Dal libro «I COMPLICI

di Lirio Abbate & Peter Gomez

Pagine da 255 a 266

[...] una semplice boutade: la battaglia per il miglioramento delle condizioni dei detenuti passa per la stampa e le TV. L'ha capito Guttadauro e l'ha capito Provenzano, l'uomo che nelle sue conversazioni don Giuseppe chiama «il fantasma». E poi, al di là dei desiderata della mafia, il problema delle prigioni italiane è un problema reale, 41 bis a parte, chi sta in galera spesso si trova di fronte a situazioni da Terzo Mondo: sovraffollamento, strutture fatiscenti, carenza di assistenti sociali.

Per vedere esaurito il proprio desiderio don Giuseppe dovrà però attendere parecchio: «Il Foglio», in collaborazione con Radio Radicale, solo a partire dal maggio 2005 comincerà a pubblicare un inserto quindicinale intitolato «Radio Carcere», dedicate alla questione prigioni, mentre un anno dopo sarà l'Ulivo, con l'appoggio di Forza Italia e UDC, e il voto contrario dell'Italia dei Valori, ad approvare un indulto di tre anni, in virtù del quale torneranno libere oltre quindicimila persone.

Per il momento, comunque, il boss pensa soprattutto ai carcerati di Palermo. Per questo vagheggia di far visitare anche a Giuliano Ferrara l'Ucciardone, mentre Aragona, il 9 aprile 2001, insiste sul nome di Jannuzzi. «Dobbiamo essere intelligenti, dice, «[dobbiamo ragionare] su quali spunti gli dobbiamo dare, perché glieli possiamo dare tranquillamente a Jannuzzi. Anche all'altro, [a] Giancarlo Lehner, quello che è stato denunciato dal pool di Milano, che è stato assolto». Secondo Aragona, oltretutto, parlare con Jannuzzi e tutt'altro che impossibile: «E' in intimissimi rapporti con Marcello Dell'Utri... tanto che quando Contrada [Bruno Contrada, l'ex vicedirettore del SISDE condannato in appello a dieci anni di carcere per mafia] ha presentato un libro... a Milano, lo ha presentato al Circolo che è la sede culturale e intellettuale di Dell'Utri, in via Senate, in una biblioteca famosa dove ha tutti i suoi libri, no? E io sono stato invitato, una volta, mi arrivano sempre le cose, e lì sono stato [al Circolo]. [Alla presentazione] non ci sono andato, però c'era Contrada, c'era [l'avvocato] Milio. c'era il figlio del giudice Costa e c'era Jannuzzi'. Il segretario di Dell'Utri mi ha sempre detto: "Quando lei vuole parlare con Jannuzzi, io lo chiamo e le fisso un appuntamento". Allora se io gli devo dare delle imbeccate, degli spunti di riflessione [lo posso fare], poi lui sa quello che deve fare». Guttadauro risponde: «Basta dire [a Jannuzzi] che vada a farsi un giro all'Ucciardone».

Ma, per quanto Provenzano, Guttadauro e gli altri boss ancora liberi si sforzino per trovare delle soluzioni, tenere a bada i ragazzi nelle carceri è ormai difficilissimo. Disperati, senza futuro, schiacciati dalle condanne che nel loro caso si susseguono senza sosta - mentre i politici e i colletti bianchi riescono spesso a farla franca -, espropriati dai patrimoni, sottoposti al 41bis, i padrini detenuti stanchi di promesse se la prendono con chi possono. Il loro primo bersaglio sono gli avvocati difensori. Per tutta la seconda parte degli anni Novanta i legali palermitani ricevono scritti anonimi contenenti terribili minacce: «Vi siete fottuti i milioni e ora dovete fermare gli ergastoli» è il refrain che più spesso si legge in quelle missive.

Più volte, nel corso degli anni, la situazione sembra sul punto di esplodere. Accade il 24 settembre 1996 quando, dal penitenziario palermitano di Pagliarelli, viene spedita una lettera aperta, questa volta firmata da oltre cento detenuti, che chiede una difesa più agguerrita, forse anche più politicizzata, per sostenere quello che viene definite «l'attacco giustizialista» della Procura di Palermo. Citando Ezra Pound, i carcerati - primo fra tutti Emanuele Reda, fedelissimo di Bagarella - ricordano ai loro difensori che «se un uomo non sa rischiare per le proprie opinioni, o le sue opinioni non valgono niente o non vale niente lui». E, visto che in Sicilia le cose inutili finiscono spesso sottoterra, è facile intuire lo stato d'animo dei destinatari.

L'allora presidente della camera penale, Nino Mormino, il difensore di boss come Riina, Madonia, Giuffré e Bagarella, allarga le braccia e ai giornalisti dice: «Si parla da anni di riequilibrare i poteri tra accusa e difesa, ma finora non s'è fatto nulla...».

Non che gli affari ne risentano. A Palermo, in quel periodo, solo un avvocato, Carlo Fabbri, ex civilista, ha accettato di assistere i pentiti. Altri, come Francesco Crescimanno, Vincenzo Gervasi, Piero Milio e Nuccio Di Napoli, hanno scelto di patrocinare, nei processi di mafia, le parti civili. Gli altri, quasi tutti, si dedicano alla clientela di Cosa Nostra. Perché l'imputato che fa decollare il borsino di un avvocato resta quello mafioso, il boss che paga fior di milioni di lire e, se rimane soddisfatto, si trasforma in una rendita sicura per anni. Molti penalisti sostengono, a ragion veduta, che non c'è nulla di male ad assistere imputati di mafia. L'importante è improntare i rapporti alla correttezza.

Certo, la correttezza: questo è il problema. Il primo, perché troppe volte, in passato, avvocati di mafiosi sono finiti in manette per essersi trasformati da "tecnici" in "consigliori". O, peggio, per aver condiviso con i loro clienti affari e interessi illegali.
Il secondo problema e che la mafia spara: anche agli avvocati.

Una legge per la mafia

Nelle prime settimane del 2002 l'umore dei carcerati torna nero. Silvio Berlusconi è al governo ormai da più di sei mesi, ma anche se la nuova maggioranza ha subito approvato delle norme che oggettivamente favoriscono Cosa Nostra, per i detenuti non è arrivata la svolta sperata. Ai boss in galera che Dell'Utri e Jannuzzi abbiano proposto e siano riusciti a far passare una legge sulle rogatorie (poi vanificata dalle interpretazioni dei tribunali, della Cassazione e della Consulta) in base alla quale tutte le carte fino a quel giorno arrivate dall'estero diventavano carta straccia, importa poco. E anche lo scudo fiscale, ideato dal ministro Tremonti, che permette di far rientrare in Italia i capitali sporchi nel più assoluto anonimato, e una bella cosa per chi sta fuori, per i colletti bianchi, ma e quasi inditferente per i boss e i soldati condannati all'ergastolo.

Eppure per tutta la seconda parte del 2001 nelle prigioni sono proseguite le grandi manovre. Anche uno storico mammasantissima del calibro di Pippo Calò si è detto disposto a dissociarsi. Mentre il braccio destro di Riina, Salvatore Biondino, a Rebibbia ha chiesto il permesso di fare lo 'scopino': ovvero di poter girare indisturbato per i corridoi della casa circondariale ufficialmente, come 'uomo delle pulizie'. Uno dei dirigenti del DAP, l'ex PM palermitano Alfonso Sabella, lo ha però scoperto. E sapendo che mai un boss di quel livello si abbasserebbe a fare un lavoro del genere, ha sospettato che si trattasse di un escamotage per dar modo ai capimafia di scambiare opinioni tra loro. Per questo ha bloccato tutto. Ma, due giorni dopo, l'ufficio diretto da Sabella è stato chiuso dal nuovo responsabile delle carceri, l'ex procuratore di Caltanissetta, Tinebra.

In questo clima contraddittorio, fatto di continui 'stop and go', il 23 gennaio 2002 in Parlamento viene depositata una proposta di legge sconcertante. I primi firmatari sono tre avvocati penalisti: il deputato di AN Sergio Cola, eletto a San Giuseppe Vesuviano, e difensore di alcuni presunti camorristi14; il parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, un avvocato calabrese che annovera tra i propri assistiti 'ndranghetisti, massoni e imputati di tangenti; e il nuovo vicepresidente della Commissione Giustizia della Camera, il principe del foro di Palermo, Nino Mormino, eletto nelle file degli azzurri e subito diventato vicepresidente della Commissione Giustizia della Camera.

I tre vogliono in pratica capovolgere l'intero codice di procedura penale. Chiedono, tra l'altro, l'avviso di garanzia immediato, la possibilità di far scattare le manette solo nel caso di reati gravissimi e l'inutilizzabilità delle sentenze passate in giudicato. Se la legge passasse (ma le proteste la bloccheranno in tempo) tutti i processi e le indagini antimafia, e non solo quelle, diventerebbero impossibili. Gli indagati sarebbero subito informati delle inchieste a loro carico rendendo inutili intercettazioni, pedinamenti e l'utilizzo d'infiltrati. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non varrebbero più se non in presenza di riscontri «di diversa natura»: in aula anche davanti a più mafiosi che, separatamente tra loro, ne accusano un terzo di essere ritualmente 'combinato', o di aver ucciso qualcuno assieme a loro, il giudice dovrebbe assolvere a meno che non ci sia un elemento ulteriore a corroborare le loro parole. Ma l'onorata societa, si sa, non stila documenti, non agisce sotto gli occhi di testimoni esterni. E non è tutto. c'è di peggio. Con la nuova legge anche l'esistenza stessa della mafia verrebbe messa in dubbio: in ogni dibattimento, senza tenere conto delle sentenze del passato bisognerebbe dimostrare che in Sicilia opera un'organizzazione di tipo verticistico denominata Cosa Nostra.

Difficile credere che i tre estensori della proposta non se ne siano resi conto. Impossible pensare che la mafia non abbia gradito. E infatti Cosa Nostra approva. Anzi sponsorizza attivamente. O almeno così sosterrà Nino Giuffré nei suoi interrogatori davanti ai PM di Palermo dove per tre giorni, tra settembre e novembre 2002, parlerà a lungo dell'onorevole Mormino, per anni suo difensore di fiducia.

Un avvocato per amico

Che le elezioni del 2001 sarebbero state vinte dal Polo lo avevano capito tutti. Anche la mafia che, come sempre, aveva organizzato del suoi personalissimi sondaggi elettorali. I boss di ogni paese, una volta consultati i parenti, gli amici, i negozianti e gli imprenditori da cui riscuotevano il pizzo, avevano riferito gli umori dell'elettorato ai loro capimandamento che poi ne avevano parlato direttamente con Bernardo Provenzano. "Il vecchio" aveva così stabilito di andare avanti sulla strada antica, quella del 1993. Voleva cavalcare l'onda e, in linea di massima, appoggiare il centrodestra.

Tra i candidati da supportare, Binu il ragioniere ne individua uno su cui fa particolare affidamento. Dopo essersi confrontato con Pino Lipari, che essendo anche suo cliente ne ha saputo apprezzare l'abilità, decide di puntare sull'ex socialista Nino Mormino, da trent'anni difensore del 'gotha' mafioso e presidente della camera penale del capoluogo siciliano.

E' Provenzano in persona a comunicare a Giuffré la scelta, spiegando di aver pensato a Mormino, assieme a Lipari, perché era «una persona abbastanza preparata per risolvere determinati argomenti giuridici in Parlamento». 'Manuzza' è entusiasta e oggi sostiene di aver ricevuto, tramite un intermediario che però non indica, un messaggio direttamente dall'avvocato: «State tranquilli. Io nel momento in cui sarò a Roma mi adopererò a fare i vostri interessi, a fare le cose giuste per venirvi incontro». Giuffré dipinge insomma il presunto accordo con Mormino come il più osceno degli scambi politico-mafiosi.

Zio Binu invita i suoi alla calma. Il sostegno a Mormino deve avvenire «dietro le quinte», la sua deve essere «una candidatura bella, bella. Muta muta, per evitare di danneggiarlo e di bruciarlo».

Come al solito, mantenendo il suo fare misterioso e riservato, Provenzano di fronte agli altri capi lascia intendere di saperla piu lunga di tutti. Quando a un mese e mezzo dalle elezioni la candidatura di Mormino, che doveva avvenire nel collegio di Termini Imerese, sembra sul punto di saltare per dissidi interni a Forza Italia, zio Binu tranquillizza Giuffré: «Non ti preoccupare si candiderà in un collegio sicuro». Proprio in quei giorni duecento avvocati della camera penale di Palermo manifestano contro l'esclusione del loro più noto collega e a ventiquattr'ore dal deposito delle liste, Mormino viene presentato nel collegio Cefalù-Madonìe. Poi, tra i paesini di quella catena montuosa dove la famiglia Mormino ormai da sette generazioni esercita la professione forense e dove anche i nomi dei clienti si susseguono, l'avvocato dei boss sbaraglia gli avversari raccogliendo il 48 per cento dei voti. Una vittoria clamorosa a cui pure Cosa Nostra, secondo Giuffré, darà il proprio sostanzioso e silenzioso contributo.

Dopo gli incontri con Provenzano e le discussioni su Mormino, i capimafia sono tutti «infervorati», sperano di ottenere finalmente «la revisione dei processi», di risolvere «il problema dei pentiti, il problema del sequestro dei beni» e di ottenere «un alleggerimento della magistratura [...] nelle condanne». Nelle riunioni, racconta Giuffré, tutti dimostrano però di aver capito che quelli «non sono problemi, sono macigni e che rimuoverli non sarà una cosa facile». Ma non appena la prospettiva di mandarlo a Montecitorio diventa reale si mettono al lavoro perché sono «convinti che [lui è] l'ultima carta che ci potevamo giocare» e che quella da combattere «era una battaglia all'ultimo sangue».

Il 28 marzo 2001, a meno di tre settimane dal voto, Pino, un cliente di Mormino (mai esattamente identificato), entra nel deposito di materiali edili di proprieta dei fratelli di Salvatore Rinella, il capomafia di Trabìa.

Salvatore non c'è. Da otto anni è latitante. Si nasconde a Palermo, e per evitare la cattura cerca di stare alla larga da Trabìa, un piccolo centre sorto nel X secolo sulla costa ai piedi delle Madonìe, intorno al castello dei principi Lanza, a meno di cinque chilometri da Termini Imerese, dove Mormino è nato e dove è stato a lungo presidente della locale camera penale.

Rinella è un uomo d'onore di prima grandezza. E' stato condannato all'ergastolo per omicidio e traffico di droga, ma dal suo nascondiglio riesce a controllare ancora tutto: sindaci del paese, assessori, appalti. Il suo potere è tale, e la considerazione nutrita da Provenzano nei suoi confronti è così grande, che lui legittimamente sogna di poter un giorno succedere a Nino Giuffré, in quel momento ancora libero, alla guida del mandamento di Caccamo. Per questo invia a Giuffré lunghe e accorate lettere. In una di esse si legge: «Ti scrivo per ricordarti che sono sempre la persona che hai conosciuto più di vent'anni fa, legato a quei valori che abbiamo sempre condiviso. Sono sempre la persona che è rimasta legata sempre e per sempre agli uomini che tu sai con in testa tu».

A Trabìa, Rinella, ha lasciato ogni cosa in mano ai suoi più giovani fratelli Pietro e Diego. Sono loro che curano la raccolta delle tangenti ricevute dagli imprenditori e i rapporti con le altre cosche della zona. I due sono mafiosi fatti e finiti. Pietro è anche un killer: ha ucciso un buttafuori di una discoteca che tendeva ad allargarsi troppo andando, senza autorizzazione, a chiedere il pizzo ai negozianti.
Il 28 marzo Pino, il cliente di Mormino, saluta dunque Diego e Pietro Rinella con calore. «Diego, amore mio come stai?». «Non ci possiamo lamentare, Pino. Siediti, quando ti vedo è sempre un piacere. Dimmi però, che abbiamo?». «Un messaggio dell'avvocato mio», dice l'uomo allungando a Diego l'elenco dei seggi elettorali del collegio in cui è candidato il suo legale. Poi aggiunge: «Vedi tu dove puoi [raccogliere voti]... per la Camera, contro Lumìa quel bastardo [Giuseppe Lumìa, l'ex presidente diessino della Commissione Parlamentare Antimafia]».

«E qui il [candidato] è...», chiede il mafioso osservando la lista.
«L'avvocato Nino Mormino alle camere e questi sono i comuni dove ci sono i seggi».
«Vabbè, ora ci muoviamo, Pino». «Dei voti di Trabìa, di quelli che votano a Termini, non ne fai scappare nemmeno uno».
«E poi anche nei paesi, quelli che conosciamo...». «Nei paesi quelli che conoscete, io ti ho portato la lista apposta, ma per favore mettitela in tasca... prima che ti incontra quel bastardo, quel becco di Lumìa e dice voti di mafia...».
«No, minchia no...», esclama il fratello del boss latitante scoppiando in una lunga risata. E continua: «L'altra volta ci sono andato a trovarlo [verosimilmente si riferisce a Mormino], mi ha detto che doveva andare a Caltanissetta. Allora gli ho detto: "Sei con l'amico mio?". [Mi ha risposto:] "A posto, lo sai che le cose vanno perfette". [E] come se [ci] fossi andato io. Ho pure parlato con Tomasino, con altri cristiani [mafiosi]».
«[Ma] lo sai che se sale Forza Italia, è l'uomo giusto al posto giusto...».
«Certo, certo, che fai, scherzi?».
«Lo sai questo dove va a finire?».
«Certo...».
«Lo sai o non lo sai?».
«Commissione... commissione...».
«Commissione Antimafia, al posto di Lumìa... [Però] mosca e acqua in bocca».

Diego Rinella quasi non ci vuole credere. Gli pare impossibile che in un posto così importante finisca «uno che a noi fa le cose buone», ma Pino è categorico: «Se Forza Italia va al governo come si aspetta e l'avvocato mio sale» sarà un bene per tutti. La cosa, oltretutto secondo lui, è scontata, visto che Mormino «ha agganci come si deve e manca un mese alle elezioni».
Diego, proprio come ha suggerito Provenzano, dice: «Allora noi ci muoviamo. Però con riservatezza, come merita lui, con molta pacatezza, e tu Pino capisci [altrimenti] gli facciamo danno».

Anche Pietro Rinella, che aveva seguito tutta la discussione in silenzio, fa a quel punto sentire la propria voce per ribadire il concetto: Cosa Nostra non deve esporsi troppo perché «non ci possiamo mettere contro» l'antimafia. «Però», chiarisce Diego, «i cristiani [...] quelli stretti stretti» saranno tutti contattati. E da loro si presenterà direttamente Salvatore Rinella, il capomafia all'epoca latitante: «[Da quelli] ci va mio fratello, ci va e ci dice: "Senti, senti" e loro ci votano...». «E basta», lo interrrompe Pietro.

Insomma tutto avverrà a livello centrale, a livello di mammasantissima. Gli altri, gli elettori e grandi elettori di non assoluta fiducia, non sapranno niente. Ma Pino è contento lo stesso, perché, dice, «i quaquaraqua non mi interessano». E così l'incontro si conclude con i due mafiosi che pregano l'amico di portare i loro ossequi all'avvocato: «Salutamelo, io qualche giorno di questi ci vado». «Digli di stare tranquillo».

«Berlusconi dimentica la Sicilia»

Davvero Mormino ha stretto un patto elettorale con la mafia?
Davvero l'avvocato di Riina e Bagarella e stato mandate a Roma, come dice Giuffré, «per portare avanti la barca di Cosa Nostra»?

I pubblici ministeri di Palermo al termine di una richiesta di archiviazione, fatta poi propria dal GIP, lunga 166 pagine, sostengono di non aver potuto rispondere a queste domande. Dicono che glielo ha impedito la Costituzione: la legge delle leggi che vieta di perseguire «i membri del Parlamento per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle funzioni». Per questo affermano che, se anche l'appoggio della mafia al vicepresidente della Commissione Giustizia sembra emergere dagli atti come fuori discussione16, non si può dire lo stesso del presunto patto politico-mafioso. Infatti: la controprestazione di Mormino [nei confronti di Cosa Nostra] sarebbe dovuta consistere "esclusivamente" nel contribuire, una volta eletto, ad attenuare gli effetti della cosi detta "legislazione antimafia" mediante l'approvazione di nuove, piu favorevoli leggi. Senonché, a ben vedere, per assolvere a questo specifico onere probatorio, non appare giuridicamente corretto ipotizzare che rientri tra i poteri dell'autorità giudiziaria quello di analizzare e sindacare le opinioni e le scelte di voto rispettivamente espresse ed effettuate da un parlamentare nell'ambito del suo alto mandato.

E allora poco importa se le cronache raccontano come Mormino, nelle vesti di relatore, sia riuscito17 nel gennaio 2003 a far pure approvare dalla propria Commissione (ma solo da quella) anche un indulto di due anni (il cosiddetto "indultino") allargato anche ai condannati per mafia ed escludendo solo quelli ai quali è stato riconosciuto il ruolo di capo. Non potendo andare «per ragioni giuridico-istituzionali» a caccia di riscontri «in ordine alle ipotesi di scambio politico-elettorale», la posizione di Mormino, secondo la Procura, va archiviata per insufficienza di prove18. Restano, e dovrebbero essere materia di discussione della Commissione Parlamentare Antimafia, i fatti accertati durante l'inchiesta. Fatti politicamente inquietanti. Forza Italia e tutta la Casa delle Libertà, invece, esultano. Il coordinatore degli azzurri, Sandro Bondi, definisce Mormino «un galantuomo». Marcello Dell'Utri, nel 2006, licenzia i propri avvocati e prende lui, il principe del foro di Palermo, come legale per il proprio appello, mentre Cuffaro lo aggiunge, a dibattimento in corso, all'ottimo collegio difensivo che già lo assiste. Poi Mormino viene riportato in Parlamento, dove oggi non siede solo nella Commissione Giustizia, ma è salito di grado diventando pure vicepresidente della Giunta delle Elezioni e del Comitato per i Procedimenti di Accusa.

Eppure le 166 pagine della richiesta di archiviazione sono pesanti, anche perché leggendole si scopre che il deputato di Termini Imerese è un avvocato che «ha intrattenuto rapporti chiaramente esulanti i limiti della deontologia professionale con alcuni boss. E a dirlo non sono solo i pubblici ministeri. Lo ha ammesso lui stesso nel 1983, a Firenze, quando era stato interrogato nelle vesti di imputato di favoreggiamento nei confronti diun suo celebre cliente, il trafficante di droga e capo incontrastato del clan della Kalsa, Tommaso Spadaro, noto per essersi definito durante il maxiprocesso «l'Agnelli di Palermo», perché grazie al contrabbando dei tabacchi faceva lavorare centinaia di famiglie. Allora, i magistrali sospettavano che Mormino avesse dato una mano al padrino palermitano durante la latitanza aiutandolo a sottrarsi alle ricerche.

Dall'ascolto di alcune telefonate intercettate emergeva la familiarità esistente tra l'avvocato e il proprio assistito: i due si davano del tu e il boss andava a trovarlo, sia a casa che in ufficio, anche nei giorni festivi. Altre conversazioni, scriveva il giudice isiruttore fiorentino, «attenevano [invece] a tentativi di contattare terze persone tramite le quali avvicinare per vie traverse i membri del tribunale che dovevano decidere sulla confisca dei beni dei familiari dello Spadaro e ottenere con tali illecite pressioni una pronuncia favorevole a questi ultimi».

Poi Mormino era stato interrogato. E il suo faccia a faccia con i magistrati non era stato una passeggiata. Inizialmente aveva affermato «di aver intrattenuto con Spadaro rapporti di natura esclusivamente professionale, di non aver ricevuto pressioni per avvicinare i membri di un collegio penale e che con il medesimo si dava del lei». Ma era una bugia e non appena gli erano state contestate le intercettazioni con il capomafia, anche Mormino l'aveva dovuto confermare.

Teso e preoccupato, il futuro vicepresidente della Commissione Giustizia, aveva insomma cambiato versione arrivando persino ad ammettere di aver tenuto «un comportamento inopportuno dal punto di vista deontologico», visto che quando l'amico mafioso gli aveva chiesto di darsi da fare per trovare il modo di aggiustare il processo sulla confisca dei beni delta famiglia Spadaro lui «aveva ritenuto di scegliere la via del rifiuto non perentorio». Insomma invece che dire «ma cosa ti salta in mente? Un avvocato onesto e serio certe cose non le fa», si era limitato a rispondere «la cosa è difficile».

Alla fine però Mormino a Firenze era stato prosciolto «per difetto di dolo». La prova che il legale avesse agito «con l'intenzione di favorire la latitanza» del boss non c'era. Gli incontri tra lui e «l'Agnelli di Palermo» anche se avvenuti a casa, persino alla mezzanotte di domenica, attenevano sempre i processi in cui il narcotrafficante era coinvolto, mentre le persone che, stando alle telefonate, dovevano in qualche modo essere contattate per ammorbidire la sentenza nei confronti dei suoi familiari avevano «escluso che il Mormino [avesse] in concreto svolto su di loro pressioni di qualsiasi genere per indurli a fare raccomandazioni a favore del suo assistito».

Certo restava il fatto, grave per chi diciassette anni dopo avrebbe ricoperto una carica istituzionale tanto importante, che Mormino avesse «esulato dai doveri inerenti la qualità di difensore», ma una volta riesaminati tutti gli atti non era rimasto altro da fare che dichiarare il non luogo a procedere con la formula «perché il fatto non costituisce reato».

10. IL GIOCATTOLO

Tanta disinvoltura nei rapporti con la clientela di rispetto finirà però per fare di lui un avvocato a rischio.

Difensore di Riina, Bagarella, Lipari, Ciccio Madonìa, secondo molti pentiti, durante il maxiprocesso Mormino verrà condannato a morte. Giuffré sostiene che la decisione fu presa «in maniera riservata dalla commissione» perché «vi erano decine di persone che hanno versato al signor avvocato Mormino centinaia di milioni di lire» nella certezza sbagliata di essere assolti. E aggiunge: «A me questo discorso è stato fatto da Provenzano perché sapeva che era avvocato di mia fiducia, e gli ho detto: "zio Binu e che facemu d'accussì?". Mi ha guardato in faccia, e mi ha detto: "vediamo un pochino come lo possiamo salvare...". Forse anche a Mormino c'ho salvato la vita io».

Ma la condanna nei confronti del penalista, aggiunge il pentito, non è stata cancellata, è stata solo congelata. Per questo Mormino si sarebbe dimostrato disponibile a sostenere Cosa Nostra in Parlamento: «L'avvocato Mormino aveva un conto in sospeso e penso che anche lui che non è un fesso lo aveva capito. Questa era la prova d'appello a cui è sottoposto l'avvocato Mormino, se sbaglia in questa situazione l'avvocato è destinato a morire. In termini nostri diciamo che non può babbiare [non può scherzare]. L'incolumità dell'avvocato Mormino è appesa a un filo. Non lo penso io, lo dicono i fatti. I conti si pagano».

Non per niente nell'estate del 2002, quando, nonostante le proposte all'esame delle Camere, la situazione nelle carceri ancora non cambia e anzi sta per passare una norma che introduce il 41 bis tra le leggi dello Stato, Luchino Bagarella, il cognato di Riina, legge ai giudici della Corte di Trapani un comunicato in cui accusa, in buona sostanza, la politica di non aver rispettato i patti: «Noi detenuti sottoposti al 41 bis [siamo] stanchi di essere strumentalizzati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche». Subito dopo i boss detenuti nei supercarcere di Novara scrivono una lettera aperta: «Dove sono gli avvocati delle regioni meridionali [...] che hanno difeso molti degli imputati per mafia e che ora sono nei posti apicali di molte commissioni? Allora svolgevano la professione solo per far cassa?». Belle domande che assieme a soffiate precise e strane lettere intercorse tra i condannati per strage in cui si fa spesso riferimento alle gare di Formula Uno - indicate con la sigia F1, che ricorda tanto le iniziali di Forza Italia - spingono il SISDE a lanciare un lugubre allarme: in segno di avvertimento Cosa Nostra sta pensando di far fuori Marcello Dell'Utri, Cesare Previti. Ma anche Mormino e altri sei penalisti eletti in Parlamento, dice il servizio segreto civile sono da considerare a rischio. Tanto che alia vigilia di Natale del 2002, il figlio di un boss condannato per la strage di Capaci espone uno striscione inquadrato dalle TV di tutto il mondo: «41 bis Berlusconi dimentica la Sicilia».

A ben vedere, però, come ha modo di renders! conto Bernardo Provenzano, le cose non stanno così. Anche se, nel dicembre del 2002, il Parlamento rende definitiva l'applicazione del carcere duro per i mafiosi (che prima doveva essere rinnovata ogni due anni) e la estende addirittura ai terroristi e ai trafficanti di immigrati clandestini, per Cosa Nostra, 'ndrangheta e camorra quella non è una débacle. Non solo perche le nuove norme allargano ancora le maglie del regime precedente, permettendo per esempio ai detenuti di trascorrere le ore d'aria quotidiane in gruppi di cinque persone. Ma anche perché adesso contro il 41 bis, deciso dal ministro delta Giusdzia, si può ricorrere davanti ai tribunali di sorveglianza.

Addio 41 bis, addio...

Nel giro di qualche mese il regime penitenziario speciale viene revocato a più di cento boss, molti dei quali condannati per le stragi. L'elenco si allunga di settimana in settimana, mentre già nel 2004 una verifica della Commissione Parlamentare Antimafia dimostra come il carcere duro stia diventando sempre più morbido. E' ancora una brutta cosa, intendiamoci, ma rispetto a prima è tutta un'altra storia, l'isolamento è di fatto finito. I boss parlottano invece fitti fitti tra loro ogni domenica durante la celebrazione della Santa Messa officiata nel cortile davanti alle celle.
Spesso giocano a calcio tutti insieme appassionatamente. Socializzano un'ora al giorno, e non a gruppi di cinque carcerati massimo e tutti di diversa provenienza "criminale", come recita regolamento, ma lo fanno «in grandi gruppi di almeno quindici persone». Mettendo il naso nelle prigioni si scoprono casi di detenuti albanesi «reclutati alla causa» che possono andare di cella in cella, magari per le consegne con i carrelli, e che funzionano da ufficiali di collegamento». Per questo nell'antimafia il centrosinistra fa il diavolo a quattro e domanda di indagare per sapere «cosa succede giorno per giorno nelle carceri speciali». Lumìa va oltre nei sospetti e si chiede «come mai dopo i proclami pubblici dalle celle di Bagarella e Aglieri, esattamente due anni fa, in cui chiedevano ai parlamentari-avvocati di mantenere le promesse e di ammorbidire il 41 bis, non si è saputo più nulla». I boss tacciono. Forse perché sono stati «soddisfatti e accontentati»?

Il ministero della Giustizia risponde parlando di «strumentalizzazioni». «La responsabilità», dice Roberto Castelli, «è di certi giudici troppo garantisti». Il capo del DAP, il giudice Tinebra, comunque si giustifica: «Abbiamo cercato di correre ai ripari, ma il danno è fatto». E i PM durante la requisitoria contro Dell'Utri attaccano: «Questo "nuovo" 41 bis non spaventa più i mafiosi, e ne abbiamo dimostrazione da recenti inchieste giudiziarie».

I casi di capimafia scoperti mentre impartiscono ordini anche dal carcere duro si moltiplicano. E spesso i nuovi portaordini sono i bambini. Per evidenti ragioni umanitarie i boss possono abbracciare i figli, ma cosi nascondono nei loro vestiti bigliettini o sussurrano loro parole all'orecchio. Altre volte i messaggi arrivano attraverso la biancheria pulita fornita dalle famiglie.

Quando poi il mafioso non è al 41 bis comunicare è davvero diventato un gioco da ragazzi. A Palermo, grazie alle rivelazioni di una pentita, sposata con un capomafia delle Madonìe, viene scoperto un sistema semplicissimo utilizzato nel carcere di Pagliarelli. Un sistema registrato da microfoni e telecamere del quale però, prima delle rivelazioni della collaboratrice di giustizia, nessuno sembrava essersi reso conto.

Mogli, sorelle, fratelli si presentano per il colloquio tutti lo stesso giorno, uno dietro l'altro, nel grande parlatorio della prigione. I boss detenuti nel braccio di alta sicurezza sono seduti tutti assieme spalla a spalla. In mezzo c'e il vetro divisorio. II cenno di un rapido saluto a mogli e sorelle, poi i familiari si cambiano il posto. Un capomafia si ritrova davanti il fratello minore a cui dare disposizioni e mostrare bigliettini, l'altro di

(SEGUE nel libro)



NOTE

10. II giocattolo

1. Intercettazione ambientale effettuata dalla polizia il 2 agosto 2000, all'interno del residence Conturrana di San Vito Lo Capo (Trapani), fra Giuseppe Lipari, che vi trascorre il periodo feriale, e Salvatore Miceli, già condannato per il reato di partecipazione all'associazione mafiosa Cosa Nostra con sentenza nel frattempo divenuta definitiva. Il clima della conversazione è estremamente confidenziale e le circostanze riferite da Lipari sono lo specchio fedele dello "stato" dell'organizzazione. L'intercettazione è contenuta nella richiesta di custodia cautelare Agosta + 29 del 24 gennaio 2002.

2. Ibidem

3. II comprensorio dell'Alto Belice corleonese è formato da ventitrè comuni e si estende su un territorio di 1.796 kmq.

4. Enrico Bellavia - Silvana Mazzocchi, "Iddu. La cattura di Bernardo Provenzano", Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2006.

5. «L'Espresso», 22 giugno 2000.

6. E' accaduto nel maggio del '97, esattamente dieci giorni dopo il misterioso omicidio del confidente Luigi Ilardo.

7. Si tratta di don Giacomo Ribaudo, l'amico del capomafia di Villabate Nino Mandalà, che scrive: «Molti boss sono disponibili a pentirsi in cambio della possibilità di accusare solo se stessi e di sconti di pena».

8. Cirami diverrà celebre otto anni dopo per aver redatto le norme sulla 'legittima suspicione' che - nelle intenzioni - avrebbe dovuto permettere lo spostamento dei processi 'Toghe Sporche' contro Berlusconi e Previti da Milano a Brescia.

9. ANSA, 26 giugno 1998.

10. Quando pure don Luigi Ciotti dell'associazione antimafia Libera si dice pronto a ragionare sulla cosa, Mastella gli telefona per sostenerlo.

11. La richiesta di archiviazione, poi accettata dal GIP, sarà anche firmata dal PM Salvatore Leopardi che diventerà invece capo degli ispettori del DAP.

12. ANSA, 8 giugno 2000.

13. Conversazione fra Giuseppe Guttadauro e Domenico Miceli del primo febbraio 2001 contenuta nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal GIP Giacomo Montalbano il 24 giugno 2003 Miceli + 3 richiesta dalla DDA di Palermo.

14. Cola è noto, tra l'altro, per aver sostenuto a spada tratta negli anni del centrosinistra il nuovo articolo 513 del Codice di procedura penale (che toglie valore di prova alle dichiarazioni rese davanti al PM) e per aver sottoscritto anche la proposta che mirava a svuotare il 192 (l'articolo che consente i riscontri incrociati fra collaboratori di giustizia).

15. Dichiarazioni di Antonino Giuffré.

16. I PM considerano tra l'altro: «Se è vero, come sembra alla luce delle dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia [oltre a Giuffré anche un pentito di camorra ha accusato il legate] e della intercettazione ambientale di cui sopra, che il Mormino ha "oggettivamente" ricevuto 1'appoggio elettorale di Cosa Nostra, dovrebbc ritenersi verosimile, in relazione agli scopi e alle dinamiche proprie dell'associazione di tipo rnafioso, 1'esistenza di un accordo preventive dal quale non possono che denvare vantaggi per entrambi i contraenti. Altrimenti opinando, invero, si dovrebbe immaginare che tale organizzazione, la cui storia criminale ha drammaricamente segnato in questi anni il nostro paese, abbia improvvisamente iniziato a operare come un semplice comitato elettorale [...] può dunque ragionevolmente ipotizzarsi che il sostegno [...] abbia implicato che il candidato Mormino, una volta eletto, avrebbe dovuto mettersi a disposizione, proprio come sostenuto dai collaboratori di giustizia». Resta però un dubbio, che secondo i magistrati rende impossibile il processo: in linea teorica la mafia avrebbe anche potuto decidere di appoggiare il legale autonomamente solo perche' riteneva «che una volta eletto potesse farsi portatore di una linea [...] oggettivamente più favorevole rispetto a quella dei suoi avversari politici» visto che «Mormino è da moltissimi anni un avvocato penalista difensore di esponenti di rilievo di Cosa Nostra con alcuni dei quali per altro [...] aveva intrattenuto rapporti chiaramente esulanti i limiti della deontologia professionale».

17. «Non so bene cosa sia successo» racconterà il commissario di Rifondazione Comunista Giuliano Pisapia, «so che il relatore Mormino ha riformulato l'emendamento che indica tutte le fattispecie di reati che non possono "beneficiare" dell'indulto. E in questa nuova versione si prevede che lo sconto di pena possa valere per i manovali e non per i boss».

18. Mormino è anche stato accusato di aver tentato da avvocato di aggiustare i processi e aver contribuito a creare perizie mediche fasulle. In questo caso però, secondo i PM, le accuse mosse da vari pentiti sono troppo vecchie e in qualche caso generiche per poter essere riscontrate: la prova, dunque, è insufficiente o contraddittoria.

19. Richiesta di archiviazione della Procura di Palermo nei confronti di Mormino del 19 marzo 2004, firmata dall'aggiunto Sergio Lari e dai PM Lia Sava e Michele Prestipino Giarritta, vistata dal procuratore Piero Grasso.

20. Era già accaduto nel 1997, quando il clan Vitale di Partinico, aveva dichiarato guerra a Binu e gli aveva mandato a dire «che doveva stare a casa a curarsi la famiglia».