XXII - QUEL GIORNO LE ACQUE SI RUPPERO

  "Drìo de le quinte/ la morte/ cò le so porte/ averte sul niente".
'Dietro le quinte la morte, con le sue porte spalancate sul niente', dicono i versi di Biagio Marin. Ed è niente quello che resta nella Valle del Piave dopo la notte del 9 ottobre 1963, proprio sotto la diga del Vajont.

0È un mercoledì, sono le 22 e 39 e la gente nei bar dei paesi è davanti alla televisione che trasmette da Glasgow la partita del primo turno della Coppa Campioni tra il Ranger e il Real Madrid di Di Stefano e Puskas. Gara senza storia, con molti gol, gli spagnoli vincono 6 a 0. Improvviso un boato, un'onda che sbatte contro la faccia interna della più alta diga d'Europa tra quelle a doppia curvatura, "creazione umana mirabile e gloria della tecnica italiana".
Dal monte Toc si staccano 250 milioni di metri cubi di roccia e di terra, qualcosa come duemila grattacieli di cento metri. Precipitano in un invaso di 160 milioni di metri cubi d'acqua a quota 730, contenuti in una diga alta 266 metri. L'onda si alza, supera il bordo della diga, si abbatte sulla valle sottostante e cancella tutto. Spazza interi paesi, case, chiese, scuole, municipi, fattorie. Travolge gli abitati di Castellavazzo, Erto, Casso, spiana Longarone e altri paesi ancora. Quasi duemila morti, 1909, sotto l'acqua. Ma il numero esatto delle vittime non si è mai saputo, non si saprà mai.
Il suolo si trasforma in fango. L'onda polverizza, risale lungo il fianco della montagna, retrocede, poi s'incanala nel fondo valle dove scorre il Piave. Il disastro si compie in pochi minuti, quattro, forse cinque.

Gli italiani per molte ore non sanno, nemmeno sui quotidiani del giorno dopo c'è qualcosa.
La prima notizia dell'agenzia Ansa è delle ore 01.46 del 10 ottobre: "Nella zona del Vajont e nell'abitato di Longarone un'enorme massa d'acqua è scesa dalla gola in cui si trova la diga e si è abbattuta nella valle, spazzando via decine di abitazioni e provocando morti e feriti. Le proporzioni e le cause dell'accaduto non sono ancora accertate".
La notte è buia come se il niente avesse cancellato anche la luna e le stelle. La luce è saltata in un'area di decine di chilometri, a Belluno si sono spente le lampadine. Non funzionano i telefoni, le strade sono interrotte. Per molte ore non si coglie la dimensione del dramma: la frana ha una lunghezza di quasi due chilometri, cinquanta milioni di metri cubi d'acqua si sono sollevati a 250 metri d'altezza e si sono rovesciati oltre la diga abbattendosi sulla valle, preceduti da un violento spostamento d'aria su Longarone.

L'aspetto della devastazione è stato paragonato a quello di due bombe atomiche di Hiroshima. Ed è il niente quello che si vede dagli elicotteri all'alba del dieci ottobre. Come se un gigantesco becchino avesse coperto col fango una valle, seppellendo sotto la crosta indurita in fretta dal sole interi paesi, con la gente che c'era, gli animali, le case.

Prima di quell'onda il comune di Longarone aveva 4.636 abitanti. Dopo quell'onda, a Longarone restano in piedi il municipio e 24 case. Longarone aveva fabbriche: la segheria Protti, la Filatura del Vajont, la cartiera. A Faè c'era la fabbrica di un materiale che prende il nome dal paese, la 'faesite', un laminato di legno pressato. Cancellate dalla carta geografica le frazioni di Pirago-Rivalta, Villanova-Faè, Igne, Soffranco, Dogna, Provagna, Fortogna, Roggia, Pians e poi i centri di Erto e Casso e Castellavazzo.

Sono gli animali selvatici i primi ad avvertire il pericolo, si vedono le lepri fuggire disperatamente. Poi incominciano gli animali nelle stalle e quelli nel cortile di casa.
Racconta don Carlo Onorin, parroco di Casso: "Avevo il Toc proprio davanti agli occhi. C'era nell'aria tutta una serie di rumori, la frana ha un rumore particolare, quella notte era piena di rumori... All'improvviso mancò la luce... Non ricordo se il frastuono era come di mille treni che passano accanto, era già nell'aria quando le luci si spensero, poi ho visto un'enorme colonna nera. Saliva dal basso e oscurò rapidamente tutto il cielo. Era un nero così nero, il nulla, proprio. Come se il nulla ci stesse ingoiando tutto". Ancora la porta spalancata sul niente.

E il nulla ingoia, pialla, ricopre. "Là fora i sarà 'ndai soto! tut el paese, soto un lago de scuro/ e na stropa de scuro tra 'l sangue che 'l vien/ al cuor e 'l sangue che 'l va/ la divide la casa dal vòdo". Sono i versi di Gian Mario Villalta: "là fuori sono già andati tutti sotto, forse/ tutto il paese, sotto un lago di buio/ e una diga di buio tra il sangue che viene/ al cuore e il sangue che va/ divide la casa dal vuoto". A Longarone per trovare i cadaveri bisogna scavare col piccone, arrivano anche gli alpini con la pala. L'acqua ha trasformato la terra in un muro solido orizzontale. C'è gente che si aggira tra le rovine alla ricerca di un qualsiasi ricordo, di un oggetto che restituisca la memoria di quella che una volta era la casa, era una famiglia. A Erto le bare sono allineate nel municipio, decine di casse. Il Gazzettino dell'11 ottobre titola: "Scomparsa ogni forma di vita a Longarone e nei paesi vicini".

Le autorità si fanno precedere da un telegramma di solidarietà. Arriva Giovanni Leone presidente del Consiglio, nel suo governo ci sono tre veneti, e Mariano Rumor è agli Interni. Quelli di Leone sono governi balneari, ballano una sola estate, questa volta eccezionalmente passano l'autunno. Leone non ama i ruoli istituzionali nelle tragedie, i grandi dolori lo intristiscono. Leone sorvola la zona in elicottero, quando scende la gente gli grida: "Assassini... Giustizia!".

"Oggi Leone si recherà nel Cadore/- sentimenti vivo dolore/ et profonda solidarietà/ -pregola recare popolazioni colpite tanto flagello/ sensi affettuosi solidarietà" scrive Roberto Roversi. E aggiunge: "L'Ava la sta qua?/ Magari la stesse qua. La stava a Rivalta/ e a Rivalta non ghe sè più niente".

"Diga perfetta, ma roccia pericolosa". Lo sapevano tutti da anni.
Non c'è stata tragedia più annunciata di quella del Vajont. C'erano stati segnali di avvertimento, la montagna scivolava nel bacino artificiale creato dalla diga. C'erano stati tremiti, sussulti, boati. La montagna si stava muovendo, se n'erano accorti i montanari e i valligiani, gli allevatori erano stati invitati a trasferire il bestiame a valle. Se n'erano accorti i tecnici che avevano cercato di far uscire l'acqua dal lago per abbassarne il livello. La sera della tragedia la strada verso la diga era stata chiusa, le forze dell'ordine avevano ricevuto la disposizione precisa da far eseguire.

Il Vajont è un affluente di sinistra del Piave, scende dal Col Nudo nelle Prealpi Carniche, scorre abbondante e impetuoso per 13 chilometri poi si getta nel Fiume Sacro. La Sade, società per lo sfruttamento idroelettrico con capitali della finanza veneta, ha un progetto che viene da lontano. In fondo, la storia della diga è quella di un processo a un certo Veneto industriale, imprenditoriale, politico. Pochi scrupoli e una speculazione ampia e protratta nel tempo, tanto da attraversare il periodo sabaudo e quello fascista, da trovare complicità nei giorni di Salò e da proseguire imperterrita con la Repubblica.

Il primo a presentare alla Regia Autorità domanda di utilizzazione delle acque del Vajont è nel 1910 Gaetano Protti titolare della cartiera nel territorio di Castellavazzo. Il progetto prevede un piccolo sbarramento e una portata di 70 litri al secondo, poca cosa in un Veneto che conosce già dimensioni industriali e che è la terza regione del Regno per potenza elettrica installata.

Nel 1925 Carlo Semenza sceglie la valle dominata dal monte Toc per un progetto di sfruttamento idrogeologico, quattro anni dopo la Società Idroelettrica Veneta presenta un piano per una diga ad arco nei pressi del ponte di Casso, alta 130 metri, capace di contenere 33 milioni di metri cubi d'acqua.

Basta seguire le date e i progetti al rialzo per capire che cosa sarebbe successo. 1937: progetto ritoccato per una diga di 190 metri presso il ponte Colomber e 46 milioni di metri cubi; 1940: progetto per produrre 340 milioni di chilowattora. C'è la guerra, aumenta la necessità di produzione autarchica di energia e bisogna soddisfare i consumi crescenti di Venezia e soprattutto di Porto Marghera che già assorbe mezzo miliardo di chilowattora, un terzo dell'energia prodotta nella regione.
Indifferente al caos della guerra, il progetto avanza e cresce sino al 1943.
Volpi, Cini e Gaggia hanno capacità di mediazione in ogni tempo. Qualcuno di loro incide anche sulla Rsi e uno dei ministri di Salò rende il progetto esecutivo. Non basta, il dopo è ancora più straordinario: il tempo di proclamare la Repubblica e il 5 agosto 1946 il progetto ha il via libera tecnico-burocratico dal primo presidente, Einaudi. Il piano è cambiato un'altra volta: l'altezza della diga sale a 202 metri, l'invaso è fissato a quota 679, la capacità a 71 milioni di metri cubi. Partono anche gli espropri: dal '48 al '56 il comune di Erto e Casso perde 170 abitazioni e tremila dei 5.222 ettari del suo territorio.
Nel 1957 altra variante: la diga può salire a 266 metri, l'invaso a quota 722, la portata sfiora i 180 milioni di metri cubi. Il Consiglio superiore dei lavori pubblici approva e i lavori iniziano col contributo di un miliardo e mezzo dello Stato perchè l'opera è di 'pubblica utilità'. La diga, completata nel 1961, è la più alta del mondo a doppia curvatura, è larga 194 metri, è spessa alla base 22 e alla sommità tre e mezzo. Per consentirne la posa hanno asportato 400 mila metri cubi di roccia. Le acque del Vajont insufficienti sono state potenziate, è stato formato un lago che entra a far parte di un impianto con quattro centrali e cinque serbatoi che ha il cuore a Soverzene.

Testano la diga con un modello di sette metri a Bergamo nel laboratorio Ismes. Installano negli impianti del Vajont 350 strumenti tra termometri, estensometri, sismografi. La Sade, come tutti i produttori di energia, è nazionalizzata nel l 962, ogni proprietà passa all'Enel. Proprio il giorno prima del disastro sono sottoscritti i preliminari di acquisto di tre appezzamenti particolarmente disposti al rischio dell'invaso.

L'incubo grava sulla gente della valle. Nel novembre 1960 dalla parete del monte Toc si era staccata una frana di 700 mila metri cubi che aveva provocato nel lago onde alte due metri. Sulle pendici del Toc si era aperta una crepa a forma di "M" larga mezzo metro e lunga due chilometri, che quasi delimitava l'area che si sarebbe staccata tre anni dopo.

La gente ha paura. Una coraggiosa giornalista bellunese di Trichiana, Clementina Merlin detta 'Tina', per quattro anni denuncia il pericolo sul giornale L'Unità". È nata in una famiglia contadina, ha fatto la staffetta partigiana, ha perso nella Resistenza un fratello ucciso dai nazifascisti, un altro fratello è caduto in Russia. È andata in Unione Sovietica a cercarne le tracce nella steppa, ha bussato a molte isbe, ha trovato una vecchia che ha visto l'alpino Merlin ammazzato con gli altri italiani in rotta.

Il 5 maggio 1959 scrive: "A Erto, in Valcellina, 130 capi famiglia uomini e donne si sono consorziati per creare un organismo che abbia veste giuridica nel difendere i diritti e gli interessi dei singoli e della collettività del paese di fronte alle prepotenze e ai soprusi che la Sade va da anni compiendo sulla zona... Anche il parroco don Luigi Doro è dalla parte dei suoi parrocchiani". La Sade querela la Merlin per diffamazione, la giornalista viene rinviata a giudizio col direttore del quotidiano comunista, Orazio Pizzigoni. Entrarnbi sono assolti dal Tribunale di Milano perché il fatto non costituisce reato.

Scrive la Merlin l'8 novembre 1960: "Un'enorme frana di 50 milioni di metri cubi di materiale, tutta una montagna sul versante sinistro del lago artificiale, sta franando. Non si può sapere se il cedimento sarà lento o se avverrà un terribile schianto. In quest'ultimo caso non si possono prevedere le conseguenze".

L'11 ottobre 1963 annota con disperazione: "Scrivo da un paese che non c'è più... Magari fossi riuscita a turbare l'ordine pubblico. Chi considerava un articolo sull'Unità più pericoloso di una frana grossa come una montagna restò inerte". 0Il libro di Tina Merlin sul Vajont è intitolato "La costruzione di una catastrofe". La piccola donna coraggiosa che voleva "semplicemente impedire che questo disastro colpisse i montanari della terra dove sono nata" se ne va uccisa dal cancro nel 1991, a 65 anni. Ma la "catastrofe costruita', le sopravvive nelle aule giudiziarie.
Per descrivere la tragedia, Mario Fabbri giudice istruttore del Tribunale di Belluno nel 1968 apre le 458 pagine dell'ordinanza di rinvio a giudizio con una citazione biblica: "Quel giorno le acque si ruppero...". Sarà un processo ai poteri forti, e la Sade lo era.

Nel 1970 all'Aquila saranno condannati per omicidio colposo un ingegnere della Sade-Enel, Alberico Biadene (6 anni), e un funzionario dei Lavori Pubblici, Luciano Sensini (4 anni). Altri due tecnici saranno assolti in appello.
In pratica, gli imputati sono giudicati colpevoli di non aver attuato lo sgombero. I giudici di primo grado accetteranno l'imprevedibilità della tragedia, non la tesi della catastrofe costruita dall'avidità e dagli errori degli uomini. Nella memoria difensiva per la Montedison (dove nel frattempo è confluita la Sade***) che sostiene la tesi dell'imprevedibilità, la prima firma è quella dell'avvocato Giovanni Leone.
Sarà la Cassazione nel '71 a riconoscere l'accusa di inondazione aggravata dalla prevedibilità dell'evento. Il tutto, a due settimane dalla prescrizione.
Prima delle sentenza definitiva, proprio per evitare il rischio di prescrizione degli imputati, un corteo di oltre mille persone, aperto dai gonfaloni listati a lutto dei comuni colpiti dal disastro, attraverserà sotto il vento freddo di tramontana una Belluno completamente ricoperta di neve. Tutta la Sinistra Piave aveva scioperato per un giorno e i negozi erano rimasti chiusi a sottolineare la rabbia del Bellunese.

Ci sono voluti oltre quarant'anni per dare in qualche modo giustizia a Longarone. La causa civile per danni si conclude con la condanna dell'Enel e della Montedison a pagare; il primo i danni allo Stato, e la seconda al Comune di Longarone. Ma soltanto il 15 febbraio 1997 il Tribunale di Belluno stabilisce in 55 miliardi e 645 milioni l'entità del risarcimento.

L'epilogo è il 23 giugno 1999, quando la Montedison, che non aveva colpe*, si presenta a Longarone e firma col Comune la transazione di 77 miliardi di lire. Per il paese firma il giovane sindaco Pierluigi De Cesero nato sei anni dopo la tragedia: "Che almeno il Vajont sia servito a tutti", dice. Intanto il paese è stato ricostruito, lontano da dove era, moderno, artificioso come molte cose che devono sostituire un passato cancellato dalla natura. A Longarone c'erano sei chiese, ne hanno ricostruito due. Lungo la strada il cartello più grande e più visibile pubblicizza un sexy-sbop.

Nel cimitero dove sono sepolte le vittime del Vajont le tombe hanno tutte la stessa data: 9 ottobre 1963. Qualcuno vorrebbe spostare il cimitero. Nella Valle del Vajont oggi c'è persino una memoria divisa in due associazioni: quella dei Superstiti e quella dei Sopravvissuti. Quarant'anni forse sono troppo pochi per ricostruire una comunità**.

(* = dirette, ma quelle derivanti dalle colpe pregresse ereditate dalla Sade, poi confluita in Montecatini, e poi tramutata in Montedison, n.d.r. Oggi, Edison)

(** = ma non sarà certo grazie a ceffi spurii e mentitori come i deceseri che le 'comunità' troveranno pace ed equilibrio. Nè noi italiani incolpevoli quanto distratti, la dignità, n.d.r., Tiziano Dal Farra) (*** = attenzione: solo il marchio "SADE", ossia tutti i possedimenti [fabbriche, hotels, cantieristica eccetera] TRANNE la parte idraulico/elettrica e relativo personale e maestranze, nazionalizzate e confluite in ENEL statale. Quindi, a rigor di logica, nulla di quanto accadde al Vajont costituiva responsabilità di MontEdison. Ma occorreva un capro espiatorio per salvare ENEL/Sade e tutta la cosca, nota di Tiziano Dal Farra


      A cura di Tiziano dal Farra

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