Il Quaderno del Vajont

Marco Paolini e Oliviero Ponte di Pino

Quaderno del Vajont

Dagli album al Teatro della Diga

© 1999 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

www.einaudi.it

ISBN 88-06-I5320-X


Questo quaderno


Il racconto del Vajont, per chi lo ha fatto e per chi lo ha visto, non è uno spettacolo come gli altri. Da un lato si porta dentro un silenzio: il silenzio che impone una enorme tragedia, il silenzio che richiedono sentimenti impossibili da ingabbiare nelle parole, il silenzio che merita il rispetto delle vittime.

Ma al tempo stesso Il racconto del Vajont fa venir voglia di parlare, di continuare a discutere, di capire meglio. Perchè ci sono molte cose da capire: quello che è davvero successo alla diga in quegli anni che sembrano così lontani, in primo luogo, e tutti gli eventi che quel monologo prova a ricostruire, sulla scia di libri (a cominciare da quello di Tina Merlin), di altri materiali e di testimonianze. Ma dobbiamo anche cercare di capire quello che succede a noi quando raccontiamo una storia come quella, o quando la ascoltiamo.

Questo quaderno non offre la ricostruzione della vicenda del Vajont, e non contiene neppure il testo dello spettacolo. Esplora invece il percorso di quello spettacolo dalla parte di chi l'ha fatto e dalla parte di uno spettatore, per cercare di chiarire - anche a noi - alcuni degli elementi che riguardano il teatro e la televisione, ma anche la storia e la società, la memoria e l'identità.

Il testo dello spettacolo - o meglio, come si vedrà, la trascrizione di una delle possibili repliche - si può leggere in Marco Paolini e Gabriele Vacis "Il racconto del Vajont", Garzanti, Milano 1997. In appendice al volume, con il titolo "Una frana annunciata", Francesco Niccolini ha ricostruito un'utile cronologia degli eventi relativi al Vajont dal 1958 al 1997.

Il quaderno attinge a due tipi di materiale, che si è sedimentato nel corso degli anni: una serie di 'conversazioni', sia private sia pubbliche (per esempio alla Civica scuola d'arte drammatica Paolo Grassi e alla Casa della cultura di Milano), una lunga chiacchierata che prosegue dalla fine degli anni Ottanta; e poi gli appunti che Marco prende sui suoi quaderni, una specie di diario di bordo nel quale registra le sue impressioni, scrive i suoi copioni, riporta frammenti di realtà...

OLIVIERO PONTE DI PINO

Per le sbobinature si ringraziano la cura e la pazienza di Mariolina Vatta e Anita Morasso.



Quaderno del Vajont

Dai quaderni di Marco Paolini.

Vorrei usare la diga come una lavagna. Non a valle dove è alta duecentosessanta metri ma dall'altra parte, dietro, dove non supera i quaranta, perchè il resto è coperto di roccia e di terra.

Stiamo cercando il posto dove collocare lo spazio scenico, il pubblico e le telecamere, un posto che ci permetta di vedere il più possibile, ma la frana del Vaiont è troppo estesa per essere abbracciata in un solo sguardo, e ci sono altri problemi.
La grande frana si eleva di qualche centinaio di metri più in alto del colmo della diga. Sopra è ormai coperta di giovani alberi e di erba, ma tutto il fronte è segnato di rocce spezzate e dirupate che proprio dietro la diga, a ridosso dell'arco rovescio, cedono a un avvallamento di un centinaio di metri di dislivello.
È il letto del piccolo lago rimasto isolato dal resto della frana il 9 ottobre 1963.

E poco più di una buca verde col fondo marrone, circondata di rocce gialle e pendii, ma a ben guardarla ricorda gli antichi anfiteatri. Per questo mi sembra naturale attrezzare lì degli scalini dove sedersi e una pedana per recitare o, meglio, per raccontare la tragedia: un luogo dove raccogliersi in ascolto con il pubblico distribuito lungo una gradinata, con la diga dietro a chiudere l'orizzonte. Dove ogni tanto disegnare, col gesso bianco sul cemento grigio.
Il 'Racconto del Vajont' è il titolo che è stato dato al testo del lavoro teatrale (pubblicato da Garzanti) che per tre anni ho portato in giro per l'Italia.

'Vaiont 9 ottobre '63' è il titolo della diretta televisiva di quel racconto fatta nell'ottobre '97 nei luoghi della tragedia.

'Quaderno del Vajont' è questo libro che contiene note sul percorso dal teatro alla televisione; sia del testo, sia dell'attore che lo ha raccontato.

M. P.

Può essere questo il posto giusto dove fare, per tre o quattro sere di seguito, Il racconto del Vajont e poi la diretta televisiva. Anche l'acustica non sarebbe male. Questa soluzione viene scartata: troppo pericoloso. Il terreno della frana continua a muoversi e assestarsi, specialmente in quel punto che assorbe l'acqua piovana e si abbassa di circa due-tre centimetri l'anno. Cosìi ripidi pendii che lo sovrastano si sfaldano facilmente, soprattutto in primavera con il disgelo ma anche dopo le piogge. La conca è un concerto di pietre rotolanti, di Rolling Stones: pietre di piccola e media pezzatura che vanno a ingrossare i ghiaioni nati meno di quarant'anni fa, giovani e inquieti.

Se uno cerca pericoli li trova ovunque, anche a casa. Se poi uno ci si vuole cacciare per forza, non glielo puoi impedire. La montagna accende e stimola i cacciatori di pericoli a confrontarsi con i propri limiti, a lanciare sfide. Li capisco. Ogni tanto mi ci sono cacciato anch'io, ma stavolta non me la sono sentita e non ho insistito più di tanto per usare quell'anfiteatro naturale.
In primo luogo perchè se si organizza uno spettacolo con il pubblico ci sono una valanga di autorizzazioni da ottenere; e poi perchè la valle del Vajont mi ha sempre ispirato un sentimento diverso dalle altre montagne che conosco, un po' come il cimitero degli indiani che Robert Redford non voleva attraversare nel film 'Corvo Rosso non avrai il mio scalpo'. Non è questione di superstizione, ma di rispetto e d'istinto.

Così il luogo dello spettacolo - il Teatro della Diga - viene spostato un po' più a monte, dove c'è già un pianoro più aperto e sicuro. Tre mesi per avere tutti i permessi, poi il 15 settembre arrivano i bulldozer e fanno il loro lavoro di sbancamento. Sulla spianata si costruisce un anfiteatro artificiale con tre gradinate e uno spazio centrale basso, senza palcoscenico. La buca verde resta dietro: nella diretta tv appare nelle inquadrature a campo lungo verso la diga, solo che sembra blu: un bel blu notte sullo sfondo delle luci da teatro.
Non è proprio piccolo, un teatro per mille spettatori. Mille in più o mille in meno non spostano di niente gli indici di ascolto, ma se mille si spostano tutti insieme per andare in un luogo poco abitato e un po' isolato nascono problemi di accoglienza, di sicurezza e anche di convivenza con la vita di quel luogo. Credo che quasi tutti quelli che sono riusciti a trovare un biglietto per venire il 6, il 7 o il 9 ottobre a una delle tre serate al Teatro della Diga ne conservino un ricordo forte, una cosa da raccontare.
Per me è stato così.

È stata anche un'occasione di lavoro fianco a fianco con tecnici, operai, amministratori, volontari, vigili, pompieri, protezione civile, guardie forestali, carabinieri. Abbiamo visto l'emozione e l'interesse crescere nella squadra milanese di Raidue, e anche nei miei compagni: gente che di mestiere si occupa di teatro ma che per una volta si trovava così lontano dal proprio ambiente, costretta a misurarsi con i limiti di una professione che non ti prepara a un'esperienza di questo genere, trascinati di colpo a sconfinare dentro la televisione da una gola profonda delle Alpi che, quando la guardi, tutto sembra meno che un teatro.

Sembra piuttosto un set cinematografico, a vederlo dai tornanti della strada per Erto la sera del 4 ottobre, quando per la prima volta il tir dei generatori mandato dall'Enel entra in funzione e finalmente le luci che abbiamo sistemato nei giorni scorsi si accendono tutte insieme.

L'effetto è spettacolare, magico.

Usare questi aggettivi pare gratuito, ma il risultato è quello. Ci sono gelatine e filtri di conversione, c'è un impasto sapiente che combina le fonti luminose per ridisegnare i profili della diga e delle montagne.
È illuminata la valle, ma non a giorno, così non si crea quell'effetto inquietante che danno le luci bianche delle fotoelettriche quando vengono accese dai soccorritori nei luoghi dei disastri. Non ricorda nemmeno le luci gialle dei monumenti e delle fabbriche, quella luce, e nemmeno l'effetto «sbiancato candeggina» delle partite notturne negli stadi. La valle è illuminata di blu.
Guardando nei monitor si vedono degli aloni d'un arcobaleno tutto blu, da chiaro a scuro. Si ha l'illusione che non ci siano luci, che sia la notte a essere chiara e il buio trasparente. Se alzo lo sguardo dal monitor, il blu è tutto attorno e l'illusione cinematografica è completa. Siamo in un film!
Solo che i film vengono girati prima e visti dopo, si impiega il tempo che serve a fare le riprese, ci si dà un margine di tempo, si calcolano gli imprevisti, le condizioni meteorologiche (la pioggia che si vede nei film è quasi sempre finta, se piove sul serio ci si ferma). No, non siamo in un film: siamo in un teatro all'aperto a settecento metri sul livello del mare, in una zona piovosa in fondo alla gola.
E se nevica? Se viene una nebbia fitta? (A volte la diga blocca le nuvole basse e le fa ristagnare).

Quante volte mi è capitato con gli spettacoli all'aperto di doverli interrompere, di mandare tutti a ripararsi da un temporale maligno sperando di poter asciugare qualcosa e ricominciare dopo. In questi casi, la maggior parte delle volte il pubblico non se ne va, partecipa alla sfida, aspetta fiducioso (e se anche gli attori aspettano, lo spettacolo inumidito in qualche modo arriva in fondo). Ma qui al Vajont, se piove che cosa si fa? Si fa, si fa lo stesso. Avvisate il pubblico di portare ombrelli e giacche a vento. Si fa lo stesso: siamo in diretta. Tutto quello sforzo, tutte quelle persone, tutte quelle luci, tutto un progetto giocato su una sola certezza un po' arrischiata: si fa lo stesso.

Non ho mai fatto televisione, un po' di cinema sì, sono stato anche su qualche set difficile in alta montagna. Ma lì c'era la possibilità di sbagliare, di rifare: qui no. Il 4 ottobre al calare del sole mi è venuta la diarrea, un po' prima di cominciare la prova, ma credo sia normale in questi casi...

Si sente il ronzio del gruppo elettrogeno lassù sulla strada sotto lo strapiombo di Casso: mi sto facendo mettere addosso due microfoni, uno è di riserva. Durante il pomeriggio sono stato a cercare una maglia che potesse andare bene sia alle telecamere che a me. Tornando al Vajont mi sono venuti i sensi di colpa, mi sembrava di essere stato in vacanza e così ho comprato quattro chili di pasticcini per tutti.

Oltre a noi del teatro, alla squadra Rai, ai collaboratori, c'è un viavai di avventizi e di curiosi. Succedono cose surreali.
Il 2 ottobre doveva arrivare da Milano un pullman di giornalisti per la conferenza stampa che si sarebbe svolta sulla spianata dei bulldozer, col teatro e con la diga sullo sfondo. Aspettavamo quel pullman insieme ai quattro sindaci dei comuni coinvolti nel Vajont, a Carlo Freccero, il direttore di Raidue che aveva voluto quella serata, e agli altri inviati dei quotidiani e delle televisioni locali, che già da giorni seguivano con entusiasmo la preparazione ed erano arrivati lì con mezzi propri. L'attesa si prolungava: di colpo portare quei giornalisti fin lassù sembrava così difficile. Ma allora come avremmo fatto a comunicare agli spettatori che non stavamo parlando solo della storia locale di quella valle, di quella diga, di quella gente?
Come farli arrivare in fondo, come fargli sentire che questa storia li riguardava ?
Lo so, capisco che il ragionamento non fila, che c'è una differenza fra il gruppo dei giornalisti che arriva in gita-trasferta al Vajont e il pubblico di casa, però...

L'addetto stampa Rai scende dall'auto e riferisce che il pullman è in arrivo: lo ha lasciato ai primi tornanti sotto le gallerie. È abbronzato, impeccabile, sembra anche truccato ma è solo l'effetto «calza di nylon permanente» che ha stampato in faccia. Accoglie e sistema gli ospiti e introduce la conferenza stampa rivolgendosi a noi, che li stiamo aspettando da un'ora e mezza. L'inizio: «Voi che state in questa ridente vallata non potete capire che traffico c'era stamane a Milano».
Per fortuna nessuno dei quattro sindaci se ne accorge, sono emozionati, anche troppo; tre su quattro non riescono a finire il discorso per il groppo in gola. Le ruspe, i TIR, le telecamere non c'entrano: è la terra sotto i piedi che li fa tremare, il terreno su cui stiamo, dove abbiamo piantato i picchetti: è il terreno della frana. Qui c'era la valle, poi c'è stata l'acqua del lago e poi la terra venuta giù dal Toc a seppellire cose e persone.
Lo capiamo che è così, però è vero che stando qui è difficile capire quanto traffico c'era stamane a Milano.

Il pullman riparte e ho la sensazione che forse non siamo riusciti tanto bene a spiegare cosa faremo quassù il 9 ottobre.



_ Alla memoria di TINA MERLIN _


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