Manlio Casagrande - 463210/SC

Vajont

9 ottobre 1963

Teorie e Tecniche del Linguaggio Giornalistico Prof. Fiengo

Introduzione

Con questo lavoro ho voluto analizzare come alcuni quotidiani abbiano coperto il tragico evento della frana sul bacino artificiale del Vajont, avvenuta il 9 ottobre 1963, che provocò la morte di circa duemila persone. Come abbiano trattato l’argomento nei giorni appena successivi alla sciagura e quanto spazio abbiano dato alle proteste della popolazione locale prima che questo episodio si verificasse. Nonché i risvolti politici, l’influenza delle proprietà di alcuni giornali, lo scontro ideologico tra comunisti e “il resto del mondo”, l’utilizzo di un linguaggio spesso condizionante soprattutto per un lettore sprovveduto.

E’ doveroso precisare le difficoltà tecniche incontrate. Reperire giornali dell’epoca è stata impresa piuttosto ardua1, non sempre le fonti disponibili sono di prima mano, anche se gli articoli che ho citato e messo a confronto, oltre ad averne copia originale, credo siano indicativi e rappresentativi del giornalismo di allora in quanto scritti da nomi di spicco e collocati nelle prime pagine dei più grandi quotidiani nazionali.

L’analisi verte su 3 quotidiani: “Il Corriere della Sera”, “l’Unità” e “Il Gazzettino”. Del primo vanno ricordati l’ingente impiego di risorse e la qualità dei corrispondenti; il foglio del partito comunista ha avuto un ruolo rilevante nella fattispecie rappresentando l’indignazione dei montanari attraverso articoli di protesta dopo, ma soprattutto prima, il 9 ottobre 1963; infine il giornale locale, in pieno conflitto d’interessi, ha assai tergiversato nel tentativo, peraltro vano, di informare il popolo senza deludere la proprietà. In ultima una piccola analisi di una pagina de “Il Giorno” di venerdì 11 ottobre 1963 che mette in risalto come si possa comunicare tutte le informazioni fondamentali e, attraverso una sapiente impaginazione, allo stesso tempo offrire una chiave di lettura dei fatti che condizionerà il lettore nell’interpretazione delle notizie.

E’ fondamentale ricordare il contesto storico nel quale è accaduta la tragedia del Vajont. Infatti la lettura dei quotidiani di allora offre, al di là della notizia prettamente storica, un quadro preciso e dettagliato dell’Italia di quel periodo e, al fine di una corretta comprensione, non si possono prescindere la situazione accesa e i temi scottanti che impegnavano l’opinione pubblica: i contrasti sovente violenti tra i vari partiti politici, la guerra fredda o, e la diga del Vajont né sarà per un periodo l’incontrastato emblema, il miracolo economico italiano.

1 Alla biblioteca di Longarone, la più fornita sull’argomento, non possiedono alcuna copia originale dei quotidiani dell’epoca, solamente una striminzita rassegna stampa con qualche fotocopia delle varie prime pagine.

Il quotidiano anni ‘60

Nel 1963, anno in cui è accaduta la tragedia del Vajont, il quotidiano era il principale mezzo d’informazione. Vantava una serie di peculiarità che la televisione e la radio non possedevano – o non possedevano ancora -e nel descrivere la frana del 9 ottobre le mise tutte in gioco: l’estensione, molte furono le pagine dedicate al Vajont; la profondità degli articoli, con la possibilità di scendere in minuziose analisi; l’impiego di grafici, che illustrarono chiaramente lo smottamento della montagna; l’uso di fotografie, con quotidiani quale “Il Giorno” che uscì con 4 sovraccoperte dedicate esclusivamente alle immagini del luogo del disastro.

I quotidiani erano di poche pagine, basti pensare che “l’Unità” di sabato 12 ottobre contò sole 12 pagine. Il linguaggio impiegato aveva spesso connotazioni letterarie, e poteva permettersi un ritmo lento, soprattutto se confrontato con quello frenetico e nevrotico di oggi, atto a comunicare con un pubblico educato ai tempi televisivi. Non si era instaurato il circolo autoreferenziale dei media secondo il quale i media parlano quasi esclusivamente di sé stessi, caratterizzato dall’abituale e goffo tentativo dei giornali di recuperare e commentare notizie, talvolta progettate con l’unico scopo che se ne parli, che la televisione ha dato in esclusiva. La RAI ebbe un ruolo marginale, mentre leggermente diverso può essere il discorso per quanto riguarda la radio, della quale però rimane conservato ben poco materiale.

Il quotidiano può essere concepito come un “campo di forze organizzate gerarchicamente in una struttura”2, ovvero il prodotto giornale è l’equilibrio che si crea da una molteplicità di forze di natura e intensità diverse. Nel raccontare la frana del Vajont, ogni quotidiano dovette fare i conti soprattutto con “le condizioni tecniche, le scelte redazionali, le posizioni di campo, la priorità di interessi, le matrici culturali, gli orientamenti politici, il destinatario, la dislocazione geografica e socio-politica del pubblico”3.

Ecco che il quotidiano è posto al confine tra gli obblighi aziendali di spettacolarizzare l'

evento a fini commerciali, dare una lettura critica della situazione evitando altresì di informare troppo, senza rischiare di danneggiare gli interessi sottostanti. Tutto ciò si concretizza, per esempio, nella scelta di un termine parziale accanto ad uno neutro, nell’accostamento di un titolo ad una particolare fotografia, nella presenza di un titolo forte non perfettamente concorde con l’articolo che lo segue: in poche parole, nella presenza, all’interno della pagina di riferimenti che inducano il lettore ad un certo tipo di interpretazione e decodifica.

“L'

informazione – come afferma Umberto Eco -é per definizione parziale, per il fatto stesso di scegliere un evento, dove collocarlo, con che carattere e attraverso quali parole evocative raccontarlo l'informazione giornali-

informazione é soggettiva. E'un assunto filosofico elementare. Tuttavia l'stica é spesso tendenziosa, dipendente, succube degli «organi di potere», i quali attraverso la censura

o la stesura di una notizia ne variano l'

impatto con il lettore”. E negli articoli presi in considerazione questo è ciò che è avvenuto: il campo di forze è spesso distorto a vantaggio della proprietà, la quale per non intaccare il proprio prestigio evita accuratamente che vengano pubblicate alcune informazioni che invece trovano spazio in buona parte della stampa straniera o di opposizione.

Infatti la tragedia del Vajont non muore nel 1963. Per gioco, sarebbe possibile raccontare l’attualità attraverso i quotidiani di ieri, o i telegiornali di ieri. Toccando altre epoche, a prima vista così distanti, salta agli occhi come i problemi di fondo nei campi della politica, della società, dell’uomo siano i medesimi, oggi come mezzo secolo fa. Sarebbe sufficiente variare date e nomi4 per notare come il contesto nel quale si sviluppano i problemi di ogni giorno sia rimasto, nei suoi ca

2 Teoria sulla quale Alberto Cavallari basava le sue lezioni di giornalismo tenute alla Sorbona dal 1958 al 1970. 3 Mario Isnenghi, “Il potere di Carta”, saggio all’interno del volume a cura di Maurizio Reberschak “Il Grande Vajont”. 4 Salvo qualche rara e curiosa eccezione: un numero del Corriere della Sera del 1974 e di Repubblica del 2002 hanno come sommario “Silvio Berlusconi vuole comprare il Corriere della Sera”.

ratteri generali, invariato. Ecco come il Vajont, al pari di qualsiasi altro fatto storico del nostro paese, se osservato in chiave allegorica, assuma un peso sicuramente maggiore di quello di una storia di un paesino di montanari, ma diventi un fatto storico, civile, personale che quotidianamente si ripete e che richiama, in primo luogo, la coscienza sociale di ognuno di noi.

La storia: il Vajont in poche righe

“Ti dice niente Vajont? 9 ottobre 1963. Dal monte Toc, dietro la diga del Vajont, si staccano tutti insieme 260 milioni di metri cubi di roccia. Duecentosessanta milioni di metri cubi di roccia cascano nel lago dietro alla diga e sollevano un’onda di cinquanta milioni di metri cubi. Di questi cinquantamilioni, solo la metà scavalca la diga: solo venticinque milioni di metri cubi d’acqua… Ma è più che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila i morti. La storia della diga del Vajont, iniziata sette anni prima, si conclude in quattro minuti di apocalisse con l’olocausto di duemila vittime.”5

Era il 1929 quando avvenne il primo sopralluogo nei paesini di Erto e Casso6 da parte dell’ingegnere Carlo Semenza e del geologo Giorgio Dal Piaz. Il progetto vagamente abbozzato all’epoca era quello di costruire un immenso lago artificiale, una sorta di banca dell’acqua di 58 milioni di m³ d’acqua. Per avere un metro di paragone basti pensare che gli altri 7 laghi già costruiti nelle Prealpi, se sommati, avrebbero formato un bacino di 64 milioni di m³ d’acqua. Il progetto era, a quanto pare, ambizioso. Venne avvallato dal conte Giuseppe Volpi, uno dei più importanti industriali italiani e fondatore della Società Adriatica di Elettricità (SADE), il quale ottenne l’autorizzazione a procedere convocando una riunione straordinaria nelle confuse giornate che seguirono l’8 settembre 19437.

Nel 1948 la SADE si presentò al Comune di Erto per istigarlo a vendere le terre dove sorgerà la diga. Il Comune di Erto, intimorito dalle carte bollate provenienti dallo Stato, malauguratamente vendette. Anche la terra che non era sua. Infatti più di cento famiglie si accorsero che il comune aveva ceduto i loro terreni, e pretesero il rimborso che gli spettava. Il Comune di Erto fu costretto ad indebitarsi con la SADE per poter risarcire i cittadini. Non era ancora cominciata la “storia del Vajont” e già la SADE si trovò in posizione di forza nei confronti degli ertani.

Nel 19568 la SADE approdò ad Erto e, dopo aver aperto un cantiere di 400 operai, cominciò a costruire. La diga portò entusiasmo, modernità, soldi. Il cantiere offriva posti da operaio9 e aumentò il

5 Dal retro del libro di Paolini Marco e Gabriele Vacis, Il racconto del Vajont, Garzanti Editore, 1997. 6 Erto, paesino di 906 abitanti, e Casso, 456 abitanti, la frazione minore del comune di Erto e Casso, sorgono sulla riva destra del Vajont, il torrente che taglia al centro una valle a pochi chilometri da Belluno. 7 Il 15 ottobre 1943 grazie all’adunanza di 13 membri su 43 della IV Sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, i quali, naturalmente, non costituivano il numero legale. 8 E’ curioso notare come nel 1956 si costruì anche la prima caserma dei carabinieri, quando ve n’era già una a Cimolais, a soli 5 chilometri di distanza. Con l’arrivo di un’industria potente era necessario che ci fosse un’istituzione in grado di far rispettare l’ordine, per esempio inviando gli espropri o punendo i dissenzienti che non volevano cedere la casa.

tenore di vita: a Longarone i cittadini si poterono permettere le prime radiotransistor, le Gilera 300, persino qualche automobile. L’azienda, consapevole del forte appoggio del governo, sovente non rispettava i decreti legislativi e agiva prima di ottenere le necessarie autorizzazioni. Nacque allora il “Comitato”, presieduto dal dottor Gallo, che lotterà contro le ingiustizie e le sopraffazioni della SADE fino a quando, si saprà in seguito, la stessa SADE non acquisterà, ad un prezzo ragionevole, i suoi terreni. E’ uno dei tanti tradimenti che i cittadini dovranno sopportare, non ultimo quello de “Il Gazzettino”, sempre pronto a elogiare la forza e il prodigio degli ingegneri e non darà mai voce al malcontento popolare.10

Nel 1957 dagli stessi Semenza e Dal Piaz11 che fecero il primo sopralluogo nel 1929, venne approvata una variante della diga, ovvero l’innalzamento di 61,60 metri. Il progetto della diga passò da 200 metri a 261,60 metri, e naturalmente aumentò anche la disponibilità del bacino idrico: da 58 milioni di m³ a 150 milioni di m³ d’acqua..

Accaddero delle cose strane. Ecco un esempio. Il 15 giugno 1957 arrivò dal ministero l’autorizzazione governativa a costruire, ma la SADE già da tempo aveva attivato il proprio cantiere. Tempo dopo l’ingegner Desidera, funzionario del Genio Civile di Belluno, in seguito a numerose segnalazioni, decise di far chiudere il cantiere. Ventiquattro ore dopo verrà sostituito da un uomo malleabile come il professor Violin, con il quale la SADE non avrò più alcuno screzio. Le situazioni anomale, pur non essendo l’argomento della ricerca è necessario sottolinearlo, furono all’ordine del giorno.

Affinché una diga incominci ad operare è necessario verificarne la tenuta. Nel 1958 venne nominata la “Commissione di Collaudo” che faceva capo all’ingegner Penta, già assunto in precedenza dalla SADE. Nel 1959 a Pontesei, in una diga costruita da Semenza con la consulenza di Penta, avvenne una frana. Gli ertani iniziarono a preoccuparsi: “se è successo a Pontesei -pensarono perché non può accadere qui?”

La lingua del potere, burocratica e dotta, presente nei documenti ufficiali rendeva impossibile qualsiasi interesse spontaneo alle procedure da parte dei “montanari ignoranti”: la SADE era un colosso e nessuno aveva l’autorità per criticarne l’operato. Ma non tutto procedeva senza intoppi. Numerosi indizi portavano gli autoctoni a protestare con forza, ad organizzare riunioni tra capifamiglia, a partecipare attivamente affinché la situazione non desse adito a malintesi. Gli alberi cominciarono ad inclinarsi, comparirono delle crepe sui muri delle case, evidenti screpolature sui marciapiedi, si sentirono rumori sordi e persistenti arrivare dalla montagna, e in più, il 2 dicembre 1959 a Frejus, in Francia, una diga cedette provocando 400 morti. Una “honte nationale”, si disse, un vergogna nazionale.

Nel 1959 si susseguirono altre importanti rilevazioni, in primo luogo quella dell’austriaco Leopold Müller. Müller parlerà in seguito di “una grande frana profonda,” affermando che “non è più possibile evitare la frana”. Invece l’ingegner Pietro Caloi sostenne che “la crosta del monte Toc

9 L’operaio era quasi un lavoro di prestigio al tempo, soprattutto rispetto ad altri tipi di lavoro quali il falegname, il contadino, il venditore ambulante. 10 Tina Merlin, Vajont 1963. La costruzione di una catastrofe. Da una nota della Merlin: “nel 1939 i proprietari del Gazzettino risulteranno: la FIAT con 1291 azioni, la SADE con 1000 azioni, Volpi con 800, Cini con 854. Cini e Volpi, padroni della SADE, diventeranno perciò i padroni del Gazzettino”. 11 Se nel 1929 Semenza e Dal Piaz erano due giovani studiosi, nel 1957 l’ingegner Semenza è prossimo alla pensione mentre il geologo Dal Piaz lo è da tempo.

appoggia su un potente supporto roccioso autoctono”. “La frana se c’è”, ribadì Caloi “riguarda però soltanto alcuni strati di sfasciume superficiale, al massimo 20-30 metri di spessore. Sotto è roccia compatta.” Ecco che il parere dei due tecnici era discordante. Erano necessari nuovi esami per completare le indagini di Müller, e queste vennero affidate a Franco Giudici ed Edoardo Semenza12, figlio dell’ingegner Carlo Semenza, che arriveranno alle stesse conclusioni del geologo austriaco. Ma il progetto era troppo avanzato e gli interessi economici non prevedevano ripensamenti dell’ultima ora.

Infatti nell’autunno del 1959 la diga era finita, non restava che verificarne la tenuta attraverso le prove d’invaso che consistono nell’immissione lenta e calcolata dell’acqua nel bacino e nello svuotamento dello stesso per esaminare la reazione della montagna. Tre saranno le prove d’invaso effettuate. La prima incominciò nel 1960. L’acqua lentamente saliva e copriva le zone dove poco tempo prima risiedevano 400 persone, poi sfrattate e costrette ad una casa di fortuna. La quota fissata era 600 metri, all’incirca a metà della diga. La SADE richiese l’autorizzazione a portare l’acqua a 660 metri senza prima aver svasato13. La seconda prova d’invaso divenne la continuazione della prima, ma ci fu un motivo ben preciso che mise le ali ai piedi della SADE: in Italia da un periodo si parlava di nazionalizzazione delle aziende idroelettriche e terminare i controlli significava aumentare notevolmente il prezzo della diga.

Il 4 novembre 1960 accadde quello che tutti temevano. Dopo una settimana di pioggia il monte Toc franò sul bacino artificiale. Fu il primo forte e inequivocabile segnale. Infatti comparve, visibile in parte anche ad occhio nudo, una fessura di un metro che percorreva il fianco della montagna per circa due chilometri e mezzo. I tecnici annunciarono una riunione d’urgenza nella quale presero in considerazione varie e costose ipotesi e, alla fine, optarono per un tunnel che forando la montagna collegasse, secondo il principio dei vasi comunicanti, due bacini. Nel caso di una frana l’acqua avrebbe raggiunto un’altezza media nei due bacini. Questo progetto bloccò per circa sei mesi le operazioni d’invaso.

Il 3 febbraio 1961 pervenne ai tecnici il quindicesimo rapporto geologico di Müller sulla frana del Toc. L’austriaco sosteneva che le contromisure, sul piano pratico, erano a quel punto irrealizzabili. Ma quest’ipotesi era fortemente screditata dagli interessi in ballo. Solo il 6 febbraio di un anno dopo il “Servizio Dighe” autorizzò l’invaso a quota 675. Non appena l’acqua salì aumentò l’attività sismica nella vallata: d’intensità del secondo e terzo grado della scala Mercalli si registrarono cinque scosse a marzo, undici ad aprile, diciassette a maggio e ventuno a giugno, ma non ricevettero l’attenzione che meritavano, erano considerate scosse d’assestamento.

Nel frattempo venne affidato dalla SADE all’università di Padova il compito di costruire un modellino in scala del progetto in modo da simulare la tenuta della diga. Al progetto venne incaricato il prof. Ghetti, il quale svolgerà il suo lavoro in modo, si potrebbe dire, non propriamente scientifico. Nonostante tutto “la quota di sicurezza è di metri 700 s.l.m.” sosterrà. Inoltre “se l’acqua si trova a 700 metri l’onda sarebbe stata di 25-30 metri d’acqua” annotò nei suoi appunti durante le simulazio

12 E’ da poco uscito un libro firmato da Edoardo Semenza, il quale ha esposto la propria opinione sui fatti del Vajont. Parte del libro è una risposta al lavoro di Paolini e al libro della Merlin. 13 Si chiede Paolini: “Allora, per fare i controlli, per vedere lo stato del fondo dopo una prova d’invaso, bisogna togliere l’acqua, se no cosa controlli? È un lavoro di pazienza… Solo che ogni volta che togli acqua perdi tempo. E il tempo, quando sono impiegati tanti capitali, non è denaro: è molto denaro!

ni, “ma se trova l’acqua più alta, con quella differenza l’onda avrebbe un’ampiezza infinitamente più grande”.

Nell’ottobre del 1962 terminò la seconda prova d’invaso e, contemporaneamente, cessò l’attività sismica nella valle. Si decise di iniziare la terza prova d’invaso. Ma il 6 dicembre 1962 venne pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale” la legge che istituiva l’ENEL, l’Ente Nazionale dell’Energia Elettrica.

Il 26 luglio 1963 l’ENEL prese in consegna dalla SADE l’impianto del Vajont come “impianto funzionante”14, nonostante mancasse la terza prova d’invaso, quella che avrebbe garantito il corretto funzionamento della diga. La terza prova d’invaso venne compiuta a tempo di record, ma la responsabilità penale era a quel punto nelle mani dell’ENEL, proprietaria ufficiale.

Il 2 settembre 1963 un terremoto del 7 grado della scala Mercalli scosse il Vajont. La preoccupazione aumentava, ma la SADE rispose che era infondata e che tutto era sotto controllo. Vennero indette nuove riunioni, i tecnici si confrontarono, comunicarono le loro tesi, cercarono di capire fino a che punto fosse possibile esporsi. L’angoscia cresceva, e comune il desiderio di fare chiarezza, ma il 9 ottobre era alle porte.

Il 9 ottobre 1963 alle ore 22.30 a Longarone i bar sono affollati: sul secondo canale c’è la partita Glasgow Rangers-Real Madrid. Moltissimi giovani sono scesi a valle dalle montagne in motorino, o in bicicletta, in cerca di un televisore. Longarone, “piccola Milano” com’era chiamata, alle ore 22.35 rimane senza corrente. Un lampo inaudito illumina la vallata a giorno. I fumosi locali si vuotano, c’è un istante di incomprensione, le persone escono all’aperto per capire. Ma non c’è niente da capire. Un temporale, si pensa. Il vento è pungente, ma non sono folate, è continuo, crescente. Intanto il monte Toc è franato nel bacino artificiale. Si è alzata un’onda di 250 metri, più alta persino del paesino di Casso che, per miracolo, viene sorvolato da quest’ammasso d’acqua. Nessuna vittima a Casso. In 4 minuti, ad una velocità di 80 km/h , l’acqua percorrerà i due chilometri che la separano dalle prime case della vallata, le prime case di Longarone. E intanto il vento spira forte, pungente, battagliero più che mai. C’è un odore di terra nel vento. E’ un odore strano. Poi, qualcuno intuisce. E lo dice. C’è panico in paese, chi è indeciso se correre a salvare i genitori o la fidanzata. Chi prende l’auto e accelera. Chi non fa in tempo ad accendere il motorino. Chi si chiude in casa e prega. Nessuno può veramente sapere, nessuno può immaginare la devastante portata dell’onda. Il vento continua. Perché prima ci penserà l’aria, e poi l’acqua. Duemila morti, più o meno. “E’ il più grande funerale che mai abbia attraversato questo paese – sottolineerà Paolini al termine del suo spettacolo -, dopo Caporetto. E non era solo il suo. Era quello di quell’Italia contadina che non serviva più a nessuno.”

14 Pagina 9 dell’allegato A del protocollo d’acquisto.

Prima del 9 ottobre 1963

“Il Gazzettino”, unico organo di stampa regionale con alcune pagine provinciali, anche sotto le proteste degli ertani che vorrebbero vedere pubblicate le ingiustizie e le sopraffazioni delle quali sono vittime, tace. Passato, come già accennato, dalla SADE alla DC, in ossequio ai precedenti proprietari, “Il Gazzettino” preferisce manifestare il “suo compiacimento per l’opera grandiosa e ardita che [ndr. Carlo Semenza, il progettista ingegnere della diga] ha progettato e che, quando sarà realizzata, costituirà indubbiamente un giusto motivo di orgoglio per la tecnica italiana”15.

Inoltre un’inchiesta16 di diversi servizi sull’argomento viene condotta, in quel periodo, da Armando Gervasoni17 suggerita dal parroco di Casso don Carlo Onorini, ma più per fuorviare l’attenzione che per informare. Naturalmente non si discute né si accenna alla precaria situazione degli ertani, ma si alimenta il solito e sterile campanilismo, distraendo la popolazione locale da ben più incombenti questioni.

L’unico giornale che ha pubblicato degli articoli di protesta è stato “l’Unità”. La giornalista Tina Merlin scriverà tre articoli nei quali denuncerà il rischio imminente d’un pericoloso smottamento della montagna circostante al lago artificiale, i malumori che prendono sempre più consistenza tra i paesani e le irregolarità burocratiche delle quali si fa artefice la SADE.

L’articolo titolato “LA SADE SPADRONEGGIA / MA I MONTANARI SI DIFENDONO” presente nel numero de “l’Unità” del 5 maggio 1959 le costerà, insieme al direttore Orazio Pizzigoni, una citazione a giudizio per divulgazione di “notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pub-blico”18. I due verranno assolti “perché il fatto non costituisce reato”19. E’ curioso notare come qualche giorno prima dell’assoluzione, il 7 novembre precisamente, si sia effettivamente verificato ciò che Tina Merlin temeva, ovvero l’innalzamento delle acque del bacino di oltre un metro causato da una frana. Il secondo articolo, non a caso, appare l’8 novembre 1960 con il titolo “UNA GIGANTESCA FRANA PRECIPITA A ERTO / NEL LAGO ARTIFICIALE COSTRUITO DALLA SADE” e descrive il cedimento della montagna, le reazioni allarmate degli abitanti, l’arrivo in “due lussuosissime macchine [...] dei pezzi grossi della SADE”.

“UNA ENORME FRANA / DI 50 MILIONI DI METRI CUBI” viene pubblicato il 21 febbraio 1961 e sostiene, senza mezzi termini, che “tutta una montagna sul versante sinistro del lago, artificiale, sta franando. Non si può sapere se il cedimento sarà lento o se avverrà con un terribile schianto. In quest’ultimo caso non si possono prevedere le conseguenze.”

Dopo il 9 ottobre 1963 “l’Unità” adotterà una linea giornalistica aggressiva anche in virtù di questi articoli che batterono sul tempo gli avversari, anche se poi la battaglia sarà quasi esclusivamente

15 “Il Gazzettino”, 16 giugno 1957, pagina locale. E’ un commento alla notizia dell’approvazione da parte del Consiglio superiore dei LL.PP. del progetto della diga. 16 Tina Merlin, cit. 17 Ibidem. In una nota su Gervasoni, la Merlin scrive: “Gervasoni, che dopo la sciagura scriverà un libro sul Vajont […] era al corrente, come me, della situazione, ma non poteva scriverla sul suo giornale. Si porterà nel cuore fino alla morte […] il rimorso di aver accettato le regole del suo padrone al posto di quelle della sua coscienza.18 Elenco documenti processuali. Citazione a giudizio: “[…] imputati di reato di cui all’art. 656. 57 CP e 18 Legge sulla stampa 8-2-1948 n.47”. 19 Ibidem. Sentenza di Assoluzione.

politica con i quotidiani filo-governativi pronti a screditare “gli sciacalli comunisti”20 i quali, a loro volta, ne ricavarono un motivo in più per continuare la loro lotta alle istituzioni ed agli organi di potere.

Il giorno dopo: giovedì 10 ottobre 1963

Malgrado la frana sia avvenuta alle 22.39 del 9 ottobre 1963 la maggior parte dei giornali riescono a correggere la prima pagina e a pubblicare la notizia il giorno successivo. In generale assistiamo ad un numero elevato, e peraltro comprensibile, di errori: “Stampa Sera” parla di “primi soccorsi del governo per le popolazioni del Cadore”21, “Il Gazzettino” che uscirà in 3 copie diverse inserendo fino all’ultimo gli aggiornamenti degli inviati, non sa se “la sciagura sia stata provocata dal crollo totale o parziale del grandioso gigante di cemento armato oppure […] dalla caduta di una frana di proporzioni elevatissime nell’invaso formato dalla diga”22. “Il Corriere della Sera” parla di “decine di morti e centinaia di feriti”23, mentre “L’Unità” titola in prima pagina “HA CEDUTO LA DIGA SUL LAGO VAJONT” e sospetta “che le vittime debbano contarsi a decine”24; non compare alcun accenno agli articoli precedentemente pubblicati e scritti dalla Merlin, infatti è da venerdì 11 che incomincia la battaglia contro i monopoli dell’industria elettrica. Il numero di morti previsti dagli altri giornali varia da 2000 a 3000.

E’ fondamentale tenere in considerazione l’ora tarda in cui il disastro è avvenuto, la mancanza di mezzi di comunicazione con i luoghi circostanti la frana25, la notte fonda che sicuramente non ha agevolato le indagini e l’impossibilità di raccogliere testimonianze attendibili dai pochi superstiti ancora sotto shock.

20 A questo proposito riporto una nota della Merlin: “Un grande manifesto nazionale della DC, affisso il 19 ottobre in tutta Italia, è intitolato a caratteri di scatola SCIACALLI. Si scrive: «Sulla sciagura del Vajont il Partito comunista ha imbastito una spregevole speculazione politica […] I COMUNISTI INVIANO “AGIT-PROP” PER ATTIZZARE SOTTO LE MACERIE IL FUOCO DELL’ODIO E DELLA SOVVERSIONE. ADDITIAMO AL DISPREZZO DEL PAESE GLI SCIACALLI COMUNISTI»”. Da Vajont 1963, cit. 21 Stampa Sera” di giovedì 10 ottobre 1963 a pag. 15.

22

Il Gazzettino” di giovedì 10 ottobre 1963 in prima pagina nella prima edizione che titola “DISASTRO ALLA DIGA DEL VAJONT”.

23

Corriere della Sera” di giovedì 10 ottobre 1963, nel sommario in prima pagina che titola “UNA VALANGA D’ACQUA SOMMERGE / CASE E PERSONE PRESSO BELLUNO”. 24 L’Unità” di giovedì 10 ottobre 1963, articolo in seconda pagina . 25 Le centraline dei telefoni saranno intasate per molte ore e sarà praticamente impossibile comunicare con i paesi limitrofi.

I giorni seguenti: venerdì, sabato e domenica

Con venerdì 11 ottobre la situazione nei giornali cambia radicalmente. Le redazioni avranno il tempo di controllare le informazioni che andranno in stampa, di pubblicare ampi servizi con fotografie e grafici illustrativi e di organizzare la linea ideologica che il giornale dovrà adottare nel corso della vicenda.

Un ruolo prioritario fu svolto da 3 quotidiani: “Il Corriere della Sera”, “Il Gazzettino” e “L’Unità”. “Il Corriere della Sera” era il più autorevole quotidiano nazionale, superiore agli altri nei mezzi e nei giornalisti impiegati, e la linea politica adottata fu a tratti incerta, con alcuni articoli, per esempio di Buzzati, Cavallari e Silvar, caratterizzati da una vena malinconica e arrendevole, e altri spunti, come quelli di Corradi, che nell’indignazione chiedevano giustizia. “Il Gazzettino” era un importante canale dell’opinione pubblica, soprattutto per gli abitanti del Veneto, perché regionale e quindi più vicino al popolo. “L’Unità” rappresentava l’unica voce contro lo Stato e contro i monopoli dell’energia elettrica, anche in forza della linea editoriale indignata e rabbiosa che il giornale adottò successivamente ai fatti rivendicando d’esser stato il primo a lanciare l’allarme in tempi non sospetti.

La linea politica si riflesse nella terminologia adottata. Per esempio ne “Il Corriere della Sera” e ne “Il Gazzettino” si parla di “catastrofe di proporzioni bibliche”, di “diabolica catapulta”, di “un’immagine grottesca del giudizio universale” insistendo, con tono a tratti vagamente leopardiano, sul fatalismo e sull’imprevedibilità della Natura, con un vago conforto ai superstiti, sopravvissuti come “formiche che il piede dell’uomo inconsapevolmente risparmia, eppure appartenevano alla medesima colonna che il piede ha schiacciato”. “L’Unità” non disdegna l’utilizzo di un gergo fortemente connotativo e parla ripetutamente di “strage”, “assassinio”, “genocidio”, “carneficina”, “orrendo massacro”, “olocausto”.

per i sopravvissuti; il fervore dei soccorsi da parte di volontari da ogni parte d’Italia; in ultimo “la paura del Toc” e la preoccupazione che il monte potesse cedere nell’aria da molto tempo.

In generale è su quest’ultimo punto che verterà l’ambiguità delle pagine del “Corriere della Sera”. Alcuni articoli, come si vedrà, saranno verdetti indiscutibili sulla potenza e sull’imprevedibilità della Natura, unica e sola artefice della catastrofe, mentre dall’altra compariranno anche servizi che chiederanno giustizia e che inviteranno le pubbliche autorità alla rilevazione delle eventuali responsabilità umane. Il tutto con la preoccupazione di non darla vinta ai comunisti che, secondo l’opinione di Cavallari, peraltro diffusa nell’opinione pubblica, fecero d’una tragedia una speculazione politica.

In seconda pagina il titolo a 9 colonne è “SI CAMMINA SU UNO STRATO DI MORTI” mettendo in risalto la forza devastante della Natura che, senza risparmiare nulla, ha “strappato, divelto, scavato, segato, polverizzato, spostato, impastato”. Ha scoperchiato le tombe del cimitero, profanando quindi il luogo sacro per eccellenza, che tale non è perché di fronte all’immensa portata dell’ondata violenta non ci sono distinzioni che tengano. Si viene a contatto con un’umana uguaglianza di fronte alla morte, alla fatalità, all’imprevedibilità della tragedia che può cogliere chiunque, sempre e in ogni luogo. Si insiste “sulle tombe scoperchiate” e sull’impossibilità da parte delle persone di ritrovare “i propri morti”: la gente non può vivere col pensiero di non poter dare sepoltura ai propri familiari, di non poterli piangere davanti a una tomba. E non erano solo speculazioni giornalistiche nel tentativo di spettacolarizzare l’evento, ma si trattava di un problema realmente sentito dai superstiti familiari delle vittime.26

La pagina numero 3 sarà al centro di molte polemiche. Si apre col titolo: “TUTTO E’ IRRIMEDIABILMENTE FINITO”, preceduto dall’occhiello: “CORAGGIO, SEPPELLIAMOLI, NON C’E’ ALTRO DA FARE”. Il sommario recita: “Ormai non c’è più nessuno da salvare e soccorrere; ci sono solamente morti da portare via – File di soldati / scavano con vanghe e zappe – E’ già l’ora dei bulldozer -Bisogna avere il coraggio di chiedere perché è avvenuto”. Sotto, della grandezza di mezza pagina, una fotografia di Longarone distrutta. I due articoli che compaiono sotto la fotografia sono “NATURA CRUDELE” di Dino Buzzati e “Dopo il disastro, il silenzio” di Alberto Cavallari, inviato speciale.

Il pezzo di Buzzati è caratterizzato dal doppio coinvolgimento dello scrittore e dell’uomo che, all’occorrenza, si fa cittadino, amico, fratello dei dispersi, ricordando che i morti “non sono della Cina o della Molucche, ma erano gente della mia terra che parlavano come me”. L’articolo è in sé stupefacente per la vitalità che il romanziere impiega nel difendere, anzi esaltare, l’operato dell’uomo. Ripercorre la storia della diga, da prima della costruzione in cui nel panorama si distingueva solo un “vecchio e romantico ponticello” che collegava le due montagne, che qualcuno aveva insinuato essere il più alto ponte d’Italia, e che venne “umiliato” dalla diga non appena questa venne ultimata. Credo sia interessante riportare alcuni passi per capire l’intensità e la frequenza di un elo

26 Merlin, cit. Nella nota 10 a pagina 118 la Merlin spiega: “Il culto dei morti è sempre stato molto vivo nelle zone di montagna. Le tombe nei cimiteri sono sempre ben curate e piene di fiori. Nel caso del Vajont, ricuperare la salma del proprio familiare e dargli sepoltura, voleva dire «portarselo a casa», poter «discorrere con lui» quando lo si andava a trovare in cimitero. Tale sentimento era ben visibile soprattutto a Longarone: quando dalle macerie emergeva un corpo irriconoscibile i superstiti pretendevano di riconoscere un proprio familiare, disputandolo con altri superstiti, per poter avere un morto da portarsi a casa”.

gio che non si ferma al lato estetico della diga, ma intravede una vitalità quasi mistica carica “di una vita misteriosa”.

“Il fantastico muraglione […] giganteggiava più vertiginoso delle rupi intorno, con sinuose e potenti curve, immobile eppure carico di una vita misteriosa”. “Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere, quindi non si può, […], dare colpa a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimoniava della tenacia, del talento e del coraggio umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro perfino dal lato estetico”. […] “Ed era una scultura stupenda, Arp e Brancusi ne sarebbero stati orgogliosi”. “Intatto, […], sta ancora il prestigio della scienza, della ingegneria, della tecnica, del lavoro. […] Tutto era stato calcolato alla perfezione, e quindi realizzato da maestri, la montagna, sotto e ai lati, era stata traforata come un colabrodo per una profondità di decide e decine di metri, […], apparecchiature sensibilissime registravano le più lievi irregolarità o minimi sintomi di pericolo. Ma non è bastato. Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed astuta che la fantasia della scienza.” “Intatto, e giustamente, è il prestigio dell’ideatore, dell’ingegnere, del progettista, del costruttore, del tecnico, dell’operaio, giù giù fino all’ultimo manovale che ha sgobbato per la diga del Vajont”.

Sulla destra l’articolo di Alberto Cavallari è remissivo, commovente ma privo di una seppur minima speranza. L’occhiello e il titolo sono emblematici. Ecco un estratto estremamente indicativo:

“Non mi è mai capitato, in diciotto anni di giornalismo, di dire che dopo un disastro è inutile scavare, cercare, chiamare, soccorrere. C’è sempre stato un filo di speranza. C’è sempre stato un bambino superstite sui tetti da salvare. C’è sempre stato un vecchio sotto le macerie che chiama. Ma qui bisogna stringere i denti e scriverlo. Qui non c’è più nessuno da salvare e da soccorrere. Qui ci sono solo dei morti da portar via. Duemila, duemiladuecento, duemilacinquecento, non si sa bene. Sono nell’ordine delle migliaia, come nei disastri indiani, come in Cina, e non c’è niente da sperare. Coraggio, seppelliamoli. E’ l’unica cosa che ci resta da fare.”

Fortunatamente queste previsioni non si riveleranno azzeccate, dato che “Il Corriere della Sera” di domenica 13 a pagina 2 titolerà: “Un uomo aveva udito i suoi lamenti. / Sola al mondo una bimba salvata / fra le rovine di Longarone” e a pagina 3 verrà data notizia del ritrovamento di altri due bambini vivi. Il pezzo di Cavallari, altamente suggestivo, ripercorre le zone del paese distrutto, ricorda i generosi soccorsi da ogni parte d’Italia, riflette sull’incapacità dell’ingegno umano di accettare una simile sconfitta mentre, in giornata, ha visto arrivare pompieri, barelle, volontari, preti, poi i lanciafiamme, infine il rumore tetro dei bulldozer che, “con la mandibola di acciaio, rompono le ultime illusioni.”

Ancora più deciso è l’articolo di Silvar a pagina 4 che titola: “LE FORZE DELLA NATURA / NON HANNO TRAVOLTO LA DIGA” specificando nel sommario che “Si deve alla saldezza della costruzione se non tutti i milioni di metri cubi di acqua sono precipitati a valle, determinando un disastro dieci volte maggiore”. Il pezzo inizia così:

“La sciagura del Vaiont resterà sicuramente nelle cronache come una delle più impressionanti e dolorose nel settore degli invasi idrici artificiali, ma non rientra nella casistica dei drammi il cui verificarsi possa farsi risalire a cause puramente tecniche. Sulla base dei dati fin qui a nostra disposizione dobbiamo dire che il dramma è stato determinato da un concorrere di circostanze nelle quali la tecnica – in particolare quella delle dighe di sbarramento idroelettriche – non entra neppure come concausa.”

L’articolo continua dando una sommaria ricostruzione degli avvenimenti e celebrando l’incredibile resistenza della diga alternando aggettivi forti a numeri indicativi. Anche nei giorni successivi, Silvar si è sovente adoperato in descrizioni estremamente settarie e faziose utilizzando un linguaggio che, anche quando non dava espliciti giudizi di merito, lasciava chiaramente trasparire la propria idea sull’argomento. Ecco un altro estratto dall’articolo, dove i termini isolati non hanno alcunché di soggettivo, ma è il loro accostamento a creare nel lettore l’impressione voluta.

“La sua possente massa di 353.000 metri cubi di calcestruzzo poggiava solidamente in una profonda gola rocciosa in calcare dolomitico, sulla quale si affondavano le sue fondazioni e si impostavano le spalle del poderoso arco.”

Silvar continua riprendendo ciò che aveva già anticipato nel sommario. Non solo non viene presa in considerazione l’ipotesi della responsabilità dei costruttori della diga, ma è addirittura l’eccellente operato dell’uomo ad aver evitato ben più terribili catastrofi.

“Si deve all’intima connessione fra diga e roccia di sostegno se la violenta ondata provocata dal precipitare della frana nel lago non ha scardinato il manufatto, permettendogli di opporsi validamente ad una distruzione totale che avrebbe moltiplicato spaventosamente le conseguenze del disastro.”

Per il resto viene, al solito, messa in risalto la fantasia della natura e la compattezza della diga che, in un’impresa quasi disperata, è riuscita, forse oltre i limiti che si aspettava, a resistere contro l’onda d’urto “propagata nella massa del lago con la violenza di un titanico ariete”.

Sabato 12 ottobre in prima pagina c’è un articolo di Cavallari con il titolo “I VIVI RICOMINCIANO A VIVERE”. Cavallari dedica ampio spazio all’avvento dei sindaci comunisti dall’Emilia che stanno rimpiazzando i pochi consiglieri, ancora inebetiti e sconvolti dalla tragedia.

“I consiglieri superstiti tacciono, i sindaci emiliani sono abili, parlano di un disastro provocato dal «sistema». Consigliano di organizzare gli aiuti tra comune e comune scalcando le autorità centrali, di distribuire i denari ai superstiti subito. Dieci minuti dopo, sono i signori in grigio e blu che guidano il consiglio.”

Il tema dello strumentalismo politico pervade all’incirca metà articolo. Cavallari sarà uno dei “giornalisti borghesi” più attaccati dalle pagine de “l’Unità”. E’ curioso notare che troviamo un altro articolo d’impatto molto forte, quello di Egisto Corradi che “la strategia del giornale retrocede in terza”27. Il pezzo di Corradi è emblematico sia nel titolo “ASPETTAVANO IL CROLLO / GUARDANDO LE SPIE LUMINOSE” che nell’occhiello “I TECNICI SAPEVANO CHE LA MONTAGNA STAVA FRANANDO. Si legge che “la diga è intatta, intatta e superba nel suo strapiombo di duecentosessantacinque metri”, ma vengono senza eufemismi descritti, per la prima volta con evidenza sulle pagine del giornale, i segnali di pericolo e, da un’intervista ad un carpentiere della diga,

27 Mario Isnenghi, cit.

messo in risalto che “i tecnici sapevano che una parte della montagna doveva crollare nel lago. Aspettavano da un giorno all’altro, da un’ora all’altra. […] I tecnici, ovviamente, si aspettavano una frana di proporzioni infinitamente minori rispetto a quella che invece si ebbe”. E’ con articoli come questo che la linea adottata dal “Corriere della Sera” non è chiaramente definibile secondo un binario predeterminato che i giornalisti, di volta in volta, percorreranno senza uscire. Al contrario si oscilla dagli elogi incondizionati alla diga a dichiarazioni impegnative come quest’ultimo titolo preso in considerazione. Inoltre come sottolinea Mario Isnenghi, “Cavallari e Corradi si confermano le due punte di diamante […] non si vuole tuttavia suggerire una lettura alternativa dei fatti da parte dei due inviati; c’è piuttosto un montaggio bilanciato da parte del giornale, con una linea probabilmente problematica che si viene aggiustando giorno dopo giorno”.

Domenica 13 ottobre il “Corriere della Sera” apre con il titolo “GIORNO DEI MORTI A LONGARONE”. Sulla sinistra compare un editoriale non firmato “GIUSTIZIA SENZA RISSA”, frase che sarà poi il leitmotiv della giornata e delle giornate seguenti, in risposta all’ansia a tratti nevrotica della giustizia-subito gridata a gran voce dai comunisti. Nessuno ha verità da elargire e solo la magistratura potrà dare sentenze definitive sono i due cardini su cui si muove l’editoriale e gran parte dell’opinione pubblica non di estrema sinistra. Il “Corriere della Sera”, pur rifiutando di ammettere la validità delle tesi comuniste e sostenendo fino all’ultimo la necessità della sentenza ufficiale, non scadrà in interpretazioni di basso livello o in costruzioni di pagine giornalistiche ingannevoli e faziose, come “Il Giorno” in un’analisi che si vedrà in seguito, ma potrà permettersi una neutralità dettata dal fatto di non essere assoggettato a vincoli di potere poiché, essendo uno dei più importanti quotidiani italiani, il “Corriere della Sera” è esso stesso fonte di potere.

“L’Unità” sarà il quotidiano che più di ogni altro parteciperà alla lotta politica affinché si faccia giustizia rivendicando d’esser stato il primo ad aver lanciato l’allarme ancora in tempi non sospetti. Ma c’è di più: l’organo del P.C.I. vede spegnersi un comune, quello di Longarone, retto da comunisti e socialisti e questo alimenta l’indignazione e l’invettiva protagoniste nelle pagine per almeno una decina di giorni.

Il venerdì 11 ottobre in giornale dedica 4 pagine su 14 al Vajont, il linguaggio, rispetto al moderato “Corriere della Sera”, è più aggressivo ed esprime la collera degli inascoltati comunisti. Infatti proprio la giornalista Tina Merlin, l’autrice degli articolo sul Vajont ha permesso infatti al giornale di battere sul tempo gli avversari, ricoprirà il ruolo di personaggio anche se ella stessa ricorderà che il suo non è stato uno scoop o una profezia, ma il lavoro corretto d’un’onesta giornalista che ha scritto ciò che tutti sapevano. L’articolo di spicco è quello scritto da Aniello Coppola con titolo “Tragedia con un nome”, in prima e ultima pagina:

“Troppe scene si ripetono con monotonia. Il diluvio di flautate parole di conforto per i «laboriosi valligiani», la solita promessa della solita «inchiesta all’italiana» per accertare eventuali responsabilità e, tanto per buttare le mani avanti, le consuete divagazioni letterarie sulla «cieca e diabolica forza della natura» che annichiliscono con inesorabile fatalità il genio dell’uomo. Paccottiglia demagogica, si dirà, per cui non vale la pena di perder tempo.”

Sabato 12 ottobre il giornale dedica al Vajont 4 pagine su un totale di sole 12. In prima pagina il titolo a 9 colonne recita: “E’ STATO UN ASSASSINIO!”, e l’occhiello: “LA TREMENDA DENUNDIA DEI SUPERSTITI DAVANTI ALLE MACERIE”. Come si può notare non vengono utilizzati mezzi termini e questo alimenta maggiormente il conflitto che si scatena anche dalle pagine dei giornali con “l’Unità” pronta a screditare i “giornalisti borghesi”, tra cui Cavallari preso particolarmente di mira, il “Corriere della Sera” e “Il Giorno”, anche se un po’ tutte le testate avrebbero dovuto essere bersaglio degli attacchi comunisti. Le reazioni negli altri giornali si fanno, a volte più moderate e tra le righe, come Cavallari quando scrive “giustizia senza rissa” oppure altrettanto vigorose come Montanelli che grida additando agli “sciacalli comunisti”28.

Continua la lotta contro il monopolio dell’industria elettrica. Sempre sabato 12, con l’articolo “I responsabili”, Aniello Coppola commenta:

“Ci vuole ben altro che il piagnucolio dei retori che pontificano su tanti giornali per far credere a chi è scampato alla morte che questo sia il momento di piangere sull’inanità dell’ingegno umano di fronte alle forze della natura. […] E’ stato un assassinio! Con queste parole si è espressa oggi la collera dei sopravvissuti di fronte al presidente del Consiglio”.

L’articolo di Piero Campisi, in prima e dodicesima pagina, “Il PCI chiede un’inchiesta parlamentare” avvisa i lettori dell’imminente consegna del “Libro bianco sulla tragedia del Vajont”29 alle autorità competenti. E’ interessante notare come il termine diga sia a volte sostituito da “micidiale pericolo”, “autentico pericolo pubblico” e come sia costante il richiamo ai “criminosi piani del monopolio”, ai “rapaci monopoli elettrici”, al “crimine vero e proprio”.

Estremamente numerosi i termini che richiamano la rabbia espressa dai comunisti, quindi “collera”, “pericolo”, “assassinio”, “indignazione”, “protesta” o espressioni quali “uccisi nel sonno migliaia di uomini”, “genocidio”, “carneficina”, “orrendo massacro”, “strage” che richiamano da un lato la presenza di un colpevole certamente identificabile come responsabile dell’accaduto, dall’altro la reazione della gente che, malgrado lo choc subito, non lesinerà di chiedere giustizia alle fonti uf

28 Da una nota della Merlin: “E Montanelli sulla «Domenica del Corriere»: «Quella di Longarone è una tragedia spaventosa. Ma nella vita delle Nazioni ci sono, appunto, anche le tragedia spaventose, le carestie, pestilenze, i cicloni, i terremoti. Ciò che conta è di saperle affrontare con coraggio, senza farne pretesto di odi e di divisioni interne […] Se certe reazioni sbagliate venissero dai poveri sopravvissuti che nella catastrofe hanno perso tutta la loro famiglia, non dico che le approverei, ma le comprenderei e giustificherei. Ma qui vengono invece dagli sciacalli che il partito comunista ha sguinzagliato, dai mestatori, dai fomentatori di odio. E sono costoro che additiamo al disgusto, all’abominio e al disprezzo di tutti i galantuomini italiani»”. 29 Il Libro bianco sulla tragedia del Vajont è la documentazione presentata dalla delegazione parlamentare del P.C.I. al Presidente della Repubblica Antonio Segni il 13 ottobre 1963. E’ diviso in 4 parti. La Parte I comprende la documentazione tratta dagli Atti del Enti locali, di organizzazioni, consorzi, ecc. relativi ai problemi della Valle del Vajont. La Parte II raccoglie la documentazione tratta dagli Atti parlamentari relativi ai problemi della montagna e della Valle del Vajont. La Parte III illustra la documentazione tratta dalla stampa. La Parte IV comprende la documentazione su notizie e informazioni varie raccolta sulla tragedia del Vajont.

ficiali, per esempio, al Presidente del Consiglio Giovanni Leone, al Ministro dell’Interno Mariano Rumor o al presidente della Repubblica Segni in visita al Vajont.

Domenica 13 ottobre a pagina 3 compare un titolo in 9 colonne: “ATTO DI ACCUSA”, con un occhiello che recita: “Oggi sarà presentato al presidente Segni il / «Libro bianco» sulla tragedia del Vajont”. La pagina tocca argomenti ormai noti dalla rabbia per la giustizia al governo mafioso, non senza tirare in ballo gli equilibri internazionali e il sistema di fondo che è il capitalismo mondiale, come fa Mario Alicata nel suo articolo intitolato “Rischio calcolato”, nel quale afferma:

“Il «rischio calcolato» dei dirigenti del monopolio elettrico SADE s’inserisce nella stessa «visione del mondo» che ha potuto portare i gruppi dirigenti dell’imperialismo ad impostare per anni tutta la loro politica sul «rischio calcolato» d’una guerra termonucleare, ed è una «visione del mondo» che sta giù ben oltre il cinismo: è già follia, criminale follia”.

Lo scritto di Alicata inizia riprendendo le parole di uno degli articoli di Tina Merlin. Emblematico il titolo dell’articolo centrale di Piero Campisi: “Il governo rifiutò / di intervenire / contro la SADE” e continua spiegando dettagliatamente come avverrà la consegna del Libro Bianco ripercorrendo le tappe nelle “il ministero […] dava una valida mano al monopolio, per aiutarlo a zittire chi voleva impedire un’opera che veniva già allora considerata come un’autentica minaccia per molti Comuni”. La pagina si chiude con, sulla destra, l’articolo di Stefano Falco che titola “2 settembre: Erto lancia / l’allarme a tutte le autorità”, rilevando per l’ennesima volta gli appelli lanciati dal Comune in tempi precedenti e rimasti inascoltati.

La pagina 7 è dedicata a Tina Merlin, che “aveva scritto a chiare lettere tutta la verità”, come recita l’occhiello. Sopra una grande foto di Longarone distrutta un titolo grande annuncia “TUTTI SAPEVANO / NESSUNO SI MOSSE”. Due sono gli articoli che compaiono in questa pagina: “Il «colpo» / della verità” di Aniello Coppola e “Magari fosse riuscita a / turbare l’ordine pubblico!” di Tina Merlin. Le seguenti 4 righe, dall’articolo di Coppola, illustrano quale sia il tono generale all’interno della pagina. La rivendicazione al diritto di protesta per aver parlato a tempo, l’orgoglio dell’onestà rispetto allo stato corrotto, l’inclinazione da parte della testata ad identificarsi continuamente con la propria giornalista e, quindi, a brillare di luce riflessa:

“IL COLPO giornalistico è tutto qui: nella diligenza, nello scrupolo, nell’onestà professionale e politica di una

giornalista che vuole la verità e che ha a sua disposizione il giornale che dirla perché non ha paura della SA

DE né delle denuncie della polizia, perché non riceve soldi dalla Confindustria, perché non ha rispetto per i

ministri Togni e Zaccagnini.”

Nelle pagine de “l’Unità” ampio spazio è dedicato agli articoli che ripercorrono, in modo anche particolareggiato la recente e bizzarra storia del Vajont: l’ingegnere capo del Genio Civile di Belluno messo in disparte perché tentava di imporre alla SADE il rispetto delle procedure30, i numerosi

30 “L’Unità”, domenica 13 ottobre, p. 8, dal titolo “Sade intoccabile: trasferito chi denunciava il monopolio”, non firmato.

raggiri di cui sono state vittime gl’ignari ertani31 oppure i movimenti perturbatori del “Consorzio per la difesa della valle ertana”32.

In definitiva questi sono gli argomenti toccati in particolar modo da “l’Unità”. Merito maggiore del quotidiano è tuttavia l’aver parlato con costanza del Vajont anche negli anni a seguire, dando prova di coerenza e dimostrazione che l’opportunismo non fu il fattore primario nei giorni caldi dell’ottobre 1963.

Dall’atteggiamento aggressivo e battagliero de “l’Unità” si passa a quello diametralmente opposto de “Il Gazzettino”, il quale dice meno di quello che dovrebbe anche in considerazione del fatto che dal giornale locale ci si aspetta sempre la più viva e sincera partecipazione ai fatti che sconvolgono la gente del quartiere. Il foglio democristiano è spesso presente nei locali pubblici e nei punti vendita e le persone si identificano con questa testata. La situazione però è critica. “Da una parte è giornale del governo33 e dall’altra è giornale popolare. Impresa difficile accontentare gli uni senza scontentare gli altri”34.

Gli argomenti toccati sono principalmente il lutto e la pietà unanimi e il fervore dei soccorsi nonché l’assicurazione del doveroso e risolutore intervento delle autorità competenti. Non si accennerà quasi mai alla parola “responsabilità umane”, dando per scontato che di questo non si può o non si deve trattare. Nel descrivere il ruolo della “Natura” ne porrà in luce sovente il duplice aspetto di forza benefica che dà sostegno all’uomo e di potenza incontenibile nel momento in cui si rivolta e scatena la sua violenza.

Il venerdì 11 ottobre in prima pagina sotto il titolo e due grandi fotografie del luogo devastato dall’inondazione, compare il servizio di Vittorio Cossato, e come sottolinea Isnenghi35: “Sotto il titoletto depistante Stabilimenti distrutti, l’inviato affronta l’interrogativo che «la gente si pone» e che anche a lui «appare giustificato», e cioè: «Ma è proprio stata senza preavviso la catastrofe?». Riferisce che «Le popolazioni erano allarmate». Pur con cautela […] Cossato sembra inclinare verso l’ipotesi interpretativa che più nettamente affiora a pagina 4, nel pezzo di Gervasoni, La montagna ha tradito / La diga ha resistito.

Ecco che “Il Gazzettino” si avvale d’una chiave di lettura assai diffusa, adottata dalla maggior parte dei giornali, soprattutto quelli istituzionali come “l’Osservatore romano” o il “Popolo”.

31 “L’Unità”, domenica 13 ottobre, p. 9, dal titolo “Rapina tutto, anche l’acqua che Dio manda” di R. Galimberti. 32 “L’Unità”, domenica 13 ottobre, pp. 7 e 8, dal titolo “Magari fossi riuscita a turbare l’ordine pubblico!” di T. Merlin. 33 Se la stampa si è dimostrata tutt’altro che libera bisogna ricordare che la televisione era maggiormente assoggettata alla politica e alla censura di governo. Bruno Ambrosi, giornalista di RAITRE, all’epoca occupatosi del caso Vajont, racconta i rimorsi per aver accettato i numerosi tagli ai servizi che esaltavano la forza devastante della natura. 34 Mario Isnenghi, cit. 35 Riporto ciò che ha scritto Mario Isnenghi perché de “Il Gazzettino” mi è stato impossibile trovare una copia del giornale di venerdì 11 ottobre 1963.

L’attenzione è focalizzata sugli effetti materiali e psicologici, talvolta indugiando sulle storie human interest dei sopravissuti, e sull’efficienza dei soccorsi, sulla prodigalità degli aiuti, sull’assicurazione che lo Stato è presente e premuroso, che di più non può fare. Poco spazio all’indagine, al reperimento di informazioni e dati da utilizzare per scoprire – prima della sentenza ufficiale della magistratura che, si sa, impiegherà degli anni – se veramente la tragedia fosse prevedibile e in che misura. Raramente, come si è ampiamente visto, e con timidezza si è accennato a qualche ipotesi di implicazione dei tecnici laddove era necessario scagliarsi, se non con violenza, con una certa determinazione per esigere giustizia. L’editoriale del direttore Longo di domenica 13 “Giudicare dopo” rispecchia l’atteggiamento della stampa, con il motivetto “giustizia senza rissa” che traspare dalle pagine di tanti quotidiani, e si pone a metà tra il solito anticomunismo anni ’50 ed una fruttuosa prudenza nei giudizi, costantemente nell’inquietudine d’importunare il palazzo.

Il resoconto patetico e minuzioso già dal venerdì successivo dei soccorsi, degli scavi senza alcuna speranza, dei corpi trucidati sollevati dai numerosi volontari, come hanno sostenuto in molti, ad un secondo livello di lettura, ci comunica il desiderio da parte di certa stampa di chiudere il prima possibile la faccenda, forse dettato da strani e angoscianti presentimenti. Il “Corriere della sera” in questo si distanzia, perché non è un giornale istituzionale ma moderato. E’, data l’autorevolezza, esso stesso potere. Utilizza alcune categorie interpretative comuni ad altri giornali, “assieme però all’aspirazione a far giornalismo, raccogliere notizie e commenti in proprio, e non solo al seguito di qualche autorità. Certo, è questione di forza della macchina-giornale, ma anche di diversità di concezione e di stile.”36

Concezione e stile completamente diversi ne “Il Gazzettino” che sempre nel timore di uscire dalle righe compie un oscuro lavoro atto a rafforzare e cementare l’ordine costituito.

Un esempio eclatante di mistificazione della notizia ci viene presentato sabato 12 ottobre a pagina 5, nella quale viene pubblicato un articolo dal titolo “LA GIGANTESCA FRANA PROVOCATA DA UN TERREMOTO?”. Al suo interno si rileva che “non deve essere considerato la vera causa del pauroso fenomeno geologico, ma la causa occasionale cioè quell’ultima goccia che fa traboccare un vaso già colmo”. Un titolo così forte, anche se limato da un articolo corretto e attenuato da un vago punto di domanda, proietta il lettore e lo invita ad un’interpretazione “a pelle” dell’accaduto che è deviante rispetto alla realtà dei fatti. Il “Corriere della Sera” dà la stessa notizia in terza pagina, ma nella parte bassa di una sola colonna dal titolo “Bendandi conferma / che vi è stato un terremoto”.

Domenica 13 ottobre, come già accennato, l’editoriale in prima dal titolo “Giudicare dopo” del direttore Giuseppe Longo è emblematico della linea adottata dal giornale. Viene rimarcata la necessità di non dare giudizi avventati, anche se viene presa in considerazione l’ipotesi che la catastrofe potesse essere parzialmente prevista e che vi possano essere delle responsabilità umane. L’articolo è bilanciato, e se nel secondo paragrafo esprime il dubbio sull’idea della fatalità verso la fine viene ribadita la condanna al foglio comunista, reo di aver dato giudizi senza aver alcuna prova in tasca.

“E’ giusto, è legittimo, è logico che tutti vogliano sapere. Perché la mente non si appaga dell’idea della fatalità. E si vuol sapere se è vero che la catastrofe avrebbe potuto essere preveduta, e se essendo prevista, a

36 Mario Isnenghi, cit.

vrebbe potuto essere scongiurata, o attutita nelle conseguenze, e se, comunque ci sia stata trascuranza, omissione, italico fatalismo, imprevidenza, colposità, e fino a quale limite, nell’annunciare il pericolo. […] La stampa comunista, secondo il suo tornaconto, accusa il sistema, accusa questa nostra democrazia, e ne chiede la revoca, quasi che nelle beate terre dove il sistema è diverso, non avvenissero sciagure e tutto fosse perfetto a causa dell’avvento della rivoluzione marxista. Ma non si limita ciò. L’invettiva, in fin dei conti, è una figura retorica che ai comunisti piace.[…] Giudicheremo dopo, non prima. Di fronte alla grande tragedia cerchiamo di dare spettacolo di serietà.“

Lo stesso giorno, in prima e in seconda, è interessante il lungo articolo di Vittorio Cossato dal titolo “Storia di una diga e delle sue vicende” e ripercorre la vicenda della diga dai primi sopralluoghi negli anni ’30 sino alle importanti fasi di collaudo. Con tono pacato e dovizia di dettagli viene accennata l’ipotesi dell’errore tecnico, ma viene anche ribadito che non si possono al momento dare giudizi di merito.

“Noi non siamo in grado, nessuno, in questo momento, è in grado di affermare, in buona fede e con assoluta certezza, che colpa c’è stata. Intendiamoci, noi e nessuno possiamo, d’altra parte, dire che colpa non c’è stata, che non c’è stata trascuratezza.”

L’articolo di Cossato compie una buona descrizione dell’accaduto, anche se si limita a citare tra i possibili colpevoli alcuni geologi, tra i quali il defunto prof. Dal Piaz, senza posare alcun sospetto sull’operato della principale responsabile, la SADE.

Un caso particolare: una pagina de “Il Giorno”

“Il Giorno” di venerdì 11 ottobre 1963 presenta una pagina emblematica. Non si vuole – e sarebbe deviante – tentare di ricostruire la linea ideologica adottata dal quotidiano attraverso l’analisi e la visione di una pagina soltanto, tuttavia quest’ultima presenta degli aspetti interessanti di linguaggio giornalistico. Innanzitutto sono presenti tutti i temi che poi saranno ampliati nel resto del giornale: dall’angosciante remissività di Giorgio Bocca alla ricostruzione storica di Guido Nozzoli, dalle dichiarazioni ufficiali dell’ENEL all’annuncio che “l’Unità” aveva denunciato la precarietà della situazione tempo prima che la tragedia si verificasse.

“Nel 1963 «Il Giorno» è appena al suo ottavo anno di vita[…]. Vuol essere l’anti-«Corriere», l’espressione dei nuovi gruppi dirigenti e dei ceti in ascesa, e in quegli anni vi riesce. Non gli si rende un servizio e non si intende la sua funzione, se lo si pensa, allora, come è divenuto poi: un giornale come altri, che sopravvive alla sua stagione migliore”37. “Il Giorno” ha un linguaggio giornalistico fortemente innovativo, il venerdì 11 è uscito con quattro sovraccoperte ricoperte quasi esclusivamente di fotografie. Anche dai titoli si ricava l’impressione di un lessico acceso, forte, toccante.

La pagina 3 si apre con un titolo piuttosto sobrio, “Il primo giorno dopo il diluvio”, preceduto dal sommario stranamente ridondante “Come si presenta il bacino di Vaiont dopo l’immensa frana

37 Mario Isnenghi, cit.

del monte Toc”. Sulla sinistra dal titolo “Diga perfetta / ma roccia / pericolosa” vi è un articolo dell’inviato Guido Nozzoli che, in due colonne, prima descrive il panorama “da primo giorno dopo il diluvio”, poi ripercorre la recente storia del Vajont ponendo in risalto le voci che avevano contestato la presunta sicurezza della diga. Si domanda se sia “una congiura di fatalità” ad aver portato la morte nel Vajont, e risponde: “Non si sa nulla. Nessuno sa nulla”.

Sulla destra troviamo un articolo, che farà molto discutere, dell’allora giovane inviato Giorgio Bocca, che titola “Non c’è più nulla / da fare o da dire / tra fango e silenzio”. Il pezzo si apre così:

“ECCO LA VALLE della sciagura nel crepuscolo del mattino: fango, silenzio, solitudine. E capire subito che tutto ciò è definitivo: più niente da fare e da dire. Cinque paesi, migliaia di persone: ieri c’erano, oggi sono terra, e nessuno ne ha colpa, nessuno poteva prevedere, nessuno può riparare. In tempi atomici, si potrebbe dire che questa è una sciagura «pulita», gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. Ci vogliono queste sciagure per capirlo: terribile forza della natura che si catena a caso. Non uno di noi moscerini vivo, se davvero la natura volesse muoverci guerra.

Bocca è pervaso da una sorda rassegnazione che trasforma in uno scritto altamente suggestivo e dal linguaggio accattivante, che si snoda tra il “guardare le carogne gonfie” e “contare i cadaveri allineati nei prati” cingendo citazioni colte quali lo shakespeariano “vermi che strisciano fra la terra e il cielo” e i “granelli di sabbia della Bibbia”, per concludere: “noi di fronte al vuoto e all’assurdo”.

Quello che è particolarmente interessante è il piccolo articolo a centro pagina che titola: “Catastrofe / del tutto / imprevedibile / -dichiara / l’ENEL” e che ha probabilmente il ruolo di decodificatore all’interno della pagina, invitando quindi il lettore a leggere le altre notizie da un ottica ben precisa. L’articolo molto breve si apre in modo anomalo con le dichiarazioni dell’ENEL che però non sono virgolettate e, a prima vista, sembrano l’opinione del quotidiano:

“La sciagura del Vaiont non era prevedibile. La diga era solidissima e le acque contenute in margini di assoluta sicurezza. Così afferma in polemica con alcuni giornali un comunicato diffuso dall’ufficio stampa dell’Enel. Esso dice testualmente: «Le notizie pubblicate da qualche organo di stampa in ordine alla prevedibilità dell’evento catastrofico verificatosi nel lago del Vaiont non hanno fondamento […]»”

E’ evidente come l’impatto nel lettore sia molto forte e non si comprende come le prime righe non siano virgolettate anch’esse. La delicatezza dell’argomento invita alla prudenza.

Ancora più significativo è, in basso a sinistra, il minuscolo articolo “I montanari / della valle / «sentivano» / il pericolo”. Dal titolo pare che si raccontino le avvisaglie che la montagna aveva dato agli abitanti attraverso le frane, il piegamento degli alberi, le fessurazioni. Queste sono le prime righe:

“Il pericolo incombente sulla valle del Vaiont fu denunciato da «l’Unità» quando la diga era in stato di avanzata costruzione. Il 5 maggio del 1959, «l’Unità», in una corrispondenza da Belluno, riferì che i montanari della valle si erano costituiti in consorzio per tentare di impedire la costruzione del bacino. Si diceva, infatti, che la massa d’acqua…”

L’articolo racconta del processo vinto dalla giornalista Tina Merlin e dal direttore Orazio Pizzigoni il 30 novembre 1960: anche se questi due nomi verranno citati. La brevità dell’articolo non deve deviare l’attenzione dal fatto che la maggior parte degli altri quotidiani non hanno riferito questa notizia. Il comportamento de “Il Giorno” è nella fattispecie curioso. Avrebbe potuto evitare di parlarne, invece lo ha fatto proponendo soprattutto un titolo deviante rispetto ai contenuti dell’articolo.

In definitiva la pagina 3 de “Il Giorno” offre le notizie principali della giornata precedente senza trascurare nulla, ma dalla sapiente elaborazione di titoli, dall’accostamento di vari articoli, dalla lieve trasgressione di alcune basilari regole comunicative invita con forza – perché di questo si tratta, dato che un lettore attento può facilmente notare le incongruenze – il lettore ad una certa interpretazione rispetto ad un’altra. E non si sta facendo riferimento all’articolo in sé quanto piuttosto all’impaginazione generale che tende a sfruttare in pieno l’occhiata distratta con la quale milioni di persone sfogliano solitamente il quotidiano.

Bibliografia

Corona Mauro, Il volo della martora, Vivalda Editori, 1997.

Dardano Maurizio, La lingua dei media, contenuto nel volume La stampa italiana nell’età della TV 1975 – 1994, a cura di V. Castronovo e N. Tranfaglia, Editori Laterza, 1994.

Libro bianco sulla catastrofe del Vajont, a cura del PCI, Roma 1963.

Merlin Tina, Vajont 1963, La costruzione di una catastrofe, Il Cardo Editore s.r.l. Venezia, luglio 1996.

Papuzzi Alberto, Professione Giornalista, Donzelli editore, 1998.

Paolini Marco, Vajont 9 ottobre ’63. Orazione civile, libro e video, Einaudi Stile libero.

Paolini Marco e Gabriele Vacis, Il racconto del Vajont, Garzanti Editore, 1997.

Ragogna Giuseppe di, Vajont. Un grande romanzo dimenticato, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, novembre 2001.

Reberschak Maurizio, a cura di, Il Grande Vajont, Tipografia Commerciale Venezia, ottobre 1983.

Reberschak Maurizio, Il Grande Vajont. Documenti, Tipografia Commerciale Venezia, ottobre 1983.

Vendramini Ferruccio, a cura di, Disastro e Ricostruzione nell’Area del Vajont, Panfilo Castaldi, Feltre settembre 1994.