Cap. 3 - II

2 - LA "NORMALE" FINE DI UNA MEMORIA MEDIATICA DI LIVELLO NAZIONALE

Le nuove attenzioni dei media nazionali al caso Vajont Il "mordi e fuggi" tipico di un giornalismo rampante come quello informativo esisteva già all'epoca della tragedia del Vajont e determinò un primo abbandono mediatico a livello nazionale nei confronti della notizia, una volta che questa perse di "novità". Lo spirito "acritico" dei media dell'epoca, determinato dai fattori già precedentemente analizzati, portò quindi alla prima diffusione di una notizia recante tesi "fatalistiche" e contribuì dunque a diffonderla in modo "parziale" nella memoria collettiva, se analizzata col senno di poi.
Nel sito Internet del Comune di Longarone infatti si sottolinea come :"La stampa italiana fece sì che almeno fino alla conclusione dell'inchiesta giudiziaria e al rinvio a giudizio di alcuni responsabili, si continuassero a sostenere le tesi delle catastrofi naturali, dei terremoti, dell'imprevedibilità dell'evento".
Nonostante un primo abbandono causato dall'assenza di "novità" fu lo stesso giornalismo a ridare nuova luce alla vicenda in occasione del processo de l'Aquila, quando l'interesse mediatico fu attirato dall'ipotesi del tutto innovativa di veder effettivamente riscontrate responsabilità umane nella tragedia.
Bruno Ambrosi, intervistato personalmente sull'argomento, in qualità di giornalista televisivo Rai che si occupò della tematica, esprimendosi sul nuovo approccio mediatico riservato al Vajont in questa seconda occasione ha rivelato: "Si ha infatti una riacutizzazione dell'argomento con il processo dell'Aquila. Come ben sa il giornalismo è all'insegna del mordi e fuggi[...] I mass-media sono tutti così, o per lo meno i mass-media d'urto, i quotidiani, i settimanali, poi chiaro gli annalisti, gli analisti, i saggisti poi pubblicano magari un libro, una cosa su questa cosa, ma non è più mass-media, non è più appunto un mezzo di massa.[...] I giornali man mano fanno decrescere le cose".

Mario Passi, un giornalista de "l'Unità" che da subito si occupò del Vajont e che non abbandonò mai l'argomento, così descrive il ritorno dei media in occasione del deposito della requisitoria da parte del giudice Fabbri e del conseguente processo:

"Ricordo ancora quei giorni grigi e piovigginosi della seconda metà di febbraio del 1968. Tutte le mattine bussavo inutilmente,assieme ad altri colleghi, alle porte del Tribunale. Ma il giudice Fabbri sembrava sparito. Aspettavamo il deposito della sua sentenza. Sembrava terminata la lunga congiura del silenzio intorno al Vajont. Per oltre quattro anni, inviato de 'l'Unità', avevo compiuto infiniti pellegrinaggi solitari a Longarone, nella valle Ertana, presso gli uffici dei magistrati inquirenti.[...]Scrivevo pezzi su pezzi per il mio giornale, rimasto fedele all'impegno assunto nei giorni della tragedia in un editoriale del suo direttore, Mario Alicata: 'l'Unità' sarebbe stata la bandiera delle vittime, della lotta per la verità e la giustizia del Vajont.
Dopo tanta attesa solitaria, finalmente adesso mi trovo di nuovo in compagnia. Sono tornati anche gli inviati dei grandi quotidiani nazionali, quelli che avevano tanto parlato di 'fatalità' ".
I risvolti giudiziari, così come si prospettarono, furono in grado quindi di riportare tutte le principali testate giornalistiche nazionali all'attenzione sull'argomento Vajont, sebbene quasi 5 anni dopo la catastrofe.
In gran parte, questo rinnovato interesse fu dettato dalle "nuove rivelazioni" emerse dalle indagini della magistratura che avevano portato alla scoperta di possibili implicazioni e responsabilità dell'accaduto a carico di personalità eminenti del potere economico e politico. Nonostante tutto questo, l'importanza della notizia ed il peso ad essa attribuito a livello mediatico non raggiunsero il valore ottenuto in precedenza, così come minore fu l'interesse e l'ascolto che ne derivò a livello nazionale. La natura stessa della notizia ebbe un differente impatto sul pubblico a prescindere dall'importanza fornitale dai media: la tragedia del 9 ottobre smosse emotivamente il Paese attivandolo dal punto di vista della solidarietà per le popolazioni disastrate. L'interesse era molto alto nei riguardi delle loro condizioni e del progresso raggiunto nella riorganizzazione del loro futuro. La notizia di un processo, la materia legale, gli avvocati, i cavilli, le sentenze, sono tutte notizie che per la cultura medio bassa sono di minore impatto emotivo ed ottengono una attenzione decisamente minore anche causata da una comprensibilità minore.
Il giorno seguente il deposito della requisitoria da parte del giudice istruttore Mario Fabbri e cioè il 23 febbraio del 1968, i quotidiani uscirono al mattino dando titoli sensazionali riguardanti la sentenza istruttoria di Belluno che aveva decretato il rinvio a giudizio di 11 persone. La tragedia solo 5 anni prima aveva causato 2000 vittime e le tesi della "fatalità" erano state da allora le uniche validamente sostenute dalla quasi totalità dei media, eppure la sentenza di un giudice fu in grado di convincerli subito ad affrontare la notizia con un approccio del tutto "rinnovato".
Scomparì la tesi della "fatalità", non fu fatto alcun riferimento all'errore commesso anni prima, non si rettificò quanto sostenuto subito dopo la tragedia, non si avvertì l'opinione pubblica che quello che aveva letto in passato e di cui era stata convinta era frutto di un errore causato da una acriticità involontaria dettata dal contesto: la notizia fu analizzata e riportata come nuova.
Sempre Bruno Ambrosi mi spiega che: "[...]non c'è mai stato un riesame critico di questa situazione. Riesame critico intendiamoci allora molto difficile per ragioni politiche, per ragioni di costume, per ragione che gli stessi organismi di categoria ad esempio l'ordine dei giornalisti non esisteva[...]quindi non c'era neanche un ordine dei giornalisti che potesse dire "ma signori, ma come stiamo raccontando questa cosa[...]"
Il trascorrere del tempo unito al generale silenzio della stampa aveva affievolito l'interesse e la memoria dell'opinione pubblica verso una tragedia considerata inizialmente "naturale", ma che grazie ad aiuti di vario genere era in rapida via di soluzione attraverso una celere ricostruzione.
Questo minore interesse permise ai media di ribaltare completamente la loro versione senza suscitare la necessità di ammettere un errore che era forse stato dimenticato a tralasciato dalla maggior parte dell'opinione pubblica, spinta quasi ad avvicinarsi ad una notizia "nuova" e priva di legami con quella precedente.

Una situazione mediaticamente mutata
Il mutato approccio mediatico utilizzato per la trattazione del tema Vajont fu determinato anche da alcuni importanti cambiamenti intervenuti nell'evoluzione del caso stesso i quali stimolarono le "libere" coscienze dei giornalisti, che si erano acriticamente arenati nella ferma convinzione della "fatalità" della tragedia, ad entrare in contatto con una realtà i cui dettagliati risvolti li convinsero a cambiare punto di vista e taglio dei loro articoli.
I media che si occuparono dei risvolti giuridici del caso Vajont a partire dal 1968 si trovarono ad aver a che fare con delle "verità" non più urlate da un popolo "ignorante" di montanari, fomentati apparentemente da speculatori politici di matrice comunista e quindi poco dotati di reale credibilità. Il nuovo approccio al caso fu segnato dalla diffusione di notizie di derivazione assolutamente indiscutibile e cioè le indagini eseguite dalla magistratura della Repubblica, un organismo dello Stato considerato assolutamente al di sopra di ogni conflitto politico.
Mario Passi definisce così il rapporto dei giornalisti con la magistratura nei tardi anni sessanta: "Non si levano voci contro la magistratura. Non si parla di toghe rosse o bianche o di altri colori. Nè di giudici schierati politicamente, di complotti giudiziari. La magistratura è un'istituzione rispettata nella sua sovrana autonomia, anche temuta[...]. Ma certamente non esistono governi, partiti e giornali che si sognino di attaccarne pubblicamente l'indipendenza, di offenderne il prestigio e di discuterne il ruolo nella società e nell'ordinamento della Repubblica".
Dal punto di vista del taglio dato agli articoli, le testate giornalistiche effettivamente non si erano liberate delle influenze cui erano sottoposte, ma la natura della "fonte" delle nuove evoluzioni del caso non permise l'insorgere di alcun "dubbio" sull'operato del giudice. La notizia non poteva più essere "distorta" nella sostanza perchè la sua fonte era ora al di sopra di ogni sospetto. Tutte le testate giornalistiche ("l'Unità" o il "Corriere della sera" o "Il Gazzettino") qualunque corrente politica li influenzasse, non avrebbero potuto cambiare l'esito della requisitoria, nè esser accusati di faziosità per l'analisi di tale esito necessariamente ritenuto "obbiettivo".
L'approccio dei media mutò non solo per via della credibilità della fonte, ma anche grazie ad una particolare situazione della stampa che nel '68 viveva il movimento studentesco e la contestazione giovanile. In un contesto di quel genere apparve quasi scemata la stretta sudditanza politica ed ideologica dei giornalisti, anche se alcune regole non vennero meno tutte d'un colpo. Bruno Ambrosi infatti spiega la situazione televisiva Rai relativamente mutata alla fine degli anni '60: "La RAI, anche se un pochino più variegata, non era uscita dal suo dirigismo totale[...]".
Va aggiunto che l'attentato di Piazza Fontana del 1969 portò al riscatto della "contro informazione" come spiega sempre Ambrosi: "[...]la coscienza civile, l'affrancamento dal conformismo è venuta dopo. Piazza Fontana ha segnato il vero grande momento di riscatto nel senso che con la contro informazione cosiddetta, con il fatto che alcuni non credevano alle tesi precostituite, il ballerino anarchico della tv cioè povero Valpreda è un esempio lampante in questo modo. Cioè mentre fino al '69 ciò che diceva il questore, ciò che diceva il prefetto era ex cathedra, era il governo, era lo stato, i dubbi non venivano fuori nei giornalisti o se venivano fuori rimanevano nel chiuso delle redazioni, ma nessuno prendeva posizione[...]ma soprattutto fu quel torbido affare di Piazza Fontana che aprì gli occhi alla gente. Tutto quello che è venuto fuori dopo. Poi abbiamo scoperto, anni dopo, la P2, gli intrecci economico finanziari[...]".
Giorgio Bocca, nel parlare del dopo Piazza Fontana afferma: "Pubblicammo un giornale di controinformazione che univa notizie serie a ombre scambiate per notizie....", " Difficile raccapezzarsi, tutti increduli, sbalorditi di fronte al fatto, non smentibile, che il prefetto, il questore, il capo della squadra politica, il procuratore avevano mentito per difendere coloro che tiravano le fila dietro di loro....", "L'isteria e la faziosità erano arrivate anche sul colle del Quirinale... dove si sparlava", " Ricordo alle esequie solenni dei morti della strage, le facce dei notabili democristiani, di Rumor, Colombo, Andreotti, Moro, in ognuna delle quali potevi sospettare il complice, il complottista".
Come si comprende da queste righe, i giornalisti rimasero "tutti increduli", ma finalmente cadde "l'indiscutibile" credibilità degli uomini del potere che aveva portato, nel caso Vajont, a dare assoluta certezza alla tesi della "fatalità".

La deposizione della requisitoria da parte del giudice Fabbri, inserita in quel contesto storico, aiutò molti giornalisti a svegliarsi dalla precedente cecità dimostrata e ad interessarsi a molte sfaccettature della vicenda prima tralasciate per via dell'accettazione "acritica" ed ingenua di una "unica" credibile versione dei fatti protesa verso la "fatalità", privata di alcuno spazio lasciato al dubbio circa le responsabilità umane. I dubbi finalmente sollevati dai media si riflettevano sull'opinione pubblica che era ora indirizzata verso una nuova riflessione su quanto capitato.
Addirittura questo nuovo approccio mediatico rivelò un capovolgimento nell'orientamento dei giornalisti italiani, ora incredibilmente schierati quasi all'unanimità verso un giudizio colpevolista.

Un "nuovo" freno alla diffusione della memoria
Il clima presente attorno alla notizia, nonostante la situazione mediatica apparisse decisamente mutata, si presentò comunque ancora teso, al punto di non permettere ad alcuni giornalisti "risvegliatisi" dalla cecità dimostrata anni prima di portare a termine il loro lavoro di diffusione mediatica esaustiva della verità agli occhi dell'opinione pubblica. Il modo in cui fu affrontato dai media il processo de l'Aquila fu contrassegnato da alcuni fattori di natura differente che si inserirono come un "freno" per una accurata "ri-socializzazione" del pubblico di massa verso una adeguata conoscenza e quindi "memoria" del caso Vajont.
La versione "non distorta" della tragedia vajontina in questo suo rinnovato approccio ottenne sì la luce dei riflettori dei mezzi di comunicazione di massa, ma questi non furono così luminosi come lo erano stati in precedenza:

"Le severe amare conclusioni del pubblico ministero giungono quella sera del 22 novembre attraverso i lanci delle telescriventi alle redazioni di tutti i giornali italiani.[...]
È una notizia-bomba. Ma i grandi giornali d' informazione Ð quelli che per il Vajont avevano promosso sottoscrizioni di solidarietà Ð la pubblicano con scarso interesse nelle pagine interne".

L'ascolto ottenuto dai media, se rapportato a quello riscontrato nel 1963 registrò un interesse ed un'attenzione molto minore. Erano troppo lontani i tempi in cui le immagini del terribile disastro erano vive nella memoria degli italiani, i tempi in cui le prime pagine erano tutte dedicate alla vicenda ed i giornali si fronteggiavano l'un l'altro per avere le notizie più fresche ed aggiornate. Lo spostamento del processo da Belluno a l'Aquila aveva molto raffreddato il clima emotivo intorno alla vicenda.
La cittadina abruzzese non poteva vivere con intensa partecipazione una vicenda che aveva sentito nominare solo attraverso dei titoli di giornale e ben 5 anni prima. Non era di certo un clima minimamente paragonabile a quello che avrebbe trovato il processo se si fosse svolto a Belluno, ove la popolazione ben conosceva le zone in questione e, seppur di riflesso, aveva anch'essa vissuto quel dramma molto più da vicino, mantenendo viva la "memoria" dell'evento anche attraverso l'informazione mediatica locale.
L'eco emotivo offerto a questa nuova luce data alla notizia fu ulteriormente attenuato dalla scarsa presenza dei testimoni che non poterono giungere in massa in una località così lontana. Alcuni sopravvissuti si organizzarono comunque per essere presenti anche attraverso l'organizzazione di collette comuni per giungere a l'Aquila, ma tutto questo richiese uno sforzo notevole: il viaggio era molto lungo e costoso ed una volta giunti a destinazione, la diaria concessa permetteva appena la consumazione di un solo pasto giornaliero.
Anche questa assenza privò la notizia di una "cornice infuocata" tale da offrirle un ampio spazio mediatico, uno spazio importante lasciando così passare gli effetti di un processo tanto cruciale quasi in sordina. Non ci furono grandi lanci di notizia in "hitline", non si sprecarono le prime pagine nè i servizi di apertura dei telegiornali nazionali. La notizia non ebbe un'importanza paragonabile a quella avuta 5 anni prima e, pertanto, l'attenzione dell'opinione pubblica non fu sensibilizzata in modo approfondito verso i nuovi risvolti del caso.
Oltre al "raffreddamento emotivo" della notizia, che aveva contribuito a non offrirle una vetrina degna di prima pagina, si aggiunse, quale "freno" alla diffusione della memoria, anche un rinnovato clima gelido che si attanagliava attorno al caso Vajont per via dei suoi risvolti inerenti le responsabilità umane. Un aneddoto che ci può portare a comprendere il clima di allora mi è stato raccontato dal giornalista Rai-TV Bruno Ambrosi in una intervista in cui mi riferisce:

«Le basti dire che quando si profilò il processo[...]io chiesi un colloquio a Fabbri per registrare una famosa puntata di 'A Z un fatto come e perchè'[...]io vado da lui, a quell'epoca il CSM era molto rigido nei confronti dei magistrati, era rarissimo che un magistrato rilasciasse una dichiarazione, meno che meno alla televisione. Lui mi precisò queste cose e io 'guardi, niente di colpevolistico od altro[...]..un fatto puramente tecnico'. Anche questo doveva essere girato come forma di intervista documentario, per cui attaccammo le luci[...] e battei il primo ciak [...].Mentre Fabbri comincia a parlare, subito dopo pochi secondi a porta chiusa del suo ufficio, si apre detta porta ed entra un signore alquanto austero ed autoritario e dice 'Fabbri venga da me subito!'.[...]Fabbri uscì subito disciplinatamente e tornò dopo pochi istanti sbiancato in volto[...]e dice 'È il Procuratore della Repubblica di Belluno Mandarino[...]Mi ha detto che mi denuncia per sottrazione di beni d'ufficio perchè vi ho permesso di attaccarvi alla corrente del Palazzo di giustizia con i vostri proiettori per illuminare la scrivania'.[...]inutile dirle che da quel momento Fabbri era seguito da due carabinieri per controllarlo per ordine del Procuratore della Repubblica".
Il clima mediatico italiano, sebbene leggermente migliorato dal punto di vista della libertà nella scelta del taglio dato alle notizie, dovette comunque continuare a sottostare ad alcune "regole" dettate da un sistema che poneva ancora alcuni limiti alla diffusione di alcune notizie. Sempre Ambrosi, in un intervento presso una manifestazione tenutasi a Longarone in occasione del trentennale della catastrofe, raccontò di come in tv un programma di approfondimento ed analisi del caso Vajont fu relegato a non esser mandato in onda per via di queste "regole" del sistema:
«Per quanto riguarda le responsabilità si tentò di fare una analisi in una trasmissione di cui allora anch'io mi occupavo, che si chiamava 'A-Zeta un fatto come e perchè' , in occasione proprio dell'apertura del processo dell'Aquila.[...] Doveva essere un numero monografico di "A-Zeta", una trasmissione allora principe nel campo dell'attualità, che infatti andava in onda sabato sera in seconda serata e aveva un'audience notevole visto che aveva la quasi totalità dell'ascolto. La vide il direttore generale di allora[...]e disse: 'Splendido, uno dei lavori più belli che abbia visto sotto la mia direzionÈ ed alzandosi aggiunse: 'peccato che non andrà mai in onda'.[...] qui ritornano in ballo i magistrati, disse: 'Ci sono delle cose lì alla Procura della Repubblica di Roma...' Ð c'era allora il procuratore Spagnolo tanto per non fare nomi Ð che aveva nel cassetto certe praticucce che riguardavano la Rai Ð '...siccome il vostro pezzo è abbastanza critico sulla magistratura giudicante de l'Aquila lui s'arrabbia e tira fuori le cose della Rai e allora perchè andarci a prendere delle grane, questo pezzo non andrà mai in onda'. Difatti non andò mai in onda nè nella sua interezza, nè come era stato concepito[...]».
Non è di difficile comprensione a questo punto immaginare il perchè, in un simile clima contrassegnato da un approccio mediatico di questo genere la conoscenza e la memoria della vicenda da parte del grande pubblico non fu di molto migliorata da questo riaffacciarsi del tema Vajont.

L'oblio mediatico nazionale privo di ammissione dell'errore
Dopo aver diffuso le notizie riguardanti le fasi del processo de l'Aquila col suo verdetto e le successive sentenze in Appello e Cassazione, si spensero le luci dei riflettori sul caso Vajont e la vicenda ricadde nell'oblio nazionale, la regola del giornalismo fu applicata in modo ferreo e rigoroso e, per questo motivo, una notizia diventata oramai vecchia, un'indagine che aveva svelato i suoi colpevoli, una "verità" che era stata dipanata dalla legge non furono più motivo di attenzione indagatoria da parte dei media, almeno di quelli a tiratura nazionale.
I media nazionali non si preoccuparono dell'eredità lasciata nella memoria nazionale dalla versione inizialmente "fatalistica", rivelatasi poi distorta. Essi non fecero mai un'autocritica a se stessi, un'ammissione di colpa che spiegasse al pubblico lo sbaglio interpretativo adottato precedentemente. Non furono funzionali a questo compito nè l'attentato di Piazza Fontana, e nemmeno la riforma televisiva del 1976: "la legge 103 ("riforma della Rai") sottrae al governo il servizio pubblico dell'informazione radio-televisiva, ed è affidato al controllo del Parlamento. Questo per garantire pluralismo, obiettività e completezza nell'informazione, ha provveduto alla spartizione delle due reti televisive e le tre della Radio fra i maggiori (!) partiti. [...] Lo stile dei conduttori pur nell'area della maggioranza è quella di confezionare dei notiziari in forte contrapposizione l'un l'altro. Una palese partigianeria che più che informare fa solo spesso sorridere gli spettatori. È in atto quella che viene definita "lottizzazione" e più che al pluralismo si assiste alle reciproche accuse e a molte faziosità.
È l'inizio del teatrino della politica, che diventa sui teleschermi politica virtuale, spettacoli fuori dalla realtà quotidiana. Il politichese astruso, astratto e prolisso conosce la sua migliore stagione. Una Olimpiade permanente della dialettica".
Nemmeno questa riforma, che slegò anche l'ormai importante mezzo televisivo dal predominio del governo, offrì l'occasione ai giornalisti di riscattare l'errore commesso, magari attraverso la rievocazione della notizia per via di un anniversario, come quello del '78.
Del resto l'errore era stato troppo grande per i più alti rappresentanti della carta stampata e della tv e la notizia oramai non era più di interesse primario. Il lungo tempo trascorso ed il naturale continuo verificarsi quotidiano di avvenimenti "freschi" da raccontare spinsero i media a dimenticare quello che fu considerato, per lo più, giornalisticamente "un incidente di percorso" nel quale si imbattè un giornalismo italiano.
Ancora Ambrosi spiega come i media non affrontarono un riesame critico della notizia:

«Se lei mi chiede se c'è stato un riesame critico della stampa italiana su questa grande 'toppatà cioè su questo fatto che tutti quanti i grandi organi di informazione hanno sbagliato registro nel raccontare Longarone e il Vajont, le posso dire sinceramente e amaramente no, non c'è mai stato un riesame critico di questa situazione. Riesame critico intendiamoci allora molto difficile per ragioni politiche, per ragioni di costume, per ragione che gli stessi organismi di categoria. Ad esempio l'ordine dei giornalisti non esisteva, si fa per dire[...] quindi non c'era neanche un ordine dei giornalisti che potesse dire 'ma signori, ma come stiamo raccontando questa cosa'».
In realtà le testate giornalistiche si occuparono ancora di Vajont, ma in modo fugace e solo in occasione dei grandi anniversari. In queste occasioni però non si diede ampio spazio ad una ripresa dell'analisi della tragedia, o alle conseguenze da essa portate a livello locale: il Vajont e le sue 2000 vittime e la lezione che da esso doveva essere tratta a partire dai gravi errori che si erano commessi furono semplicemente sfruttate quale sfondo significativo per descrivere le visite di personalità politiche e del loro comportamento in quelle occasioni, riflettendole come termine di richiamo al momento storico-politico presente nel Paese.
Una studentessa di nome Marta Pasuch, nell'anno accademico 2001-2002, ha presentato una tesi dal titolo "Il destino della storia attraverso i mass media: la tragedia del Vajont". Questa tesi, citata anche da Lucia Vastano nel suo libro "Vajont. L'onda lunga" evidenzia il tentativo di questa studentessa di dimostrare "che la stampa cambia l'interpretazione della storia e quindi ne influenza la comprensione da parte del pubblico a seconda degli interessi dominanti del periodo".
La Pasuch titola una parte della sua tesi "Le storie non esistono se non c'è qualcuno che le racconta" e prosegue scrivendo: "Le storie , in questo caso la storia del Vajont, vengono raccontate però in tanti modi diversi: uno è il fatto storico accaduto e tante sono le memorie che si sviluppano, costruzioni in continuo divenire., e suscettibili a molteplici influenze.
A dieci anni dalla catastrofe del Vajont, il ricordo è affidato ad una serie di cerimonie religiose in tutti i comuni colpiti, che si intrecciavano ai discorsi di alcuni rappresentati politici locali. 'Il Gazzettino di Belluno' dedica a questi fatti un articolo su due colonne e tre fotografie. Il 10 ottobre 1983, invece, l'edizione locale de 'Il Gazzettino' dedica due pagine alla cerimonia di commemorazione svoltasi il giorno prima a Longarone, con un taglio decisamente cronachistico. Al centro spicca la figura dell'attuale Capo dello Stato, Sandro Pertini, in cui vengono riportati i vari spostamenti[...], ma soprattutto si sottolinea il calore con cui la gente del posto lo ha accolto, elevandolo quasi ad eroe: finalmente lo Stato scende tra il popolo. La serie di quattro fotografie, che vedono ritratto Pertini durante vari momenti della cerimonia, disposte come un fotogramma sotto il titolo principale, evidenziano l'importanza data alla sfera civile rispetto a quella religiosa[...]: il vescovo Ducoli sembra inglobato dalle numerosissime persone, non 'spiccà come il Presidente. È curioso notare, incastonata tra le fotografie, la pubblicità di 'Longarone - Optimac -1° Mostra di macchine componenti e materie prime per l'occhialeria', come a dire non esiste solo il passato, la gente di queste parti sta lavorando per darsi un futuro e conquistarsi un ruolo nell'economia nazionale.
Sull'edizione nazionale de 'Il Gazzettino' poche righe. Eppure a Milano in quello stesso anno, viene pubblicata la prima edizione del libro di Tina Merlin, 'Sulla pelle viva', e già altri libri importanti sul Vajont avevano visto la luce.[...].
È stato Gianpaolo Pansa nel 1993 a 'scoprire' che già nei fatti raccontati dalla Merlin si annidava ciò che l'Italia sarebbe diventata nei trent'anni seguenti, Negli anni di Tangentopoli e dei processi targati 'mani pulite', 'Il Gazzettino di Belluno' riporta in prima pagina proprio le parole di Pansa, tratte dalla prefazione del libro di Tina Merlin ristampato, (desiderio di non dimenticare e marketing editoriale?) proprio nel 1993: «'Vajont 1963' è proprio questo: un libro sul potere come arbitrio e sui mostri che può generare. In fondo, la storia di Tangentopoli, no? L'arroganza di troppi poteri forti. L'assenza di controlli. La ricerca del profitto a tutti i costi. La complicità di tanti organi dello Stato. I silenzi della stampa. L'umiliazione dei semplici. La ricerca di una giustizia: il crollo della fiducia in una repubblica dei giusti».

La memoria "ristretta"
Fortunatamente quella che a livello di massa fu una "memoria" dimenticata o non conosciuta dalla maggior parte del popolo italiano, ebbe la fortuna di esser invece considerata con continuità almeno a livello locale, contribuendo ad offrire un'immagine "tipica" delle genti di montagna, un'immagine unitaria ed unificatrice. Sempre Marta Pasuch in un altro stralcio della sua tesi continua dicendo: "Ecco l'occasione giusta per costruire o rinforzare, attraverso la stampa, il mito del "montanaro innocente, genuino" e alimentare la contrapposizione tra montagna, roccaforte di valori antichi, e la città, luogo del potere e della corruzione. Ma fu rinascita "pulita", titola infatti Flavio Olivo, nella seconda delle tre pagine dedicate al ricordo-richiamo all'attualità, riportando la parole del sindaco di Longarone Gioachino Bratti, tese a sottolineare, da una parte l'estraneità ad ogni scandalo politico ed economico, dall'altra la laboriosità (altro stereotipo dell'uomo di montagna e oggi estesosi a tutto il NordEst) con cui la gente del posto si è prodigata per dare un futuro alla propria comunità, elencando ciò che nel tempo è stato realizzato: l'industria, la Fiera, il parco naturale, il centro di protezione civile. Tutto però nel rispetto dell'ambiente (siamo anche in un periodo, gli anni '90, in cui il pensiero ecologista-ambientalista sta riscuotendo ampio successo, no?), altro valore su cui si può basare un ulteriore contrapposizione tra " noi", gente di montagna, e " loro", cittadini e poteri dello Stato. Strutturato in questi termini, noi-montanari da una parte, loro - poteri economici, politici dall'altra la memoria del Vajont raggiunge anche lo scopo, ( perseguito consapevolmente o no dai giornalisti che hanno scritto questi articoli ), di rafforzare l'identità e la coesione interna della popolazione colpita dalla tragedia, che si costruisce come gruppo " a parte". Questo senso di appartenenza si crea anche ricorrendo ad espedienti retorici, immagini e clichè che parlano più all'emotività che non alla razionalità dei lettori. Si può per esempio esemplificare e rendere contemporaneamente più attraente l'intreccio dei vari fatti ( che nella vicenda del Vajont sono veramente complessi), costruendo il ricordo come fosse un racconto, una leggenda alla maniera di Propp : eroi buoni da una parte e cattivi dall'altra, impegnati ad impedire ai primi di portare a termine il loro compito.
In fondo a pagina tre del "Gazzettino" locale del 9 ottobre 1993, infatti, compare una striscia dedicata a tre "buoni" della vicenda, i giornalisti (autoelogio della stampa) Armando Gervasoni, Tina Merlin e Fiorello Zangrando: un breve resoconto della loro vita e del loro lavoro affianca le rispettive foto a mò di icona. Come si noterà anche avanti, si è cominciato a far ruotare la memoria di un fatto intorno alla "esaltazione" di alcune personalità, a ricercare, oppure a costruire ex-novo, il 'Personaggio'."
Molto interesse dunque rimase attorno al tema Vajont, ma sempre caratterizzato dall'essere "elitario", dotato di scarsa diffusione e comprensione per le masse. Se da un lato la memoria del Vajont proseguiva a livello locale, questa diffusione locale era elitaria se rapportata alla popolazione dell'intera Italia; ed anche a livello globale italiano la memoria era conosciuta a sua volta in modo "elitario" all'interno di strette cerchie di persone che costituivano gli ambienti tecnici o universitari, che analizzavano quindi alcuni "pezzi" di quella storia, quelli a loro più tecnicamente congeniali, senza approfondire il contorno ed i risvolti.
Il caso Vajont non fu del tutto cancellato perchè la sua memoria fu tramandata anche attraverso studi accademici di varia natura, grazie alla particolarità di tutte le componenti che lo contraddistinsero: fu un misto di peculiarità realmente interessanti se analizzati da punti di vista come la genialità architettonica usata per la costruzione della diga, gli errori geologici, il processo e le sentenze derivatene, il clima politico particolare dell'epoca, l'organizzazione statale, ecc..
Molte furono le pubblicazioni che si adoperarono nell'analisi del caso Vajont sotto molteplici punti di vista, nelle discipline più disparate. La bibliotecaria di Longarone, gentilissima signora Simonetta Simonetti, così ha risposto alla domanda circa la bibliografia esistente sul caso Vajont: «Le comunico che non esiste a tutt'oggi una bibliografia completa sulla letteratura del Vajont[...]» prima di rimandarmi alla consultazione della bibliografia in questione (seppur incompleta) presente nel sito del Comune di Longarone che analizza l'argomento "pubblicazioni" sul Vajont in questo modo: «La catastrofe del Vajont ha prodotto anche centinaia di pubblicazioni la cui presente bibliografia rappresenta un approccio limitato, ma pur sempre essenziale. In futuro verrà catalogata, con la massima precisione, tutta la letteratura vigente, creando degli indici di ricerca che potranno agevolarne la consultazione»

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PASSI M., Morire sul Vajont, Marsilio Ed., Venezia 1968.
REBERSCHAK M. (a cura di), Il Grande Vajont, Comune di Longarone, Longarone 1983.
RIVA M., BESIO M., MASETTI D., ROCCATI F., SAPEGNI M. e SEMENZA E., Geologia delle valli Vajont e Gallina (Dolomiti orientali), Annali dell'Università di Ferrara, Sezione Scienze della Terra, 2, 4.
SEMENZA C., Impianto idroelettrico Piave-Boite-Maè-Vajont - Criteri generali della progettazione e dell'esecuzione., L'Energia Elettrica, vol. 32, 2.
SEMENZA C., Scritti di Carlo Semenza, a cura dell'Ufficio Studi della SADE, Venezia
SEMENZA E., Sintesi degli studi geologici sulla frana del Vajont dal 1959 al 1964, Memorie del Museo Tridentino di Scienze Naturali, Vol. 16, Trento 1965.
SEMENZA E., La storia del Vaiont raccontata dal geologo che ha scoperto la frana, Tecomproject, Ferrara 2001.
SEMENZA E., GHIROTTI M., Vaiont-Longarone, 34 anni dopo la catastrofe, Università degli studi di Ferrara, Sezione Scienze della Terra, Vol. 7, N.4, Ferrara 1998.
VENDRAMINI F. (a cura di), Superstiti e testimoni raccontano il Vajont, Comune di Longarone, Longarone 1992.
ZANFRON B., Vajont, 9 ottobre 1963. Cronaca di una catastrofe, Belluno 1998.
ZANGRANDO F., Vajont, l'acqua e la terra, Pro Loco di Longarone, Longarone 1988."
È facile notare come le pubblicazioni in questione siano cronologicamente collegabili al periodo che portò al processo de l'Aquila, tra gli anni '64 e '71, con la conclusione della sentenza in Cassazione. Nella maggior parte dei casi sono pubblicazioni tecniche riguardanti l'aspetto geologico ed ingegneristico della diga e della frana. Altre pubblicazioni intermedie cronologicamente risalenti alla metà degli anni '70 sono per lo più attribuibili ad una distribuzione principalmente legata al Comune di Longarone e sono in chiave sociologica, come gli studi di Don Giuseppe Capraro inerenti la ripresa del tessuto sociale longaronese.
Il resto delle pubblicazioni citate sono state pubblicate in concomitanza di anniversari, come quelli del 1983 e 1993, ma sempre con caratteristiche di distribuzione legate per lo più alla diffusione locale, causata anche dalla scarsa conoscenza dell'argomento da parte del già ristretto pubblico di lettori.
Il libro che Mario Passi scrisse nel 1968 col titolo "Morire sul Vajont", ottenne una considerazione non di grandissimo rilievo: in un'epoca come quella analizzata un libro sul Vajont scritto da un giornalista che lavorava per l'Unità non poteva che subire la stessa sorte che subiva la testata.
Tina Merlin, la giornalista che aveva anticipato la caduta della frana e che maggiormente si era occupata dei problemi delle popolazioni montane del Vajont, impiegò ben 20 anni per veder pubblicare il suo libro "Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso Vajont" che ne raccontava la storia e che fu pubblicato per la prima volta nel 1983.
Del resto anche il suo era un libro "forte", di denuncia e soprattutto raccontato con un manifesto taglio comunista dato all'intera vicenda. Per 20 anni bussò alle porte di vari editori non trovandone uno abbastanza coraggioso da pubblicare una storia tanto "vecchia" oltre che "scomoda".

Gianpaolo Pansa nel 1993 scrive: "[...]Tina Merlin. Non solo non voleva dimenticare. Non voleva che gli altri dimenticassero. Continuò a scrivere[...]vent'anni dopo , Tina bussò alle nostre porte con un libro bellissimo, questo che oggi viene ripubblicato. Ma troppe porte rimasero chiuse. E troppe orecchie sorde.
Debbo dirlo: anche la mia porta rimase sbarrata. Quante cose accadevano nell'Italia del 1983. E quanti libri c'erano da leggere e, talvolta, da scrivere. Perchè prendere in mano un libro del Vajont? Quanti secoli prima era accaduto l'olocausto di Longarone?[...]
L'ho letto[...]e ne sono uscito umiliato. Tanti sermoni sul giornalismo di denuncia, sull'informazione come contro-potere, sulle carte false e le carte vere della stampa italiana[...]Pagine che sono un atto di amore per chi ha capito l'olocausto e un atto di accusa per noi che non abbiamo saputo o voluto raccontarlo come si doveva e si poteva[...]".
Il libro della Merlin divenne col passar del tempo quasi un "cult" per gli iniziati al Vajont, ma non fu in grado di raggiungere il suo scopo e cioè risvegliare la coscienza civile nazionale dall'oblio nella quale era caduta. Un mondo come quello degli anni '80, proiettato verso il canale mediatico oramai di maggior diffusione e cioè la tv, non riscoprì un interesse di massa ad opera di un libro, dominio dei sempre pochi utenti affezionati alla lettura.
L'oblio nel quale era ricaduto il caso Vajont poteva essere considerato la "normale" fine di una notizia cronologicamente passata. Lo stesso destino era capitato ad altri avvenimenti importanti e meno articolati e complessi come quello in questione.
Ma il caso Vajont fu troppo importante e troppo particolare per meritare una sorte di quel genere, per far cadere nel silenzio la morte di 2000 persone, per far tacere per sempre la voce della memoria di un insieme di ingiustizie e di disinteressi e di disfunzioni che avevano causato tanto dolore. Il sentimento di giustizia, di rabbia nel non vederla rispettata, la "malattia del Vajont" che influenzava chi toccava tale argomento era destinata a non riservare la stessa sorte di silenzio anche a questo caso.

Col senno di poi, ancora Bruno Ambrosi fa un'affermazione che può in qualche modo stimolare la comprensione dell'interesse e dell'attualità che permise al caso Vajont di non essere dimenticato e di riemergere dopo un lungo silenzio:

«Questo è fuor di dubbio e ripeto: il Vajont fu una grande cartina di tornasole per stabilire dove si stava[...] Quello del Vajont rimane l'archetipo di tutto ciò che l'insipienza degli uomini, la presupponenza, la potenza del denaro, la fame di profitti[...]può provocare».

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