PIER LUIGI CERVELLATI

IDENTITA' PERDUTA E ASSENZA DELL'URBANISTICA

1. IL TERRITORIO OSSERVATO E DISEGNATO DAL GENERALE VON ZACH

Nelle descrizioni che accompagnano le carte militari, Kriegskarte (1798-1805)1, «Longaron»2 (figura 1 inserto) è così rappresentata:
Kriegskarte (1798-1805)
«una parrocchia grande e sparsa sulla Piave, attraverso la quale passa la strada principale da Belluno verso Tirolo. Gli abitanti sono perlopiù poveri ed emigrano, perché i loro pochi prodotti non sono sufficienti per il loro sostentamento». Segue il censimento vero e proprio: «169 case, 13 religiosi, 2 nobili, 2 funzionari, 14 notabili, 2.198 popolazione rimanente, 100 capi di bestiame e 27 animali da soma». La «grande» parrocchia comprende: «Pirago, Igne, Soffranco, Fortogna, Dogna, Provagna, Sovèrzene, Rivalta, Roya [Roggia]». Dista da Belluno «4 ore», «1/2 ora» da Castello. Nella carta sono visibili anche Erto e Casso («questi due villaggi - specifica il testo - appartengono al Friuli e sono sottoposti a Udine»).

La ricognizione cartografica del «ducato», di particolare precisione e raffinatezza grafica, è la prima mappa di un territorio vasto a essere redatta mediante triangolazioni fatte con strumenti tecnici. La Kriegskarte costituisce una matrice/supporto per tutta la cartografia successiva. La scala è di 1:28.800. Le successive carte militari italiane di maggior diffusione, quelle dell'Istituto geografico militare (IGM), saranno in scala 1:50.000 e 1:25.000. L'alveo dilatato del Piave domina l'orografia dei monti formando uno slargo su cui è inserito a un livello appena più alto (e subito a ridosso del monte) l'insediamento di Longarone. La chiesa, rigorosamente rivolta verso levante, è al centro. Una piazza-sagrato allarga la strada su cui prospettano le case. La grafìa della tavola, un'incisione, evidenzia la natura aspra e arida, di questo territorio. L'acqua scava, modella, conforma la terra in un lavorì o millenario di piene e di secca. Longarone è ai margini dell'alveo. Sicuramente sarà stata sfiorata, per non dire allagata, in qualche piena secolare. Il Vajont è un torrente a nord-est che si forma con vari affluenti sulle montagne dalle parti di Erto. Incide e taglia (o meglio, spacca) la montagna, il monte Toc, definendo una gola profonda nell'avvicinarsi allo sbocco a destra Piave quasi dirimpetto a Longarone e Rivalta.

IL VAJONT DOPO IL VAJONT - 1963/2000
Povera e anonima, è Longarone. I militari le dedicano poche righe. L'attenzione è rivolta più a Castello. «Esso anticamente si chiamava Labatium oppure Castrum Labatii [...]. L'attraversa la strada principale o Canal Regio, che conduce da Venezia e da Treviso in Tirolo, ed era anticamente molto frequentata come la più breve». Antica ma anch'essa povera. «La campagna dà sostentamento a malapena per 3 mesi all'anno, per cui gli abitanti annualmente devono sostenersi altrove». Povera gente in povere contrade. A Ospitale, ad esempio, le stesse note informano che «le abitazioni sono pessime, basse e costruite senza camino». Gli austro-ungarici militari, guidati dal generale von Zach4, nel descrivere strade e villaggi, parrocchie e stalle, nel censire abitanti e bestie, misurando potenzialità di transito e di accampamento, spesso si lasciano incantare dalla bellezza, intesa romanticamente quale bizzarria («orrido») naturale. Ma anche dall'opera, dall'ingegno, dell'uomo. «Notevole, vicinissima a questa località, [Ospitale] è la cascata di Val Buona, sopra la quale si trova un ponte ad arco in legno».

La strada principale - dal Tirolo verso il Veneziano - è descritta in modo accurato.

"Da Castello di Garzona - dove attraversa una porta - la strada procede alquanto in piano, ma sassosa, attraverso la Val Rui, dove si trova un piccolo ponte; dopo, tra 2 spaccature rocciose, attraversa Castello, da dove continua in piano verso Longaron, attraverso Crusta e Roja. Questa strada però è sempre stretta e raramente possono scansarsi 2 carri grandi. Da Longaron essa procede sul lato destro attraverso un pendio, mentre sul lato sinistro è racchiusa da un muro ad arco ovale, attraversa Pirago, da dove continua in giù verso la sponda sinistra del Maè , tra erti precipizi nei pressi di Capitello Santa Madonna fino al Capitello San Francesco, dove giunge la strada di Zoldo."
La carta deve servire per le strategie militari, di conquista e di difesa.
Le descrizioni e le informazioni per i militari, per operazioni di guerra, spostamenti di truppe, tattiche difensIVe e/o offensIVe, ci consentono di leggere queste carte oltre il loro significato logistico. Emergono, al di là dei segni fisici e geomorfologici, gli aspetti sociali, definiscono meglio di qualsiasi altro documento l'identità di un luogo. Costituiscono l'indispensabile avvio alla lettura delle metamorfosi di un territorio quasi arcaico, con mutamenti lentissimi che oltrepassavano il ricordo dei singoli abitanti. «Le cartografie militari servono - afferma Massimo Rossi5 - per fare la guerra, ma allo stesso tempo sono una 'imago mundi' del loro tempo storico».

Non troppo inquietante deve essere stata la presenza dell'esercito austriaco.
Sono anni di crisi anche per chi non è costretto a emigrare e a ritornare povero com'era partito. Vite austere come le loro montagne. Ma non isolate. Per quanto impervie fossero le strade, a volte impraticabili perché «la pioggia continuata causa grandi distruzioni», il rapporto con l'altro, con lo «straniero» avveniva molte volte nel corso della loro vita. L'austerità - è stato detto porta a una riflessione profonda. Sollecita un'identità precisa, forte. Guardando le carte di von Zach, leggendo le note descrittive, sembra quasi che la natura si identifichi con gli abitanti. O viceversa. In un rapporto fra uguali prIVo di fatalità o di trionfalismi. Chi vIVeva in queste montagne (come chi abitava gli sterili calanchi dell'Appennino), non riusciva a distaccarsi dal luogo. Non poteva non allontanarsi per sopravvivere e, a un tempo, non riusciva a starsene lontano. Il luogo era parte integrante di chi ci vIVeva. Un rapporto di lunga durata. Se gli estensori austriaci della prima geodetica carta militare individuavano ancora i segni di un passato remoto, un secolo dopo i rilevatori italiani potevano constatare come il territorio del primo rilievo rimanesse quasi immutato.

2. NUOVI SGUARDI MILITARESCHI

La prima levata dello IGM da prendere in considerazione è quella del 1910 in scala 1:25.0006 (figura 1). La precedente del 1878 è troppo simile alla carta austro-ungarica di metà Ottocento che a sua volta deriva da quella di von Zach. Longarone ha una maggiore consistenza.
È sempre il paese attraversato dall'antica strada, ma il guado verso est assume un rilievo maggiore, quasi a formare un punto di convergenza anche da est: meglio rappresentate sono le mulattiere per raggiungere Erto (la strada però per Erto e ancora quella che fa capo a Cimolais). Verso est, sull'altra sponda del Piave, c'è una «cartoneria», una fabbrica di cartoni. È un fabbricato imponente. È una «levata» (rilevazione), questa del 1910, che ingigantisce le strade e appiattisce i rilievi. Però la parte da est è meglio rappresentata. Precisa è la delimitazione della zona «la Pineta» sotto Erto e sotto i «Mulini delle Spesse». Precisa, come la carta di inizio Ottocento: c'è anche la sorgente «l'Acqua Benedetta».

Il Vajont sembra circondare il monte Certén. La pineta sembra quasi una penisola, cinta com'è dai torrenti Vajont e Mesazzo. È una carta rigorosa. Emergono soprattutto le strade; le curve di livello hanno un segno sottile. Il cartografo non restituisce completamente l'immagine del territorio. Le «barbe» come le definiscono gli esperti di stampe, che nel von Zach disegnano ogni dislivello - rendendo l'immagine quasi tridimensionale - qui rappresentano solo gli strapiombi, i dirupi, le gole. Nell'aggiornamento del 1948, sempre in scala 1:25.000 7 (figura 2), modesti sono i cambiamenti grafici. Modesti come le trasformazioni avvenute. Spiccano solo i segni che illustrano la cosiddetta «infrastrutturazione» del territorio. Strade, tante nuove strade, linee ferroviarie, ponti. Ecco la strada che unisce Longarone a Erto. Opera di regime, senz'altro. Opera qualificata, importante. E spia dell'interscambio fra le varie comunità. Rileva un piu rapido collegamento con la «bassa». La montagna è sempre quella. Gli insediamenti sono pressoché analoghi. All'esercito interessa mostrare la permeabilità della montagna, l'andamento delle strade. La loro pendenza. I sovra e sottopassi. Decuplicate rispetto alla reale larghezza, sembrano ancora più consistenti, non sono più mulattiere. La seconda guerra mondiale è da poco finita. Il cambiamento dei mezzi militari è profondo. Le esigenze della motorizzazione militare sono ormai analoghe alle civili. I cartografi si adeguano. I superiori graduati che li dirigono non descrivono più usi e costumi, economia e modi di vivere degli abitanti. Il censimento della popolazione sarà ripristinato fra pochi anni. Dalla scarsa crescita delle case e dal rilievo dato alle fabbriche - i fabbricati della «cartoneria» sono quasi triplicati - si può dedurre che è rimasto un territorio povero. L'industria permette meno spostamenti e le strade consentono tempi rapidi e un allargamento del territorio da cui attingere mano d'opera. Sappiamo tuttavia che gli abitanti emigrano, continuano a emigrare. Non più stagionalmente: non ritornano nei mesi caldi come facevano al tempo del ducato o dell'impero austro-ungarico.

3. DOPO LA CATASTROFE INNATURALE

Nello sguardo all'ultima cartografia IGM - ancora in scala 1:25.000 8 - (figura 3), attualmente in vendita, se non fosse per il colore azzurro, il Piave non emergerebbe. Il suo alveo si è rimpicciolito. È incorniciato, occupato, da un groviglio di nuove strade. Da una parte e dall'altra. Persino dentro l'alveo. Nord-sud e est-ovest. Il Vajont muore sotto la diga (disegnata come appare nella foto aerea scattata nello stesso periodo a 5.000 metri di altezza). Poi un segno tratteggiato, che sta a indicare che il torrente è stato interrato: dalla diga porta al «Lago del Vaiont». Un lago dalle rive frastagliate quasi a sottolineare la sua artificialità. Il colore verde pallido dei boschi e il marroncino delle curve di livello elimina il senso di «aspro» che fornivano le carte ottocentesche. Nessun dramma traspare da questa carta. Risale a un aggiornamento del 1966. Tre anni dopo la catastrofe.

Ha ragione Franco Farinelli10. Le carte non rappresentano il mondo. Tanto meno lo fanno le cartografie più recenti computerizzate. Chi fa il mio mestiere, tuttavia non può ignorarle. Deve saperle leggere, confrontarle con quelle storiche. Solo così si può comprendere la metamorfosi di un territorio. Pier Paolo Pasolini avrebbe detto la sua «omologazione». Il territorio tutto omogeneo, appiattito da strade e autostrade. Specie per quanto concerne lo stravolgimento di ciò che un tempo era considerato componente qualificante, «identitaria» del luogo stesso. La tragedia è bandì ta. Lo è già nella carta del 1966. Ci vorranno quasi trent'anni prima che la parola, il racconto di Marco Paolini11, catturi di nuovo la nostra attenzione. Eppure Longarone è forse a tutt'oggi, l'unica città «rifondata» dalla Repubblica italiana. È una nuova città e non una ricostruzione sulle rovine della vecchia spazzata via dall'insipienza e dall'ingordigia umana.

4. LA FINE COME PRINCIPIO

«Nella mia fine, il mio principio», non è solo un caposaldo religioso. Nella Bibbia, non poche sono le città distrutte per sempre. In Italia, invece, la stratificazione è millenaria.

Mi sono sempre chiesto perché Longarone, la nuova Longarone, non sia (e non sia stata) oggetto di studi e di ricerche nonostante la quantità di studenti e di docenti che da questo territorio sono andati lì e formati in quella famosa «facoltà » di architettura veneziana che l'ha progettata. Perché nei tanti agiografici studi sui cinquant'anni di urbanistica in Italia o sugli stessi urbanisti italiani Longarone è appena citata? Perché anche le tesi di laurea che trattano l'argomento sono povere, superficiali, a volte sfiorano il pettegolezzo? Troppo piccola, rispetto ai grandi quartieri che negli stessi anni venivano costruiti nelle periferie urbane delle città italiane?

Longarone non ha mai superato i 5.000 abitanti. Non per questo la sua struttura, la sua forma urbana, può essere ignorata rispetto a quartieri più o meno coevi che sono stati e sono tuttora analizzati, studiati, criticati. Nella pur vasta biografia delle opere di Giuseppe Samonà, Longarone è quasi ignorata. Samonà, certo, è un padre - se così si può dire - putativo. Un padre vero non c'è. Non si dia però la colpa ai superstiti di aver tarpato la creatività, di aver sterilizzato i due architetti, Gianni Avon e Francesco Tentori, che l'hanno disegnata. Il palermitano professor Samonà, quando nel 1964 è incaricato di redigere un piano urbanistico per la rinascita dell'insediamento, è all'apice della notorietà. Lo affianca, con altri, un giovane ed esperto economista trentino, il professor Beniamino (Nino) Andreatta. Samonà arruola i migliori laureati di Venezia, coloro che ritiene predestinati a essere le punte di diamante dell'architettura italiana: Costantino Dardi, Valeriano Pastor, Gianugo Polesello, Luciano Semerari, nessuno di loro è urbanista. Sono tutti architetti, progettisti. Neppure Samonà è urbanista. Dirige da diciotto anni lo IUAV (Istituto universitario di architettura di Venezia). Lo IUAV è considerato sede italiana della migliore facoltà di architettura. Luigi Piccinato, il docente di urbanista di gran nome, si è da poco trasferito a Roma. Piccinato è stato progettista di città di fondazione. Ha redatto e sta redigendo i piani delle maggiori città italiane. A Venezia insegnano urbanistica altri due noti cattedratici: Giovanni Astengo e Giancarlo De Carlo. Hanno princìpi e metodi opposti, rappresentano comunque il meglio della cultura urbanistica europea.

Come si è detto, ad Avon e a Tentori che attraverso metodi di analisi e ricerca locale, quali sondaggi casa per casa, riescono a proporre un insediamento né nuovo né vecchio, quasi tradizionale, frammentando i blocchi ipotizzati da Samonà in edifici più piccoli quali case a schiera e mantenendo un profilo pseudostorico nei punti più significativi come in via Roma. Del piano 'di area vasta' non rimane traccia.

In genere nei resoconti sull'urbanistica italiana del secondo dopoguerra la voce «Longarone» e così sintetizzata: Piano urbanistico comprensoriale del Vajont (con Giuseppe Samonà, e Massimo Tessari, 1964-1965) e piani attuativi di ricostruzione e/o trasferimento degli abitanti di Longarone (BL), Castellavazzo (BL), Erto e Casso, in loco e a sud di Maniago (PN) (con Giuseppe Samonà, Costantino Dardi, Valeriano Pastor, Gianugo Polesello, Luciano Semerani e Massimo Tessari, 1964).

La realtà e più complessa. Samonà e all'apice degli onori. Ha fatto dello IUAV un luogo di riferimento della cultura architettonica europea. Palermitano nato nel 1898 ha fatto di Venezia il «porto franco» dell'architettura e dell'urbanistica italiana. È riuscito a dribblare l'accademia romana. Raccoglie attorno a sè quelli che Roma respinge, coloro che non si identificano con il razionalismo di matrice piacentiniana. Quando si occupa di Longarone ha 66 anni, è celebre come «preside»/«rettore» più che come architetto/urbanista. I giovani studenti appena laureati di cui si circonda, non amano l'urbanistica. Si sentono creativi, architetti, in una parola, progettisti eredi della modernità. Negli stessi anni in cui si occupa di Longarone, Samonà con l'aiuto della fedelissima Egle Trincanato, sta ultimando proprio di fronte alla stazione di Venezia il palazzo dell'INPS. Non è un capolavoro. Non appartiene a quei rarissimi casi presi a modello di inserimento di architettura moderna nella città storica. Lo sarà invece la quasi coeva «casa alle Zattere» di Ignazio Gardella, altro docente della facoltà .

Come urbanista l'intuito, l'idea, la percezione di uno scenario urbano o territoriale diverso, spesso in anticipo con i tempi - come quando giovanissimo progetta la «palizzata» a Messina - non sono sufficienti a superare le brillanti prestazioni internazionali di Luigi Piccinato, i rigorosi piani di Giovanni Astengo o le ibride soluzioni di Giancarlo De Carlo. Tutti professori IUAV chiamati da Samonà. Sono professionisti, in genere, respinti dalla facoltà di Roma o dal politecnico milanese. Docenti che rendono prestigioso lo IUAV. Per gli allievi sono loro i maestri da seguire. Samonà invece, con uno dei suoi trasversali ribaltamenti li fa sentire maestri. Affida loro Longarone. Affianca loro altri maestri non appartenenti alla facoltà - come Michelucci - quasi a conferire ulteriore prestigio agli stessi giovani architetti. Loro lo abbandoneranno presto. Le contestazioni stanno iniziando anche a Venezia e sfoceranno nelle occupazioni di fine decennio. Presto Samonà lascera lo IUAV: lentamente sostituito da quei giovani che aveva fatto crescere che è difficile considerare suoi eredi. Manca in loro la visione territoriale. Sono i paladini (iniziando da Longarone) di una sterile quanto provinciale creatività fatta di international style e superficiali localismi. Addirittura naif quando scimmiottano l'architettura - ovunque pubblicizzata in quegli anni - di Oscar Niemeyer a Brasilia. Determinano l'avvio con Longarone di quella omologazione urbanistica ed edilizia che continua a manifestarsi in quasi tutta Italia.

Lo scarto fra lo scenario progettuale ipotizzato da Samonà e l'assetto attuale può essere immediatamente percepito confrontando la carta di von Zach con la CTR (Carta tecnica regionale). Della prima si è detto all'inizio. La seconda è muta. Muta come tutte le CTR, digitalizzate o meno, montate in raffinati SIT - Sistemi informativi territoriali - ovvero tradotte in orto-foto-piani o altri sistemi informatici, tipo GIS. Muta, per l'astrattezza dei segni, per l'omologazione delle informazioni, per la sterilizzazione dei dati. Muta per Pomogeneizzazione delle forme.

6. ALLA RICERCA DELL'IDENTITA' PERDUTA

Confusa è ancora la questione di luogo scambiato come spazio. Spazio deriva dalla parola greca «stadio» che significa misura. Luogo invece è una superficie terrestre che non ha equIValenti in nessuna altra parte16. Gli strumenti urbanistici elaborati sinora hanno teso a costruire uno spazio ma spesso sono riusciti a conservare il luogo. Lo spazio è un'entità astratta variamente (soggettivamente) interpretabile. L'aggancio catastale e il conseguente allargamento culturale, descrivono un'effettiva quanto oggettiva valutazione della consistenza strutturale del territorio ma essa si rivela insufficiente quando affronta la problematica del futuro. Il compromesso fra mantenimento della compagine fisica del passato e l'adeguamento alle istanze «moderne» induce a sottovalutare o a scartare il significato, il carattere - l'identità, in una parola - del luogo.
Tende ad appannare la sua unicità. Lo banalizza. Occorre un superamento dell'attuale spazio cartografico. E, in particolare, occorre un approfondimento (e un convincimento) della non equIValenza del territorio, con qualsiasi altro «spazio».

Non solo nel Nord Est o in Italia sta mutando la fisionomia degli insediamenti urbani. Due fatti sono alla base di questa metamorfosi. La tipologia della casa. La rendita da mutuo. La villa - grande o piccola che sia - e il modello più diffuso dal Nord Est al Sud Ovest. In Italia l'80% delle case e di proprietà di chi le abita. Di questo 80%, il 15-20% è proprietario anche di un altra casa. Che affittata rende. Ma anche sfitta il suo valore cresce. Permette di accendere un mutuo comunque redditizio. Magari per comprare un'altra casa. L'investimento nella casa è diventato più vantaggioso rispetto a qualsiasi altro investimento. Villettopoli si forma così . Oggi il nuovo boom edilizio caratterizza il territorio. Fino a quando?

L'assetto del territorio, non più caratterizzato da città e campagna (come lo è stato fino al recente passato), impone un approccio pianificatorio consapevole della metamorfosi in essere. Impone strumenti pianificatori diversi. Nuovi, non solo nel confronto con quelli redatti negli ultimi trent'anni. Anche e soprattutto da quelli che si stanno redigendo adesso. E non solo nel nome. Rispetto a trenta/quaranta anni fa c'è un grave arretramento culturale. La presenza di un istituto di «cultura» qual'era l'INU di Adriano OlIVetti, e le ricerche pluridisciplinari su realtà antiche (dai Sassi di Matera alle città di nuova fondazione, alla localizzazione dei quartieri di edilizia popolare, nonché la conoscenza di ciò che avveniva nei Paesi del Nord Europa) consentirono di redigere e attuare piani esemplari quanto innovativi. Disattesi certo dai politici che in seguito diventeranno mallevadori dell'abusivismo edilizio.

Oggi ci si rifugia - come si fece e si continua a fare a Longarone - nell'arredo urbano o, potendolo, nella grande firma, nell'«archi star». O in qualche imitatore.
Abbiamo prodotto molta «periferia». Bisognerebbe individuare un processo pianificatorio (e programmatorio) teso a trasformare la periferia, che continua a espandersi, in «città ». In un «luogo» con la sua identità e specificità . Un luogo, dove la comunità nel riconoscersi, partecipa al suo cambiamento. Al suo evolversi.
Occorre ritornare a investire e a «capire» il territorio, come fece von Zach. Come fece Samonà. Si debbono valutare gli elementi fisici, formali e strutturali, tali da definire un impianto fisico, realmente «urbano», proprio perché ancorato a una terra vasta. Moderno e antico. Come è sempre stato il rapporto fra città e campagna. Una città che valorizzi la memoria del passato, di un passato ancora oggi espresso dal fiume, dalle montagne, da tutto il territorio, compreso i centri che lo compongono siano essi appartenenti al Veneto o al Friuli. Un insediamento tale da aprirsi al futuro. Comparando gli insediamenti storici e caratterizzanti con l'insieme dei luoghi naturali che circondano Longarone. Gli elementi, insomma, che la rendevano (e quelli che potrebbero riconvertiria nuovamente) «luogo». Considerando la pianificazione dell'assetto territoriale non un elenco di opere ma un metodo, una metodologia «progettuale» (nel senso di programma), dell'assetto fisico, mediante il coordinamento, la collaborazione, la partecipazione e l'interscambio con i cittadini e le altre discipline. Un processo pianificatorio integrato. Evitando inutili (e false) giaculatorie, quali «sostenibile», «compatibile», «equo» ed «eco-solidale».

Un processo le cui coordinate sono rappresentate dai caratteri e dall'identità, dal ruolo che la città e il territorio hanno avuto e di quello che potranno (o potrebbero) avere. Mi si dirà : ma tutto questo cosa c'entra con la città di Longarone. C'entra. Longarone ha perduto se stessa due volte. Nella tragedia e nella ricostruzione/fondazione. Da austera è diventata «ridente e cIVettuola» cittadina, come dicevano le guide turistiche di un tempo non troppo lontano. Tutte le periferie italiane sono simili. Nessuna ha una specifica identità. Un suo carattere. Tutta la città si è trasformata in area periferica. Ma prima era un luogo. E qui occorre soffermarsi per spiegare (approfondire) l'enorme differenza. Era area (magari anche centrale) e luogo. L'approccio progettuale consiste nell'individuare come questa periferia - un tempo campagna e paese, bosco e campo, casale, masseria e borgo, o l'una e l'altra cosa insieme - può ritornare a essere «luogo». Lo si ripete. La pianificazione deve saper indagare non tanto e non solo, sugli elementi (fisici e strutturali, naturali e costruiti) che caratterizzavano il luogo («gli assetti storici» e/o «naturali»), bensì quelli che potrebbero riconvertire l'area periferica in una città che non ha equIValenti con nessun'altra.
Perché ha una sua specifica fisionomia, un suo determinato carattere. Come l'aveva Longarone un tempo.

Detto in modo brutale: Longarone sarebbe diventata così com'è anche se non ci fosse stata la tragedia. Sarebbe rimasta chiusa in se stessa anche quando gli altri potevano integrarsi a lei. È lecito immaginare un terza rifondazione di questa città? Non è un esercizio accademico. Per comprendere il passato e l'occasione perduta, e verificare se ci può essere, se c'è una possibilità futura - senza catastrofe, ovviamente -, mantenendo ciò che già esiste, dobbiamo a parer mio porci questa domanda. Con un'ulteriore avvertenza, mutuata dal contributo di uno storico importante per le sue indagini sulla città antica: Jean-Pierre Vernant17.
È fondamentale - ci spiega - capire la «polarità» dello spazio umano e rapportaria al concetto di città. La «polarità» dello spazio umano è fatta di un «dentro» e di un «fuori». Questo dentro e l'esistente, rassicurante quanto stabile. Il «fuori» è aperto, mobile, inquietante. Viene subito in mente la città chiusa da mura, circondata dalla campagna, dall'ambiente naturale che spesso coincideva con l'infinito, con lo sconosciuto. Secondo il mito dell'antica Grecia, nel cuore delle dimore private e degli edifici pubblici sono accolti ospitati nutriti gli stranieri venuti da fuori. I forestieri. Venuti da lontano. Perché ci sia veramente un «dentro», sostiene Vernant, bisogna che possa aprirsi su un «fuori» per accoglierlo in sè.

Se ogni gruppo umano, ogni società, ogni cultura si pensasse e si vIVesse come la civiltà di cui si deve mantenere l'identità e assicurarne la permanenza contro le irruzioni dall'esterno e le pressioni interne, nondimeno ciascuna sarebbe confrontata al problema dell'alterità nella varietà delle sue forme. Per mantenere l'identità occorre aprirsi all'altro fino a ottenere quelle alterazioni che continuamente si producono nel corpo sociale attraverso il flusso delle generazioni che fanno posto ai necessari contatti, agli scambi, con «lo straniero» del quale nessuna città può fare a meno.

La propria identità non può né concepirsi né definirsi se non in rapporto all'altro. Alla molteplicità degli altri. Se l'identico resta chiuso in se stesso non c'è pensiero possibile. E quindi neppure civiltà possibile. L'interscambio libera forze rigeneratrici e ci rende più responsabili.

Ecco allora che le carte di von Zach, l'intuito pianificatorio di Samonà, il territorio, (soprattutto il territorio che una recente sentenza della Corte costituzionale equipara a paesaggio e ad ambiente) costituiscono il più pregnante contesto su cui operare nel prossimo futuro. Ovvero, se Longarone vuole ricostituire l'identità perduta (e giova ripeterlo, l'avrebbe perduta anche se la tragedia non ci fosse stata) deve aprirsi - come ha sempre fatto nell'ormai lontano passato - alla comunità che la circonda. Dovrebbe, a parer mio, non rinchiudersi in se stessa e guardarsi campanilisticamente l'ombelico consolandosi con la piacevolezza dell'arredo urbano. Dovrebbe proseguire con gli stessi princìpi che hanno formato il «percorso della memoria». Approfondendo la memoria fino ad arrivare a von Zach e oltre. Coinvolgendo i paesi di parte del territorio veneto e friulano terra sobria un tempo di migranti e di sfruttati. Rifuggendo dall'appiattimento dell'omologazione. I giovani sopravvissuti sono diventati vecchi come il paese. Vecchi ma non antichi come il territorio. E il territorio si sta invecchiando con usi moderni, addirittura considerati a tutt'oggi, vertici dell'«innovazione». Era quarantacinque anni - se non prima - risulteranno obsoleti. L'austera identità di questi luoghi rischia di trasformarsi in apparente opulenza. Il territorio che non sa mantenere l'identità - nel senso indicato da Vernant - rischia di annullarsi cioè di omologarsi.

La sfida è ardua. Non solo per Longarone. Specchio della migliore urbanistica italiana degli ultimi cinquant'anni. La peggiore, ahimè, nostante le apparenze e i belletti, non è poi tanto dissimile.

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1 Kriegskarte, 1798-1801). Il Ducato di Venezia nella carta di Anton von Zach / Das Herzogen Venedig auf der Karte Antons von Zach, a cura di Massimo Rossi, Fondazione Benetton studi ricerche - Grafiche Bernardi, Treviso - Pieve di Soligo 2005 (2 voll.: Descrizioni militari / Militarische Beschreibungen; carte allegate).

2 La rappresentazione cartografica di Longarone e le descrizioni si trovano nella carta Sezione/Section XIII.8, le cui redazioni vennero affidate al primo tenente Bostel.

3 Castellavazzo.

Massimo Rossi, L'officina della Kriegskarte. Anton von Zach e le cartografie degli stati veneti, 1796-1801), Fondazione Benetton studi ricerche - Grafiche V. Bernardi, Treviso - Pieve di Soligo 2007, pp. 114-117.

7 Ibidem.

6 IGM, Carta d'Italia 1:25.000, F.23 I NO Longarone; Id., F.23 I NE Cimolais, ed. 1912.

7 Ed. 1951.

8 Ed.1969.

9 Questa è la grafì a utilizzata nella carta IGM.

10 Franco Farinelli, Geografia. Un'introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003, e Id., L'invenzione della Terra, Sellerio, Palermo 2007.

11 Marco Paolini, Vajont 9 ottobre '63, Einaudi, Torino 1999.

12 Giuseppe Samonà, L'urbanistica e l'avvenire della città ne gli Stati europci, Laterza, Bari 1959. Il suo pensiero sulla forma urbana, e in particolare sul coinvolgimento del territorio quale prospettiva ineludibile, è di una chiarezza inequivocabile.

13 Gli anni dell'efficienza [dell'urbanistica italiana] furono gli anni dei disastri, dal Vajont all'alluvione di Firenze e del Veneto [...], della mareggiata di Venezia» (Marcello Fabbri, L'urbanistica italiana dal dopoguerra ad oggi. Storia, ideologie, immagini, De Donato, Bari 1983). Il piano di Longarone è ignorato in quasi tutte le pubblicazioni che fanno riferimento agli ultimi cinquant'anni di urbanistica in Italia. Nel libro Urbanisti italiani. Piccinato, Marconi, Samonà, Quaroni, De Carlo, Astengo, Campos Venuti, a cura di Paola Di Biagi e Patrizia Gabellini, Laterza, Roma-Bari 1992, poche righe sono dedicate al Vajont.
Samonà e considerato nel testo di Francesco Influssi un conciliatore tra tradizione e innovazione, una figura «divergente», «difficile da identificare».

14 Gli scritti di René Thom (in particolare Stabilità strutturale e morfogenesi. Saggio di teoria generate dei modelli, Einaudi, Torino 1980 [ed. originale 1972] sono interpretabili «filosoficamente» come parabola

15 Cfr. nota 12.

16 Farinelli, Geografia, cit.

17 Jean-Pierre Vernant, Senza frontiere: memoria, mito e politico, Raffaele Cortina Editore Milano 2005.