La storia del Vajont nella storia d'Italia

Una ricostruzione di avidità, ambizione, ingiustizia, di molti;
e coraggio e generosità di qualcuno.

Parla Guido Crainz. Un'intervista con l'autore del «Paese mancato», storia dell'Italietta degli anni del Vajont, diventata grande ma non saggia nè giusta. Un'Italia in cui i potenti fanno quel che vogliono, i processi non fanno giustizia, ma a volte i giornali aiutano a capire e a cambiare un po' lo stato delle cose.
Nel suo volume «Il paese mancato» (pubblicato da Donzelli) che è in libreria da pochi giorni, Guido Crainz racconta l'Italia contemporanea, quella nella quale abbiamo vissuto, quella che, brutta o bella che sia, abbiamo fatto anche noi. Crainz che è uno storico di professione, appunta e rilegge di fatti e persone ben noti, di movimenti che erano anche nostri, di notizie che hanno fatto sensazione e cita quotidiani, telegiornali, riviste, film che abbiamo letto, che abbiamo visto e ascoltato, musiche che ci hanno detto qualcosa.
La storia siamo noi: e mai come leggendo le sue pagine la canzone sembra appropriata. Per dirla tutta, le pagine che scorrono ci mostrano quanto abbiamo dimenticato e poi gli errori, i fraintendimenti, le debolezze, i silenzi: Piazza Fontana e il rapimento di Aldo Moro.
Alla fine del 1963, Crainz aveva una quindicina di anni e viveva a Udine, poco lontano dal Vajont.

Il suo libro comincia in pratica dal Vajont, dal «terribile autunno».
C'è una persona che parla in dialetto: «Da due ani se saveva che veniva giù la montagna». Chi era?

Uno degli scampati. Allora lo vidi alla televisione e più tardi, quando ho cominciato a lavorare con questi materiali, ho ritrovato la trasmissione nelle teche della Rai. Era Tv7, un programma di informazione e approfondimento della televisione in bianco e nero di allora.

Quel servizio faceva parlare i superstiti, lasciava che il pubblico, in tutta l'Italia potesse ascoltare le loro denunce. Un programma straordinario; tanto coraggioso che l'autore, Antonello Branca, fu messo all'indice per moltissimo tempo. La direzione della Rai di allora non poteva tollerare. Simili attacchi ai poteri costituiti, erano veri e propri attentati. Il pubblico non doveva sapere, non si doveva lasciare che fosse turbato da tali barbare calunnie... Era il rifiuto di mostrare verità eccessive a un pubblico che si giudicava impreparato... C'era qualcosa di più. Un Italia da rimuovere, da sgombrare. L'aspetto di classe della strage del Vajont sta anche in questo. Ho trovato il primo rapporto del 1964 del prefetto di Belluno che lamenta i blocchi stradali dei superstiti di Longarone. Questi, che avevano potuto ripescare i corpi con arnesi di fortuna, non erano ancora contenti. Il 31 dicembre e per tre giorni consecutivi a metà febbraio «hanno provocato vasto malumore tra la popolazione del Cadore». Il prefetto evidentemente aveva a cuore il Capodanno e le settimane bianche. L'intuisce Ranuccio Bianchi Bandinelli. Già il due gennaio 1964 egli annota nel suo "Diario di un borghese": «Bello il blocco stradale dei superstiti del Vajont... avrà disturbato tanta gente bene che se ne andava a Cortina a festeggiare».

Nel «Paese mancato» lei parla anche del processo per la strage del Vajont.

È un aspetto concreto di rimozione. Il disastro è rifiutato dal potere che vuole dimenticarlo e farlo dimenticare e se questo non è possibile, vuole nasconderlo. Così il processo si svolge all'Aquila, per 'legittima suspicione', proprio come i processi per Piazza Fontana o per le schedature alla Fiat. All'Aquila il processo si trascina per mesi e mesi, e lascia dietro di sè la convinzione dei giovani dell'Aquila di assistere a un'ingiustizia. La sentenza è di assoluzione per cinque degli otto imputati e le condanne non colpiscono i grossi calibri. Non per niente Giovanni Leone che da presidente del consiglio era corso tra i superstiti a promettere giustizia, rivestita poi la toga di principe del foro si schiera come perito dalla parte della Sade, la società elettrica che aveva costruito la diga e il resto, e contribuisce alla sostanziale assoluzione.

Entusiasta, il procuratore generale dell'Aquila dichiara che la sentenza: «fa indubbiamente onore alla Corte aquilana». E qui accade un fatto strano. Qualcuno, nella stampa, attacca non tanto la sentenza quanto il sistema giudiziario. Marco Nozza elenca sul "Giorno" le ingiustizie del processo per la «Strage degli innocenti», sottratto ai giudici naturali e «praticamente inaccessibile alla gente di Longarone»; poi parla della «strategia dei tempi lunghi» per ridurre di molti gradi l'attenzione e la «commozione» del pubblico; e conclude mostrando di aver capito tutto: questo processo potrebbe diventare l'esempio di tutti i processi futuri. E Nozza lo scrive prima della sentenza.

Lei dà un giudizio positivo della stampa - una parte della stampa - di quaranta anni fa. Che del resto è un oggetto dei suoi studi.

Devo dire che ho archiviato nella mia mente, o potrei dire nel mio cuore, qualche articolo di valore; e anche altre forme d'intervento. Occorre non dimenticare che anche allora i giornali erano di proprietà della classe dirigente, molto disposta a perdonare e a simpatizzare con i padroni della Sade. Dopo tutto, la diga, aveva o no tenuto? e la frana, era o no un 'evento imprevedibile'? Ma se questa era la 'vulgata', c'erano anche i dissidenti. Mi ricordo per esempio l'attacco di un articolo di Giampaolo Pansa che allora doveva essere giovanissimo e scriveva per la Stampa di Torino: «Scrivo da un paese che non esiste più...». È un passo che Alberto Papuzzi ha inserito come modello nel suo "Manuale del giornalista"... Ma quella che merita più di tutti di essere ricordata è Tina Merlin che cominciò tre o quattro anni prima della frana a scrivere dei rischi cui la popolazione andava incontro se la diga fosse stata completata e l'invaso fosse stato riempito di acqua. Merlin era diventata tanto insistente e molesta con i suoi articoli sull'Unità che la Sade le fece causa; e tra l'altro, il tribunale di Milano diede ragione alla giornalista. Vent'anni dopo scrisse anche un libro sulla catastrofe, dal titolo "Sulla pelle viva" che allora ebbe difficoltà a trovare un editore. Ora l'Unità lo ripubblica.
Bel tipo, questa giornalista "comunista". Dopo aver fatto la staffetta partigiana e aver tentato di salvare la gente del Vajont si è occupata di lotte operaie nel Veneto, scrivendone in un altro libro sull'Avanguardia di classe. Ma non posso dimenticare Marco Paolini, che con il suo spettacolo teatrale "Racconto del Vajont", passato anche per gli schermi televisivi, offre un eccellente esempio di come si fa la comunicazione storica.

 

Fonte: http://italy.indymedia.org/news/2003/10/397690.php

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