Longarone».
Cioè, patrimonio comune: da piangere soltanto nelle ricorrenze ufficiali.
Certo, nessuno potrà mai illudersi di veder ricomparire nel camposanto-giardino-parco delle rimembranze di Fortogna una pietra tombale del vecchio cimitero su cui era stata incisa un'invettiva feroce: «Barbaramente e vilmente trucidati per leggerezza e cupidigia umana - diceva - , attendono invano giustizia per l'infame colpa. ECCIDIO PREMEDITATO». L'aveva fatta scrivere Luigino Paiola, in memoria dei suoi cari: la moglie Giovanna, i figli Gianni, Maurizio e Roberto, di sette, sei e quattro anni, tutti spazzati via dall'acqua, tutti morti. Questo marito senza più una moglie, questo padre senza più figli aveva fatto scolpire sul marmo la certezza che il Vajont non era stato «una tragedia della natura» e che era stato l'uomo (per leggerezza e cupidigia, appunto) a provocarla: certezza e convinzione che l'attore e scrittore Marco Paolini farà sue nel '97 con lo straziante monologo dell'«Orazione civile».
Luigino, morto a 60 anni (di dolore e tumore), ebbe dei guai per quell'accusa impressa indelebilmente sulla pietra, ma l'insistenza di allora del magistrato, perché la togliesse magari a favore di un più pacifico «riposino in pace», non approdò a nulla. Anzi, rincarò Luigino, «chi la tocca è un uomo morto».

Barbaramente e vilmente trucidati per leggerezza e cupidigia umana, attendono invano giustizia per l'infame colpa. Eccidio premeditato


Tiziano

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