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La diga è ancora lì. Come il dolore
«Dov'eri l'11 settembre 2001? Come hai saputo delle Torri di New York? ». Da mesi in tutto il mondo non è raro sentirsi rivolgere queste domande. Tutti si ricordano bene dov'erano e cosa stavano facendo mentre crollavano le 'Twin Towers'. Ma noi ricordiamo bene anche cosa facevamo in un'altra data, molto più lontana nel tempo. Era il 10 ottobre 1963 e, il giorno prima, la tragedia del Vajont aveva causato quasi duemila morti. Quella mattina le maestre della scuola Montessori di Milano riunirono tutte le classi nella sala delle recite e ci raccontarono di quella valanga d'acqua che era piovuta su Longarone e altri paesi spazzando via tutto, anche la vita di molti bambini come noi. Non capimmo bene quello che era successo, ma forse ancora non lo avevano capito neanche gli adulti e alla domanda: «Ma ce l'abbiamo anche noi a Milano, una diga come quella del Vajont?» le "signorine" (così chiamavamo le maestre) risposero di no e tutti noi bambini tirammo un sospiro di sollievo.
Ricordate il Vajont? Il Vajont della "strage di Stato", così come lo hanno raccontato Marco Paolini - tre ore e mezza di monologo trasmesse dalla Rai - e Renzo Martinelli nel più recente film con tanto di effetti speciali? Che ne è stato di quei bambini che furono tirati fuori dal fango o di quei poveri emigranti che tornarono dalla Germania per cercare i corpi dei familiari trascinati via dall'acqua? Hanno avuto giustizia? Pochi si sono posti queste domande, come purtroppo spesso accade: passata la tragedia, la nostra attenzione scappa altrove e lascia le vittime sole a combattere per una giustizia che è anche un prezioso patrimonio di tutta la collettività. 40 ANNI DI SOLITUDINE
Non abbiamo mai sentito le loro voci. Molti di loro ancora non vogliono parlare di tutto ciò che è legato a quella notte e di tutto quello che li ha travolti dopo, impedendo di dimenticare. «Il dopo Vajont è stato ancora peggio della tragedia, perfino più scandaloso e doloroso per tutti noi superstiti» si sfogano in molti. La nostra storia puo' cominciare così: il dopo Vajont, per i superstiti, è stato ancora peggio della tragedia. Ce ne accorgiamo la sera del 9 ottobre 2001.
Comincia la conferenza stampa. Qualche dato tecnico sugli effetti speciali, qualche nota sui costi di produzione. Ma - interviene il regista - la serata è dedicata a quelli che non ci sono più e ai loro cari che portano
ancora nell'anima profonde cicatrici mai rimarginate. il risultato è che si parla poco del film e niente del processo. Qui tutti danno per scontato che i giornalisti presenti sappiano già bene come sono andate le cose.
Noi giornalisti rimaniamo a bocca aperta. «Sui superstiti sono state scritte solo bugie» dice Carolina Teza «Nessun giornalista è mai venuto da noi a farsi raccontare come sono andate le cose in questi anni. Nessun giornalista ha vigilato affinchè i morti e i vivi avessero giustizia. Il silenzio ha fatto e fa comodo a molti, tutti quelli che con il Vajont si sono arricchiti o hanno fatto carriera. Peccato sia tutta gente che nemmeno abitava qui, tutta gente che non ha perso niente. Perchè abbiamo dovuto aspettare quarant'anni e un film perchè la stampa nazionale si rifacesse vedere da queste parti?». MONTANELLI NON CI CREDE
Il 10 ottobre 1963 Longarone non esisteva più.
«Chi non conosceva la zona non poteva avere la percezione del disastro» racconta Bruno Ambrosi, allora un inviato della RAI TV. «Io arrivai in elicottero alle dieci del mattino in quella che a prima vista mi sembrava solo una pietraia lungo il greto del Piave. C'era solo qualche casa semidistrutta, poche tracce evidenti di quello che era appena successo. Una casa sventrata fa un effetto immediato, ma lì non c'era più nulla in piedi. Mi misi a camminare in quella spianata. A un certo punto vidi una specie di triangolo che spuntava dal fango. Mi avvicinai e così mi accorsi che era il braccio di un bimbo di cinque/sei anni. Il piccolo era morto. Cominciai a vagare in trance con quel corpicino in braccio finchè qualcuno mi disse di metterlo dove erano accatastati altri corpi: decine, centinaia. Allora ebbi la dimensione della catastrofe. Agli inizi degli anni Sessanta lo Stato era al di sopra di ogni sospetto e qualsiasi organo d'informazione che osasse avanzare dei dubbi sul suo operato veniva etichettato come sovversivo. Così era stata definita Tina Merlin, inviata dell'«Unità», che da anni denunciava i rischi della costruzione di quella diga e le vergognose speculazioni che c'erano dietro a quel progetto. I maggiori giornalisti italiani esclusero invece una responsabilità dello Stato e delle aziende pubbliche. Molti non rinnegarono nemmeno in seguito quella presa di posizione.
Tre anni fa, l'11 aprile 1999, rispondendo a un lettore che denunciava come la Sade-Enel sapesse benissimo che la montagna stava per crollare - tant'è vero che aveva fatto costruire un canale di comunicazione tra i due estremi della valle proprio nel caso si verificasse quel frangente - Indro Montanelli scrisse sul «Corriere della Sera»: «... La fermo e mi fermo - una volta per tutte - qui, per farle una confessione. Sì è vero, mi costa moltissimo; è anzi al di sopra dei miei mezzi immaginativi l'idea che un'impresa pubblica o privata che fosse volle costruire una diga sapendo che la montagna vi sarebbe precipitata sopra. Cosa vuole che le dica? Sarà colpa della povertà della mia fantasia. Ma non riesco a crederci...». "MISTERIOSO DISEGNO D'AMORE"
Ma Montanelli non fu l'unico. Tutte le grandi penne del tempo si mobilitarono per escludere le responsabilità dello Stato. «Come ricostruire ciò che è accaduto, la frana, lo schiantamento delle rupi, il crollo, la cateratta di macigni e di terra nel lago? E l'onda spaventosa, da cataclisma biblico, che è lievitata gonfiandosi come... Sì, come un immenso dorso di balena ha scavalcato il bordo della diga, è precipitata a picco giù nel burrone, avventurandosi, terrificante bolide di schiuma, verso i paesi addormentati. E il tonfo nel lago, il tremito della terra, lo scroscio dell'acqua impazzita, il frastuono della rovina totale, coro di boati, stridori, rimbombi, cigolii, urla, gemiti, rantoli, invocazioni, pianti? E il silenzio alla fine, quel funesto silenzio di quando l'irreparabile è compiuto, il silenzio stesso che c'è nelle tombe?Sempre l'11 ottobre, sulle pagine del «Giorno», Giorgio Bocca scrisse: «Cinque paesi, migliaia di persone, ieri c'erano, oggi sono terra e nessuno ha colpa; nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è stato fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. E ci vogliono queste sciagure per capirlo!».Qualche giorno dopo, il 19 ottobre, la Democrazia Cristiana fece affiggere in tutta Italia un manifesto su cui, a caratteri cubitali, compariva la scritta «SCIACALLI», e diffuse comunicati di questo tono: «Sulla sciagura del Vajont il Partito Comunista ha imbastito una spregevole speculazione politica» «I Comunisti inviano "agit-prop" per attizzare sotto le macerie il fuoco dell'odio e della sovversione. Additiamo al disprezzo del paese gli sciacalli comunisti». Il settimanale della Dc «La Discussione» scriveva: «Perchè sono morti? Quella notte nella valle del Vajont si è compiuto un misterioso disegno d'amore». Come dire: quello che è successo è stata la volontà di Dio. Fatevi il segno della croce e non pensateci più. Ma se i maggiori quotidiani italiani avevano ignorato gli articoli di Tina Merlin prima della tragedia e continuarono a ignorare i successivi, i giornali esteri («The New York Times», «The Times», «Le Monde», «The Herald Tribune») mandarono esperti e inviati per capire la meccanica della disgrazia, quali avvertimenti erano stati volutamente ignorati, quali leggerezze erano state commesse. DI NOTTE, AL CIMITERO Nei mesi successivi, i giornali italiani raccontarono le drammatiche storie dei sopravvissuti, lo strazio per le perdite subite. Ma, come cominciarono a delinearsi responsabilità dirette dello Stato e degli enti pubblici, l'atteggiamento nei loro riguardi si modificò. Le vittime diventarono relitti umani, sfaccendati che si erano arricchiti con i soldi della solidarietà. Si fece di tutto per togliere loro dignità, per convincerli che niente gli era dovuto perchè nessuno poteva essere ritemlto responsabile di una catastrofe naturale. Un po' alla volta si fece loro attorno il vuoto. Furono isolati, abbandonati al loro enorme dolore. Nel libro "Le ombre di Erto e Casso" (Giordano Editore, Milano, 1967) Armando Gervasoni descrive così i superstiti: «Così girano di paese in paese, di bar in bar, con le macchine fiammanti, quasi tutti uomini ma anche qualche donna. Automobili comprate con i soldi dell'assistenza. Quando caffè, bar, osterie chiudono, si riversano sulla pietraia scura abbandonata, in quella colossale scena shakespiriana dove le croci, le porcellane ovali da cimitero, i capitelli, i cartelli sono al posto delle case, delle persone, degli uffici, dei negozi. Escono che sono spiritati la più gran parte per l'alcol ingurgitato, e gridano, schiamazzano, non di rado fanno lite. Poi tutto sprofonda nel silenzio. "C'è pochissimo lavoro - mi confida il taxista. - Oramai i superstiti la macchina ce l'hanno quasi tutti"... Ogni bel ballo stanca. I superstiti stancano. Finisce che hanno torto anche quando hanno ragione. Bevono e non lavorano».'Bevono e non lavorano', si sono 'arricchiti con il soldi della solidarietà': così si scriveva dei superstiti nel 1967, quattro anni dopo la tragedia.
«È vergognoso» racconta Carolina Teza. «Mio marito Vincenzo aveva ventun'anni ed era rimasto solo. Aveva perso sette familiari nella disgrazia. Per mesi cercò i loro corpi lungo il fiume e li ritrovò ad uno ad uno. Per tutto quel tempo dormì in un sottoscala che gli misero a disposizione due signorine della frazione di Fortogna. Di notte andava al cimitero per chiamare ad alta voce la madre pregandola di venirlo a prendere. Dopo aver dato sepoltura ai suoi
cari, nel marzo 1964 è partito per la Germania per andare a lavorare. Nei primi mesi successivi al disastro ha avuto soltanto un piccolo sussidio mensile,
sufficiente appena per coprire le prime necessità». QUELL'INTERViSTA NON S'HA DA FARE
Ma quanto venne davvero dato ai superstiti per tirare avanti dopo la tragedia? «Il secondo o il terzo giorno dopo la tragedia - racconta ancora Bruno Ambrosi - arrivò sulla spianata di Longarone Giovanni Leone, allora Presidente del Consiglio. Ad aspettarlo con me c'era il vice sindaco Terenzio Arduini che aveva perso il figlio e i genitori. Disperato gli disse: "Presidente, chiediamo giustizia". E il Presidente rispose stringendogli la mano: "E giustizia avrete". Sennonchè cadde il governo e dopo poco Leone divenne capo del collegio degli avvocati della Sade-Enel, la controparte. Mi resi subito conto che per noi giornalisti il Vajont era un tasto delicato da toccare. Erano passati pochi giorni dalla tragedia. Un mio ex-collega Rai, Massimo Rendina, era diventato capo ufficio stampa dell'Enel, che aveva rilevato la Sade. Mi telefonò e mi disse: "Caro Ambrosi, meno male che ci sei tu, che ti conosco, a occuparti del Vajont. Mi raccomando... Sai bene che noi non c'entriamo niente". Avevo ancora negli occhi i corpi appena recuperati. Mi infastidì molto il suo cinismo.
Si preoccupava degli aspetti giuridici senza dire una parola sul dramma umano. Mi occupai ancora di Vajont. Anni dopo feci un servizio per il settimanale Rai "AZ, un fatto come e perchè" insieme al collega Giancarlo Santalmassi. Lui venne mandato a seguire il processo che, per legittima suspicione, era stato spostato all'Aquila. Io andai a Belluno a intervistare il pubblico ministero Mario Fabbri che si stava occupando delle indagini. A quei tempi intervistare un magistrato era una cosa rara. Arrivai nell'ufficio di Fabbri al Palazzo di Giustizia di Belluno. Il mio operatore accese le sue potenti lampade per illuminare l'ambiente nel modo appropriato. Stavo cominciando a fare le mie domande quando entrò, senza bussare, una persona, che con fare arrogante disse a Fabbri di seguirlo. Il magistrato ritornò dopo qualche minuto con l'aria sconvolta. "Chi era quello?" gli chiesi. «È Fabio Mandarino, procuratore capo di Belluno. Ha detto che mi denuncerà per sottrazione di beni d'ufficio". "Ma perchè?" domandai incredulo.
"Perchè vi ho permesso di accendere le lampade e di sottrarre così abusivamente la corrente al Palazzo di Giustizia. Mi dispiace, ma l'intervista non si può fare". Gli proposi di vedersi a casa sua, ma mi disse che non poteva ricevere a casa sua "persone che hanno interesse nella causa". Fu chiarissimo. La nostra inchiesta fu bloccata per anni prima di venir mostrata parzialmente al pubblico televisivo, quando ormai il processo era già in una fase avanzata». I BUONI E I CATTIVI Negli anni successivi alla tragedia, dei superstiti vennero offerte due immagini pubbliche: quella dei "buoni", pronti a darsi subito da fare, a rimboccarsi le maniche, a occuparsi esclusivamente delle rivendicazioni economiche. La maggior parte di loro erano sfollati più che superstiti, non avevano perso cari nella tragedia e le loro case, rimaste in piedi, erano state però giudicate inagibili in quanto situate nelle aree evacuate per motivi di una tardiva quanto ormai inutile sicurezza.
C'erano poi i superstiti "cattivi" che reclamavano giustizia per i loro morti. All'interno di questo scenario si fece avanti lo Stato, che arrivò nelle famiglie dei superstiti "cattivi", molti dei quali ancora sotto sedativi, per far firmare transazioni con le quali venivano liquidati, con risarcimenti vergognosi, i loro morti. Una volta per tutte, senza possibilità di ulteriori rivendicazioni future. I "cattivi" firmarono quasi tutti.
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