I genitori che non sorrisero mai.

Lucia Vastano, da "L'onda lunga", Sinbad press, 2003.

Non è facile staccarsi dai luoghi a cui ci legano buoni e cattivi ricordi.
Forse, paradossalmente, è ancora più difficile quanto è più grande il dolore che si porta dentro. Vilia Teza se l'è chiesto molte volte come sarebbe stata la sua vita e quella dei suoi familiari se lei e il suo secondo marito Angelo De Col, avessero deciso di andarsene per sempre lontano da Pirago, lontano da Longarone e dalle loro vite precedenti il 9 ottobre 1963.

«Me lo ricordo bene il primo pensierino che scrisse in un tema mio figlio: "Il papà e la mamma non ridono mai".
Se ci penso mi viene da piangere, non me ne ero mai accorta, ma era proprio così: io e mio marito Angelo non eravamo mai disponibili al sorriso con i nostri figli. Ma come sarebbe stato possibile con le storie che avevamo entrambi alle spalle? Come era possibile dopo quello che avevamo vissuto quel 9 ottobre?
Prima di quella notte, io me l'ero detta più volte, ero una delle persone più felici al mondo. Io e mio marito Umberto eravamo tornati dalla Francia per far nascere qui il nostro bambino. Mia madre ci aveva dato una stanza. Ora il piccolo aveva quasi sette mesi e ogni volta che me lo stringevo al petto mi sembrava di toccare il cielo con un dito. Quel pomeriggio avevo portato il bambino fuori per una passeggiata. Con me c'era una ragazza che aspettava la nascita del suo a giorni. Era una giornata strana, insolitamente calda per essere autunno. Gli uccelli nelle voliere sembravano impazziti e spirava uno strano vento.
Quella sera, mio marito era già a letto che dormiva mentre io stavo stirando sulla terrazza. Ad un certo punto mio figlio si è messo a piangere. Sono andata a prenderlo nella culla e me lo sono attaccato al seno con una gioia che solo una madre può capire. Sembra impossibile che in un solo attimo si possa sprofondare dal paradiso all'inferno.
Mi ricordo un grande vento che mi ha strappato il mio bambino dal seno. Poi mi sono ritrovata fuori con tanta gente intorno a me che piangeva e che urlava. Mi sono sentita una persona attaccata alla pancia. Ho cercato istintivamente di togliermela di dosso, di spingerla via. Mi sono ritrovata con le mie mani nel suo cervello ancora caldo. Nei giorni successivi è cominciato il pellegrinaggio per trovare i morti. Si cercava tra le pietre per trovare qualcosa di familiare, anche un mestolo. Ho trovato il corpo di mio marito, ma non quello del mio bimbo che stavo allattando. Sono andata ad abitare a Ponte nelle Alpi. Un giorno andando a portare dei fiori al cimitero di Fortogna per i miei cari scomparsi, anche mia madre e due fratelli, una cognata incinta e dei nipoti, ho conosciuto quello che sarebbe diventato il mio secondo marito. Lui aveva perso la moglie, i figli, una bimba di dodici anni e un maschietto di cinque, i genitori, fratelli e sorelle. In tutto circa 150 familiari.
Abbiamo messo insieme due solitudini e due dolori e ci siamo rifatti una famiglia. Ci hanno permesso di sposarci prima del tempo che sarebbe stato necessario in caso di "morte presunta". Sua moglie non è mai stata ritrovata. Non so se sia stato un bene, unire le nostre disperazioni. Ci siamo voluti molto bene ed abbiamo avuto due bravissimi ragazzi, ma guardandoci negli occhi, nei momenti di malinconia, ognuno di noi leggeva la stessa tristezza negli occhi dell'altro.
Soprattutto all'inizio per me è stato difficilissimo andare avanti. Mi sono detta più volte che è più difficile vivere che morire. Ho persino tentato di buttarmi giù da un ponte, ma non ho trovato il coraggio. È passato per di lì qualcuno dell'ENEL con la macchina e mi ha detto: "Signora, io non potrei far salire nessuno ma, la prego, venga con me, mi sa che ha dei brutti pensieri".

Il fardello che Angelo si portava sulle spalle era altrettanto pesante.
Quella notte lavorava alla Faesite. Ha sentito il boato ed è venuto su di corsa per andare da sua moglie e dai figli. Ha trovato lungo la strada un bambino di circa dieci anni, agonizzante. Stava morendo. Il Vajont ci ha mangiato le menti. Possiamo far finta che non sia così, ma prima o poi tutti gli orrori che abbiamo vissuto risaltano fuori. Mio marito due anni fa ha avuto un ictus. Da quel momento è tornato a vivere la sua prima vita. Chiamava sua moglie e i suoi figli morti, non riconosceva i nostri e voleva andare nella sua vecchia casa con le scale che portavano alle camere da letto. Un giorno in ospedale ha cominciato a correre per il corridoio gridando: "Scappate, scappate tutti! Prendete le pile!". Lo hanno preso per matto. Io ho spiegato ai medici che stava solo rivivendo quello che era successo quella notte. Tutto quello che diceva era vero. I suoi ultimi due anni sono stati un calvario, per lui, e anche per i nostri figli che soffrivano sentendo il padre chiamare altri figli senza riconoscere loro. Alla casa di riposo di Longarone, fatta con i contributi del Vajont, non hanno neanche voluto dargli un letto. Dicevano che non erano attrezzati per un caso come il suo. Lo trattavano come un oggetto, con l'eccezione di un'infermiera che è stata molto gentile e premurosa con lui.
Poteva stare nella casa di riposo solo per qualche ora.
Poi dovevo caricarmelo sulle spalle e arrangiarmi da sola, perchè non c'era personale e un mezzo autorizzato per portarlo a casa. Era come un bimbo. Un giorno non riuscivo a tranquillizzarlo. Voleva la sua famiglia. Io gli ho detto: "Angelo, facciamo il caffè per tutti i nostri morti, anche per la tua bambina". Ha smesso di urlare, contento per quella mia trovata. Non abbiamo mai visto, in questi quarant'anni, un assistente sociale per aiutarci a superare il ricordo di quei momenti. Siamo stati sempre lasciati soli. Mio marito è morto il 21 febbraio scorso. Ora hanno trovato un camioncino per il suo trasporto dalla casa di riposo.
Troppo tardi. A che serve ora? Sono piena di rancore e rabbia.
In questi anni troppe volte mi sono sentita dire che noi "eravamo pieni di soldi", che con il Vajont "ci siamo arricchiti". Per far studiare i nostri due ragazzi, nati a Ravenna e per questo ingiustamente privati del diritto alla borsa di studio per i figli dei superstiti, abbiamo dovuto fare i sacrifici. Ma forse tra le cose che più mi fa soffrire è proprio il ricordo di quel pensierino di mio figlio di quando era alla scuola elementare: «io non ho mai visto ridere il papà e la mamma».

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