Indice

"Alla cara memoria di Gianni Gallo e Ottavio Filippin"

  7 Vino

 11 Gente d'osteria

 20 La prima sbornia

 27 Sconvolgimenti

 37 Quarant'anni dopo

 45 Nella città dei coltelli

 55 Vita nuova

 62 Un colpo cattivo

 73 Prime disavventure alcoliche

 81 Processi a Celio

 84 Altra bravata

 95 La prima moto

102 Senza pace

110 Un Natale a rischio

117 La mia benefattrice

120 Ancora un sonno all'aperto

124 Al G91

132 Il revolver

139 Un colpo al sergente

148 Naja

154 Coltelli

160 Congedo

165 Follia

170 Vite dissipate

180 Figuracce

186 L'azienda

194 La bicicletta

203 Alla Vigna

212 Una cena

218 Armi da taglio

223 Cambio d'arma

228 La mola

235 Il canarino

242 Morose

248 Bacco e Venere

255 Viaggio in Piemonte

263 Prigionieri a causa dell'alcol

273 Forcelli e bevute

281 Mostre mostruose

288 Ancora mostre e cioche

294 Condannati a bere

302 Teleferiche

308 Ancora follie

314 Un destro al fratellino

319 Uno sparo

326 Un Venerdì Santo

330 La paga

336 Un ballo

345 Gente di paese

352 Concerto

357 La brocca sbreccata

362 Matrimonio all'aperto

367 Tutti al mare

373 Partenze senza ritorno

378 Ai Colonos di Villacaccia

383 Il Festival di Trento

388 Le Cinque Torri

392 Epilogo

Un colpo al sergente

Il 1970 mi portò la cartolina di precetto e fu tempo di naja.
Alpino della Julia, verso metà giugno partii per L'Aquila, dove sarei rimasto tre mesi, fino al termine del CAR. Nella caserma della cittadina abruzzese mi prese la drammatica tristezza del camoscio imprigionato e senza scampo. La prospettiva futura non era delle più rosee: quindici mesi a Tarvisio, senza più corse nei boschi, scalate, senza i compagni di cava nè il mio amato paesello. Soprattutto senza libertà. A L'Aquila eravamo tre ertani, ma il fatto di parlare dialetto non mi toglieva dalla cupa disperazione in cui ero precipitato. Pensai di spararmi. Prima in testa, poi a un piede per tornare a casa in convalescenza.
Invece mi detti al bere.
Una sera mi tirarono fuori dal coma etilico con una lavanda gastrica praticata nell'infermeria della caserma. Già sbronzo, avevo tracannato, un quarto di acquavite d'un sol fiato. Colmato il gavettino in dotazione, lo mandai giù senza staccare le labbra. Come se la batosta non fosse sufficiente, una volta guarito, il capitano mi rifilò dieci giorni di cella.
Un'altra volta, sempre all'Aquila, caddi ubriaco fradicio nella piscina della caserma. Niente di male, se uno sa nuotare. Il problema nacque perchè la piscina era senz'acqua. Battei la testa e svenni. Mi svegliai di nuovo in infermeria, con qualche punto di sutura sul cranio che, per protesta, mi ero rasato con sapone da barba e lametta.

Ero stato raccolto privo di sensi dal mio paesano Maurizio, con il quale avevo condiviso gli anni del collegio Don Bosco. Avevo cominciato la naja su una brutta strada e volevo andare fino in fondo. Non sopportavo di stare al chiuso, ubbidire al primo sconosciuto graduato che mi si parasse davanti, subire angherie che, oggi posso dirlo, furono molte.

Finiti i tre mesi all'Aquila, durante i quali ebbi modo di assistere per due volte alla vergognosa farsa del processo ai responsabili del Vajont, fui spedito a Tarvisio, al confine con l'Austria. Là conobbi Silvano D'Igleria, sergente maggiore di Paularo del Friuli. Un uomo in gamba, che mi introdusse nella squadra di sci nordico. Fu la mia salvezza, ma non smisi del tutto di bere e combinare guai.

Nel corso dei mesi di servizio, tre volte rischiai di finire a Peschiera del Garda nel carcere militare. Prima di partire per l'Aquila, ficcai il revolver sotto il trave in soffitta assieme a mezzo sacchetto di proiettili e lo schioppo Saint Etienne monocanna con matricola abrasa. Per un po' le armi potevano riposare tranquille. Ma non doveva passare molto tempo che, in preda ai fumi dell'alcol, impugnai di nuovo la pistola, e questa volta sparai. Fu appunto durante il servizio militare.
Dalla caserma Italia di Tarvisio dovevamo spostarci a Predazzo per un'importante gara di sci nordico. Andavo bene nelle gare di fondo, soprattutto in quelle lunghe di trenta e passa chilometri. Vincevo, nonostante le bevute. Il comandante, maggiore Umberto Bozza, era contento che tenevo alto l'onore degli alpini. Ma più di lui era contento il comandante della Brigata Julia, il caro generale Giorgio Donati che, dalla caserma di Gemona del Friuli, dirigeva le operazioni.

Partimmo da Tarvisio un mattino di gennaio.
Il freddo incollava la pelle delle dita ad ogni metallo che toccavamo. Prendemmo posto su una jeep coperta, agli ordini del sergente maggiore Silvano D'Igleria.
Era un ragazzo d'oro, ottimo sportivo, leale e giusto nel comando, figlio di quella Carnia povera, forte, laboriosa e tenace. Guidava il mezzo Piero Corona, amico ertano di tre mesi più vecchio perciò congedatosi, con mia grande invidia, tre mesi prima. Della squadra faceva parte anche Armando Filippin, ertano pure lui, con il quale ero stato a Udine alla visita di leva. Ed infine il clautano Franco Parutto, ottimo fondista, amico fidato cui forse devo la vita. Durante la naja a Tarvisio mi salvò la pelle raccogliendomi svenuto e semiassiderato alle quattro del mattino di un epico Capodanno, dalle parti del cimitero, dove ero caduto battendo la testa sullo spigolo del muro. Se ci penso mi vengono i brividi. Franco passò subito dopo e notò un cappotto militare steso sulla neve. Mi raccolse portandomi sulla schiena fino in caserma e da lì in infermeria. Solo uno con la sua forza, con la sua stazza, poteva riuscire in simile sforzo. Qualche punto di sutura, una bella dormita e il giorno dopo via, in allenamento come se nulla fosse accaduto. Beata gioventù, che ti fa rinascere ogni volta dalle ceneri come l'Araba Fenice!

Da Tarvisio attraversammo tutto il Friuli. Per arrivare a Predazzo decidemmo di passare dalla Valcellina. Quando fummo a Barcis, rivedere la mia valle dopo mesi di assenza, mi provocò un'incontenibile euforia. Fiero di farmi vedere vestito da alpino, chiesi il permesso a D'Igleria di scendere per un bicchiere. Il sergente concesse la sosta. Se avesse immaginato come sarebbe finita, avrebbe tirato dritto.
Saranno state le dieci del mattino che mettemmo piede nella prima osteria di Barcis. Da quella si passò a visitarle tutte. Quando Paulòn Pierino Broch ci vide entrare nel suo bar in divisa, non ci lasciò più ripartire. Ci conosceva, era orgoglioso che quattro alpini valcellinesi lo avessero gratificato di una visita. Offriva da bere, faceva domande. Il sergente D'Igleria osservava.
Terminata la Sosta a Barcis puntammo la jeep verso Claut, paese di Franco Parutto. Anche lui voleva entrare nella patria natìa vestito da alpino. A quei tempi era ancora un vanto indossare la divisa della leggendaria Julia. Piero Corona parcheggiò in piazza a Claut. «Solo mezz'oretta» disse D'Igleria.
Pacche sulle spalle, saluti degli amici, commozione di vecchi alpini nel vederci. E vino a fiumi, giacchè è tradizione che gli alpini debbano tracannare petroliere di vino. Franco si recò a trovare i genitori, noi lo seguimmo. I vecchi ci riservarono un'accoglienza degna di eroi scampati a battaglie sanguinose. Mangiammo polenta, formaggio fritto e salsicce.
La carica d'affetto e simpatia del paese fu memorabile, ma a quel punto mancava Erto. Anche Piero, Armando ed io avevamo il diritto di ostentare le divise a casa nostra! D'Igleria dopo un iniziale diniego capitolò e il nostro autista, pure lui su di giri, pilotò la jeep verso Erto. Per questioni di tempo saltammo Cimolais, e ci dispiacque non aver visitato anche quel villaggio dove tutti ci conoscevano. A Erto parcheggiammo davanti al bar della Giota, che portava il nome adatto a noi: l'Alpino. Non mi pareva vero trovarmi a casa in divisa, come i vecchi alpini del paese dai quali, fino a pochi mesi prima, avevo ascoltato storie di guerra e di pace, di battaglie e di bevute. Mi prese una certa fierezza. Stavo offrendo, come tanti giovani del passato, una parte del mio tempo allo Stato. In altre parole stavo facendo il mio dovere. Ora bisognava dimostrare ai paesani che, bicchiere alla mano, alpini lo si era fino in fondo.
Così ci mettemmo a passare e ripassare con metodo le quattro osterie che avevano riaperto i battenti dopo il Vajont. Per una volta disdegnai quelle clandestine. Diamine! Eravamo in divisa, dovevamo farci vedere in pubblico, non seppellirci in tane dove nessuno ci avrebbe notati. E allora avanti, dentro e fuori delle osterie legali della vecchia Erto, a bere vino come veri alpini. Ad un certo punto invitai il gruppo a casa mia. Sapevo che sotto il camino c'erano dei salami. Il sergente D'Igleria, il quale era l'unico che non aveva bevuto neanche un goccio, accettò volentieri. Arrivammo davanti all'uscio. Chiamai mio padre ma non rispose. In casa non c'era nessuno. Tutto chiuso, anche la porta sul retro.
Allora, nonostante fossi sbronzo, buttai il cappello per terra e, con manovre complicate, raggiunsi il culmine della vite che fasciava il muro fino al primo piano. Da lì mi arrampicai su per le finestre, da uno stipite all'altro, fino al terzo piano, dove gattoni infilai una delle finestrelle che davano luce alla soffitta. La mia vecchia soffitta era sempre la stessa di quando, bambino, andavo a giocare o nascondermi. Misteriosa, inquietante, piena di oggetti e cianfrusaglie inutili. Stavo per scendere ad aprire la porta agli amici, quando mi ricordai del revolver. Era lì, sotto il quarto trave, assieme alla Saint-Etienne che molti anni dopo i guardiacaccia avrebbero sequestrato a mio padre. Credendosi furbo, si fece beccare un giorno di maggio sul Buscada con galli forcelli e schioppo.

Assieme alla pistola mi venne in mente il sergente. "Adesso lo spavento" pensai.
Presi l'arma, infilai un colpo nel tamburo, lo feci ruotare al punto di sparo, sollevai il cane e, pancia a terra, mi affacciai alla finestrella. I miei compagni erano giù nel cortile, di fronte al pollaio, impazienti che aprissi la porta. Con l'arma in pugno chiamai D'Igleria: «Signor sergente!». Tutti si voltarono naso all'aria. Puntai a casaccio verso di loro tenendo la canna alta per non colpirli, e premetti il grilletto. Lo sparo rimbomba nella soffitta come una cannonata. Scapparono a gambe levate. Nel pollaio starnazzarono le galline. Riposi il revolver al suo posto e scesi ad aprire la porta.

Ad attendermi era rimasto solo Franco Parutto. Con aria preoccupata disse che ero diventato matto: «D'Igleria è andato al bar, vuole denunciarti al tribunale militare per tentato omicidio. È convinto che volevi farlo fuori».
«Mica ho sparato a lui» risposi fingendo una calma che non avevo. Mi ero reso conto di come s'era messa la faccenda, il sergente non scherzava.
Attraverso la rete sbirciai nel pollaio. Colpita in pieno, una gallina era esplosa come un palloncino. Un'altra, raggiunta da schegge di terreno gelato, stava poco discosta, zampe all'aria. Le rimanenti erano incolumi ma chiocciolavano agitate. Raggiunsi i commilitoni al bar Pilìn. Il sergente D'Igleria montò su tutte le furie. Minacciava di non andare nemmeno a Predazzo per la gara. Voleva rientrare in caserma e denunciarmi. Ritto sull'attenti, un attenti ondeggiante, mi scusai assicurandolo che mai gli avrei sparato sul serio.
«Mi hai mancato perchè ubriaco - sbraitò - ma questa volta ti sistemo per le feste. Per te è finita, la libertà.» Un po' alla volta si calmò e, quando gli presentai una bella bionda, entrata nel bar a vedere gli alpini, si rilassò del tutto. Noi reclute andammo avanti a tracannare, il sergente chiacchierava con la bionda, la quale pareva felice di essere corteggiata dal nostro sottufficiale.
Quella notte dormimmo a Erto, ognuno a casa propria. D'Igleria in quella della bionda. Io ospitai Franco. Al mattino filammo a Predazzo dove, nonostante i postumi della ciòca, vincemmo la gara. Fummo primi tra le pattuglie delle brigate alpine.
Dopo la gara, feci due giri di pista per conto mio. Stavo dietro a uno sciatore dallo stile impeccabile, un vero fuoriclasse. Il quale alla fine mi offrì un thè in un baracchino di legno e mi disse: «Sei un buon fondista, ragazzo, se ti alleni con metodo diventerai bravo». Si presentò. Era Franco Nones, l'olimpionico medaglia d'oro nella trenta chilometri di Grenoble. Rifiutai il thè per una grappa calda. Il grande campione mi guardò sbalordito. «Con quella - disse segnando l'acquavite fumante - non diventerai mai bravo.» Ci salutammo.

Dopo la premiazione, per festeggiare, ripresi a bere nella caserma dei finanzieri. Ero contento di aver vinto la gara, ma soprattutto perchè il buon D'Igleria confessò che mai mi avrebbe mandato sotto processo. Verso sera, in libera uscita, girai per le osterie di Predazzo. Ne ricordo una stupenda, vecchia e accogliente, con pavimento in legno e stufa in ghisa che spandeva un calore familiare da vecchi tempi. Era il bar Trento, con annesso negozio di alimentari. Frequentato da una pittoresca clientela di bevitori, ricordava vagamente il G91, ma era più antico e meno turbolento. Mi fermai parecchie ore tanto da suscitare le simpatie del padrone, un uomo grosso e gentile. Quando capì che la sbornia mi stava avvolgendo come un lenzuolo, ogni tanto spariva nel retro e tornava porgendomi una scaglia di formaggio grana.

A non so più che ora uscii dal bar Trento per ritirarmi in caserma ma sfortunatamente mi imbattei in due giovani ufficiali della Guardia di Finanza. Vedendomi ubriaco mi redarguirono aspramente. Disonoravo, secondo loro, il Corpo degli Alpini.
«Siamo in tanti a disonorarlo» risposi imbestialito. Poi mi scagliai su di loro con bestemmie, insulti e parolacce di ogni genere.
Cercai di afferrarne uno per il bavero, ma indietreggiò. Mi chiesero nome e cognome. Rifiutai. Gli detti invece dei fannulloni, scansafatiche e mangiapane a tradimento. E per contro, passai a esaltare le fatiche mal pagate degli alpini. Infine mi avviai per tirarmi a nanna, era tardi e non mi reggevo in piedi. I due, a debita distanza, mi seguirono fino in caserma. «Adesso vada a dormire - ringhiarono - domani faremo i conti...» Non fu loro difficile individuarmi tramite il sergente D'Igleria.

Mi alzai con la testa pesante e un sapore di argilla in bocca. Filai allo spaccio della caserma per un caffè.
Ricordai l'incontro con i due ufficiali e mi prese l'agitazione. Volevo partire subito, ma il sergente disse che non era possibile. A mezzogiorno ci riunimmo tutti alla mensa: D'Igleria, Armando, Piero, Franco ed io. Ormai ero convinto di averla fatta franca. Mentre sbocconcellavo una pietanza, si avvicinò un giovane finanziere e mi ordinò di seguirlo. "Ci siamo!" pensai, e il cuore accelerò. Mi condusse alla mensa ufficiali, dove i due sottotenenti stavano aspettandomi. Ai tavoli si trovavano pezzi grossi della Guardia di Finanza, compreso un colonnello. Mi mancò il fiato, ma trovai la forza di scattare sull'attenti.

«Riposo - disse uno dei due - si sieda.»
«Buon appetito» dissi mentre mi accomodavo sulla sedia ostentando una sicurezza che non avevo.
«Come la mettiamo per ieri sera? - esordì quello che mi stava di fronte - lo sa che ce n'è per finire a Peschiera un paio d'anni?»
Non sapevo cosa rispondere e abbassai la testa. Quando il mento toccò il petto, ebbi la fulminazione.

«Vi prego di perdonarmi - mormorai - sto attraversando un momento difficile. Sono rimasto solo. Ho perso tutti i familiari nel disastro del Vajont. E come risarcimento, lo Stato mi ha costretto a fare la naja. Ce l'ho con il mondo, quando bevo un bicchiere perdo la testa e il rancore viene a galla. Di ieri sera ricordo poco, ma vi prego di perdonarmi, d'ora in poi righerò diritto. Datemi questa possibilità.»
I due, visibilmente toccati, si guardarono in faccia, poi mi fissarono.
Sostenni gli sguardi con aria contrita ma ferma. Alla fine uno disse: «Resti qui a pranzo con noi».
«Volentieri» risposi con una vocina da pia donna.
Avrei fatto salti di gioia sui tavoli. Mentre mangiavo un boccone, raccontai vagamente ai due ufficiali la storia del Vajont e della mia vita di orfano, badando a non scendere nei particolari quando chiedevano dettagli sui miei cari travolti dall'onda.
Fingevo un dolore ancora acuto nonostante fossero passati sette anni dalla disgrazia. I due non osarono insistere.
Alla fine mi congedarono con queste parole: «Vada, e cerchi di non bere più. Faccia il bravo, la vita deve andare avanti». In due giorni avevo rischiato due processi.

A distanza di trentaquattro anni ancora mi vergogno di quella scusa, campata a puro scopo di salvarmi il sedere. Avevo ignobilmente usato la catastrofe del Vajont per togliermi dai guai. Oggi più che mai sento il dovere di porgere le scuse a coloro che i morti li hanno avuti sul serio. I miei genitori ringraziando Dio sono ancora vivi, godono di ottima salute e onorano Bacco e tabacco ogni giorno. Venere non più.
Dopo pranzo, con calma rifacemmo i bagagli, saltammo sulla jeep e da Predazzo puntammo verso Tarvisio. A Longarone già pregustavo di rivedere ancora il mio paese, quando il sergente D'Igleria, con un ordine perentorio, disse all'autista di svoltare per il Cadore. «Faremo il passo Mauria, scenderemo in Friuli e proseguiremo per Tarvisio» sibilò a mascelle strette.
Timidamente gli chiesi perchè non si ritornasse per la Valcellina.
«Non voglio più nemmeno sentirli nominare, i vostri paesi» rispose con un ghigno poco rassicurante.

Poco tempo fa sono stato invitato da una libreria di Predazzo a presentare il mio ultimo libro "Nel legno e nella pietra". Di proposito ho voluto recarmi lassù con qualche ora di anticipo per cercare il bar Trento. Volevo trascorrere qualche ora tra i ricordi di quel luogo e di quel tempo. Ma non riuscivo a capire dove fosse. In un'osteria ho chiesto a gente anziana se potevano indicarmi almeno una traccia.
«Non c'e più, il bar Trento - mi ha risposto un signore sui settant'anni - se vuole l'accompagno dove si trovava, è qui vicino » Infatti, dopo nemmeno duecento metri, vagamente riconobbi la via in leggera discesa laterale alla piazza. «Lì, era il bar Trento» disse la mia guida puntando il dito verso una moderna costruzione a vetri scuri. Guardai attentamente. Era una banca.

Mauro Corona, 2004


Commento

Ho scelto QUESTO brano dalla mia copia del libro, per dare atto a Mauro del - pur tardivo - coraggio nel rievocare (tra le numerose occasioni da 'figlio di puttanà che descrive in questo 'libro') quella EMBLEMATICA. Non è stato il solo, nella Storia del Vajont, a SFRUTTARE la 'credulità popolare', l'immaginario collettivo a proprio vantaqggio. Lo stesso fanno - a mero titolo d'esempio - altri loschi figuri molto piu' giovani e in spudorata mala fede. Penso percio' al giovane sindaco De Cesero, al suo assessore Danielis, che - dietro un "immaginario collettivo" che li rende a loro volta "voce e rappresentanti" della "memoria" - si permettono di passare sopra (sotto, attraverso, dietro) il semplice buon senso e la dignità che loro - teoricamente - competerebbe. Esempi di quello che intendo sono qua attorno, in queste pagine. Non dimentico (e invito a NON DIMENTICARE MAI) che le loro mosse mediatiche ma soprattutto istituzionali, decisionali, EFFETTIVE, vanno da molto tempo oramai a scapito di gente che avrebbe tutto il diritto a essere ascoltata e rispettata. 'Ascolto' e - soprattutto - 'rispetto' che i Nostri hanno dimostrato e dimostrano quotidianamente di non possedere nel loro bagaglio culturale. Stupisce il sottoscritto che nemmeno gente di maggior esperienza, età e 'sentimento' (o dignità, teorica) come l'ex sindaco Bratti e il "Superstite/Sopravvissuto" Migotti non temperino gli eccessi dei Nostri e (perlomeno nelle più oscene 'decisioni' di questa 'amministrazione'); che facciano degli opportuni 'distinguo' per non mischiare la loro storia e dignità personale - sempre se ne possiedono ancora una - con quella di questi giovani mistificatori.

Giovani MISTIFICATORI cui da tempo non è più possibile accordare il beneficio del dubbio, ma bensì la premeditazione, la PRODITORIETà nel voler fregarsene semplicemente, sempre e comunque, delle istanze portate avanti da Comitato Sopravvissuti e - se non si è notato - dal semplice, inutile BUON SENSO.

Risultato?

Una gestione della "Memoria" (che è ben altro che la "memoria") artificiale, artefatta, artificiosa esibita da questa ghenga. Che si spinge a definire violentemente come "sovversiva" proprio quella fetta (autentica) della loro Comunità che costituisce - fino a prova contraria - la Memoria vivente del paese (località) che pretendono di 'amministrare'. Un 'monumento nazionale' pensato, costruito e gestito da perfetti 'incompetenti' a farlo, visto che - di fatto - i familiari di chi riposa in questo 'sacrario' viene espropriato perfino del diritto a posare fiori sui simulacri (virtuali, checchè se ne dica) dei loro Cari, assassinati da un 'potere' che i Nostri incarnano sotto TUTTI gli aspetti, menzogne - soprattutto - incluse.

Non si spiegano altrimenti anche certi comportamenti, certi pseudoarticoli di pseudogiornali scritti da pseudogiornalisti, che tutto fanno, meno arrossire e tener fede a un minimo del loro codice deontologico (sempre se sanno cos'è); piuttosto propensi - con rare eccezioni - a rispettare acriticamente e passivamente liturgie vuote e stridentemente contronatura eseguite da officianti senza credibilità, solo perchè "vengono loro elargite dall'alto". Senza curarsi minimamente di andare a sentire, conoscere, verificare (magari cogli Interessati, soprattutto magari dopo essersi fatti una 'culturà del TEMA) i veri termini delle 'questioni'. Questioni (polemiche, angherie, stupri) che - se vivessimo davvero in un paese 'normale', gestito da persone davvero degne di fede e di rispetto, non accadrebbero e non sarebbero MAI dovute accadere.

'Questioni', infine, che da questi pseudogiornalisti vengono bastardamente presentate (all'immaginario bolso collettivo) come prodotto da gente "senza alcun criterio". Questo equivoco pluridecennale viene con tecniche e strategie già 'viste' ribaltato dai veri "senza alcun criterio, che non si riveli infame e sordo" sulle loro (viventi) Vittime e concittadini. Temo - come sostengo da tempo - che la "lezione del Vajont" non solo non abbia insegnato nulla ma che, dall'episodio che lo "sfratto" rappresenta, abbia insegnato solo ad essere piu' spudorate e oscene certe pseudoamministrazioni che andrebbero indagate invece 'a fondo'.

Bene.
Aspetto sempre di venire smentito dai FATTI, pensieri, parole e soprattutto OPERE dei Nostri (i nuovi Mostri?) oppure chiamato a rispondere dei miei PENSIERI/OPINIONI in qualche appropriata, pubblica, (con giornalisti VERI) sede.

Con buona pace dei 'benpensanti' e dei 'pseudo'giornalisti, Tiziano Dal Farra

P.S. = A proposito.
Come detto in altra parte, il libro di Corona Mauro "Aspro & dolce" non RIESCO a 'classificarlo'. Brano soprastante a parte e poco altro, col senno del "post-lettura" oggi non lo comprerei più. Ma sono abituato a conoscere e documentare quello di cui scrivo, PRIMA di esprimermi, e credo che un titolo del tipo "Amaro e depresso" sarebbe piu' riuscito.
Non mi ha ispirato certo le sensazioni dei precedenti, e credo che Mauro abbia intrapreso da qualche tempo una 'curva discendente' cui come 'suo' lettore darò solo un'ultima possibilità ('se' e 'quando'). E in fondo mi spiace. Delle due l'una:
- sono invecchiato io, e non sopporto piu' cazzate gratuite (in questo caso, purtroppo, letterarie e a 'pagamento')

- oppure è invecchiato (malamente? precocemente?) lui.

In ogni caso, il gioco ('Aspro e dolce', ed. Mondadori, Euro 16,50, stampato 'grosso' come per ipovedenti) per ME non vale la candela. Sicuramente non vale 16,50 Euro, ma secondo ME piuttosto meno della metà, come 'contenuti' e cellulosa.

Se di un Corona 'scrittore' devo allora parlare, dopo quest'ultima scarsa performance, mi auguro un paio (o piu') di suoi libri su una materia che Mauro sfiora solamente. Intendo - ANCHE per LUI - che fatti, vicende, testimonianze del "DOPO Vajont" vadano a costituire un ricco e piu' DEGNO filone da seguire. Alla sua maniera, potrebbe certo farci/far sapere cosa ha visto fare, decidere, strafare da suoi amministratori (o dagli pseudoamministratori longaronesi) in questi quarant'anni e passa. Potrebbe farlo, ma (mi risulta) prima dovrebbe liberarsi - sempre se "ne ha le palle" - di certe remore che gli hanno impedito (in tempi recenti, 2004) di esprimersi ad esempio sulla vicenda "nuovo Cimitero di Fortogna". Parole sue... "se dico quello che penso del Cimitero, mi fanno saltare la testa"...

Auguri, Mauro.
Che la tua coscienza - quando la ritrovi, ovvio! - t'illumini. E magari, "illumini" un poco anche noi, e qualche 'abbagliato'.