Marcinelle, raccontato da Edoardo Pittalis.

SI SONO DIMENTICATI Dl SANTE ZENNARO, L'EROE CHE VENIVA DA GRIGNANO

Storie di emigrati partiti dalle Tre Venezie.
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Marcinelle è una miniera belga. Il Belgio è pieno di minatori italiani, sono più di 47 mila, i primi sono arrivati a fine giugno 1946 dopo l'accordo tra i due governi. De Gasperi e Van Acker si sono accordati: il primo mandava duemila operai la settimana nei cinque bacini minerari nei Valloni, il secondo spediva carbone a "prezzo agevolato": 300-400 chili al mese per ogni minatore. L'accordo prevedeva 50 mila italiani reclutati e scaglionati dalla Federazione belga degli industriali carboniferi. L'Italia aveva fame e miseria, il Belgio aveva bisogno di braccia per scavare il carbone. Due franchi al giorno, assegni familiari, mutua e pensione. Ma si deve lavorare in miniera almeno cinque anni di fila prima di poter cambiare, altrimenti si è chiusi in centri di raccolta e rispediti a casa.

0A Marcinelle gli ìtaliani vivono in baracche di lamiera incatramate alla meglio, e attorno corre il filo spinato, perchè sono le stesse usate dai nazisti come campo di concentramento e poi dagli alleati come campo di prigionia. Non tutte le baracche hanno l'acqua corrente. I belgi non amano quegli italiani poveri e rumorosi, non li vogliono tra loro, gli annunci immobiliari sui giornali recano tutti la stessa postilla: "Pas d'ètrangers, pas d'enfants, pas de bêtes". Niente stranieri, niente bambini, niente animali.

Bestie, e italiani, non meritano casa. Di quelle "bêtes" ne sono morte dal 1946 al 1956 ben 740 in vari incidenti nelle miniere. Tra gli altri nella galleria di Gileppe nel luglio 1952 erano rimasti sepolti due bellunesi, due trevigiani e due friulani. Mario Alfieri di Codroipo aveva 42 anni, Giuseppe Pascutti di Rigolato 48 anni e quattro figli. Erano tutti arrivati sei anni prima col "patto del carbone".
Ci vorranno decenni perchè i belgi cambino idee sugli italiani. Un giorno avranno Paola, una regina italiana, e tra i figli di quei minatori ci saranno un cantautore popolare, Salvatore Adamo, e forse il più tecnico calciatore belga di ogni tempo, Vincenzino Scifo.

A Marcinelle i "charbonnages" sono a 800 metri sotto terra, là in fondo ci finiscono soltanto italiani, polacchi e greci. A quota 835 un vagoncino trancia i cavi che portano la corrente, la miniera piomba nel buio totale, scoppia un incendio e le fiamme divampano in fretta nelle gallerie. Nessuno può risalire perchè le gabbie sono bloccate, e nemmeno l'ascensore del pozzo di emergenza funziona [guarda cosa accadde, dal sito belga della Memoria "8 agosto 1956"].

È la mattina dell'8 agosto 1956.
0Le sirene risuonano e si sentono lancinanti a chilometri di distanza. Accorrono pompieri e ambulanze. Forse trecento "gueules noirs", musi neri, sono rimasti prigionieri nel ventre della terra. Negli uffici fanno presto l'elenco delle squadre scese nei pozzi: più della metà sono italiani, un centinaio belgi, una quindicina di polacchi, cinque greci, tre ungheresi, due russi... Nel Bòis di Cazièr, come si chiama la zona del pozzo maledetto, c'è una folla strana sotto il caldo umido dell'estate piena: minatori in canottiera che sono usciti dalle baracche e risaliti dagli altri pozzi, madri e mogli di chi è sotto che aspettano da una parte, il cappellano tra loro prega, sulla porta degli uffici gli impiegati sono fermi come in attesa di un segnale. Sullo sfondo, montagne di carbone accumulato.

Un minatore di Roana, Angelo Galvan, 55 anni, è appena risalito alla luce dopo il turno di notte. È un capo turno, è stato un capo anche tra i partigiani sull'Altopiano, si precipita giù un'altra volta, sino all'imboccatura della miniera e scende tra i primi soccorritori. Ne salvano una decina, ma oltre non si può andare. "Torno dall'inferno" fa in tempo a scrivere nel suo libretto di lavoro il responsabile di un gruppo che in gran parte è rimasto bloccato. Galvan sarà premiato per il suo coraggio da re Baldovino; morirà di silicosi nel 1988 senza essersi mai allontanato dalla sua casa accanto a Marcinelle. Quando nel 1984 non sarà più redditizia, la miniera sarà chiusa.

In quelle ore d'agosto si capisce presto che non c'è più niente da fare, si perdono in fretta anche le speranze di salvare qualcuno. I responsabili della miniera hanno l'elenco dal quale depennano gli assenti, ne mancano 262, di questi 136 sono italiani. Venti vengono da un solo paese, Manoppello, nelle Marche: sono tutti amici, parecchi anche parenti. Il Triveneto paga il suo prezzo, tra i morti ci sono veneti, trentini, friulani. I giornali raccontano a piena pagina, pubblicano l'elenco delle vittime.
Dal Friuli venivano: Lorenzo de Sanctis, 30 anni, di Flaibano; Mario Boniatti, 30, udinese; Ruggero Castellani, 41, da Ronchis; Ciro Natale Piccolo, 28, di Povoletto; Salvatore Capoccia, 34 anni, di Sacile; Pietro Basso, 25, Fiume Veneto; Ferruccio Pegorer, 26, di Azzano Decimo. Assunto Benzoni, 31 anni, era emigrato da Acerato in provincia di Bolzano.
I tre veneti erano partiti dal Trevigiano: Giuseppe Natale Poles, 23 anni, di Cimadolmo; Mario Piccin, 36, di Codognè; Guerrino Casanova, 32, di Montebelluna. Non c'era parte d'Italia che non avesse un suo caduto a Marcinelle, c'erano sardi e siciliani, lombardi e toscani. C'erano in quel "patto del carbone" le molte miserie fuggite dall'Italia povera e affamata.

Se ne sono accorti tutti di morire come topi, soffocati, congestionati. Qualcuno, sentendo vicina la morte si appunta sulla camicia un biglietto col nome per essere identificato. Riconoscere i corpi è difficile, spesso impossibile. Le vittime hanno il viso annerito, gonfio, sfigurato. "Li vedevo tutti i giorni, ma non posso riconoscere nessuno", dice l'assistente sociale.
Prima di morire un minatore annota sul taccuino l'atroce descrizione delle sue ultime ore: "Ho fatto di tutto per uscire da questo inferno. Ma il gas arriva da ogni parte. Incomincio a soffocare. I miei compagni sono già caduti per terra, sono le otto e dieci. Sento che sto per morire".

Tra cinque morti della stessa famiglia trovano due fratelli, Rocco e Camillo Iezzi, indivisibili, prestavano servizio nello stesso turno. Muoiono stringendo l'uno la mano dell'altro. Molti cadaveri verranno ritrovati a galla nell'acqua anch'essa nera come il carbone. L'undici agosto a Marcinelle arriva un telegramma per un minatore italiano: annuncia all'uomo che la moglie Giovannina ha dato alla luce un bambino. Il fattorino non trova il destinatario, è rimasto in fondo al pozzo.

La tragedia segna la fine dello scambio braccia/carbone tra Italia e Belgio.
Quando faranno il processo, l'opinione pubblica si ribellerà all'assoluzione dei tecnici dell'impresa proprietaria degli impianti di Marcinelle. Per il tribunale di Charleroi nessuno era responsabile della morte di 262 minatori sepolti vivi nei pozzi di Bòis di Cazièr. La sentenza fu accolta dai belgi come un affronto alla memoria. L'Italia di oggi si trova dall'altra parte, quella di chi sfrutta gli immigrati, ma fa fatica ad accoglierli. Soprattutto è un'Italia che dimentica un passato di tribolazione, di eroismi e talvolta nemmeno da ricordare con orgoglio. Una storia raccontata nel libro forse più bello sulla nostra emigrazione, "L'orda" di Gian Antonio Stella che non a caso ha come sottotitolo "Quando gli albanesi eravamo noi".


8 AGOSTO 1956:

Mai tante vittime erano state reclamate dalla miniera, in cambio del carbone estratto dalle sue viscere, come in quell'8 agosto 1956 al 'Bois du Cazier'.

In seguito a un errore umano, un incendio si estese rapidamente a tutta la miniera. In totale, 262 uomini, di 12 nazionalità diverse (fra cui 136 italiani e 95 belgi) persero la vita, lasciando centinaia di vedove e di orfani. Il risultato segnerà la fine dell'emigrazione italiana in Belgio e una regolamentazione più severa per la sicurezza sul posto di lavoro.

A Marcinelle, ai piedi di un grande affresco mobile che traccia il percorso delle migliaia di operai immigrati venuti a lavorare nelle miniere belghe, la catastrofe dell'8 agosto 1956 è raccontata, per mezzo di film, fotografie, testimonianze, ora per ora, giorno per giorno. Fino a quel fatidico 23 agosto, quando dalla bocca di un soccorritore uscì il terribile verdetto: "Tutti cadaveri!"

 

Accesso alla presentazione di Spazio 8 agosto 1956 :

Per accedere alla presentazione
e immergervi nei drammatici eventi
dell'8 agosto 1956, cliccare qui ...

 

 

http://www.leboisducazier.be/



Ancora storie di emigranti partiti dalle Tre Venezie e questa volta fermatisi più vicino, alla periferia di Milano. Terrazzano è alle porte di Rho sulla strada che da Milano va verso Varese. E' il 10 ottobre 1956, la scuola elementare è affollata, tre maestre e 97 bambini, classi numerose. Sono le undici e un quarto e due giovani che si spacciano per operai, durante la ricreazione, sospingono tutti nell'aula al primo piano e prendono in ostaggio insegnanti e alunni. Hanno candelotti di dinamite, pistole, boccette di vetriolo. Gettano dalla finestra biglietti coi quali chiedono 200 milioni in contanti, cibo e la presenza della televisione. Minacciano di uccidere, di sfigurare i bambini. Si affacciano alla finestra e si fanno scudo delle maestre e degli alunni, puntano la pistola alla tempia delle donne. Una madre che cerca di salire viene ferita alla gamba.

La scuola è stretta d'assedio, dagli studi della Rai sono arrivati anche i giornalisti della televisione. I due s'affacciano e gridano: "Abbiamo del tritolo, molte pallottole e dell'acido. Abbastanza per farli morire tutti quanti...". Sono due fratelli veneti, con gravi problemi psichici, Arturo ed Egidio Santato, 27 e 22 anni, emigrati come tanti dopo l'alluvione del Polesine. Sono arrivati con la famiglia da Villanova del Ghebbo.

Anche Sante Zennaro, un meccanico di 23 anni, otto fratelli, è emigrato dal Polesine con la famiglia. Viene da Grignano, conosce i Santato, sa che non sono cattivi, vuole convincerli a rilasciare i bambini, ad arrendersi. Propone di entrare dalla finestra posteriore, dopo un muretto ci sono due scale a pioli. Lo accompagnano un vigile del fuoco, un carabiniere e un detective quarantenne, Tommaso Ponzi, che diventerà famoso con la sua agenzia investigativa.

Sante è il primo a farcela, si trova di fronte Arturo e prova a fermarlo. In quel momento irrompe la polizia e un agente spara una raffica contro le ombre davanti alla finestra: Sante resta ucciso, il carabiniere e il pompiere feriti. Subito dopo Ponzi blocca l'altro sequestratore, aiutato dalla maestra veronese Paola Susini. La polizia deve scortare i due fratelli per sottrarli al linciaggio. Al processo Arturo sarà giudicato totalmente infermo di mente e rinchiuso in manicomio criminale. Egidio, riconosciuto seminfermo, è condannato a cinque anni. Quando uscirà nel 1962 sarà arrestato con l'accusa di aver ucciso e bruciato il padre con la complicità di un uomo detto "Cacciaballe", che ha confessato. Lo condannano a 22 anni e lo assolvono in appello.

È la prima volta che le telecamere riprendono una vicenda così drammatica e coinvolgente: le immagini dei bambini tenuti in ostaggio colpiscono e choccano un popolo televisivo ancora ingenuo e impreparato. Il gesto di Sante Zennaro, ucciso per errore dai poliziotti, viene presto esaltato come quello di un eroe.
Ai suoi funerali - celebrati da monsignor Maggiolini - partecipano cinquantamila persone. Si parla di lui anche alla Camera, quando il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Oscar Luigi Scalfaro, ricostruisce la vicenda. Il padre Giuseppe riceverà la medaglia d'oro al valore civile. Il suo paese Grignano gli dedica immediatamente la strada dove è nato, tra le vie Rossi e Busovecchio. Molti asili, scuole elementari e case di riposo, soprattutto in Lombardia e in Emilia, sono intitolate a Sante Zennaro, morto per salvare la vita dei bambini. Ma se chiedete oggi a insegnanti e alunni la storia dell'uomo al quale è intitolata la loro scuola, difficilmente sapranno rispondere.
L'Italia dimentica presto, raramente custodisce la memoria.

0Storie di emigranti veneti scappati per non morire di fame, storie di follie e di piccoli eroi dimenticati. Ha smarrito i suoi ricordi dentro una mente confusa anche un grande pittore che per morire lascia il Veneto e vive in una casa di cura tra il verde alla periferia di Milano. È Filippo De Pisis, 60 anni, ferrarese ma legatissimo soprattutto a Venezia che ha raccontato in mille quadri e in cento poesie. Un giorno, chiusa la porta e rimasto solo col suo pappagallo Cocò, vede che metà del suo viso si è pietrificata, non sente più le mani che gli servivano per dipingere, le dita si erano fatte molli. Lo trasferiscono in una clinica. Va a trovarlo Giovanni Comisso che scrive sul diario: "Ho pianto sulla sua spalla. Mi diceva sto male, sto male". Gli aveva portato cioccolatini morbidi perchè De Pisis non aveva più denti. "Non ricordava più nulla del passato. Ripeteva non ricordo, non ricordo. Gli stringevo le mani bianche come colombe tenere... Non camminava più e non lasciava più orme".

È sempre così, chi non vuole o non può ricordare è come l'uomo che quando cammina non lascia più orme.


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